|
Il film La dolce vita di Federico Fellini fu presentato al pubblico italiano con due serate di gala: una al cinema Fiamma di Roma, il 3 febbraio 1960, l’altra al Capitol di Milano due giorni dopo. A Roma erano presenti alcune delle attrici che avevano lavorato nel film. A Milano era presente l’autore. Accoglienza tiepida a Roma. A Milano l’accoglienza fu contrastata. Verso la fine del film, durante una sequenza che descrive un’orgia tirata per le lunghe, dalla platea si levò un grido: «Basta!». Fu come una scintilla dalla quale scaturì un incendio destinato a divampare sui giornali nazionali nei mesi successivi.
Pareri discordi
A cinquant’anni di distanza da quello che può essere ricordato come il più clamoroso tra i successi di scandalo del cinema italiano, il Centro Sperimentale di Cinematografia e la Fondazione Federico Fellini pubblicano un ponderoso volume di 744 pagine in carta patinata con la riproduzione fotografica di oltre mille articoli di giornale usciti in Italia sul film tra l’ottobre 1958 e il maggio 1960, provenienti dagli archivi Rizzoli (1).
L’Avvenire d’Italia del 7 febbraio 1960 riferisce le dichiarazioni rilasciate da Fellini a un redattore dell’agenzia Italia a proposito della serata milanese: «Il pubblico era eccezionale. Un pubblico, per intenderci, da prima della Scala. Il film è stato seguito con enorme interesse e con una curiosità che in qualche punto è sembrata persino malsana. A un certo momento, un gruppo di persone ha cominciato a inveire: “Basta! È uno schifo! Qui si danneggia l’Italia”. Si è trattato di una reazione breve, ma piuttosto intensa, subito sommersa dagli applausi di coloro ai quali il film è piaciuto. Quando sono uscito, un tale mi ha sputato addosso. Non so chi sia stato. Mi è sembrato un vecchio. Una signora mi ha chiesto scusa a nome di tutti dicendo che questo gesto rappresentava una vergogna per l’intera Milano» (p. 240).
Il grido «Basta!», risuonato a Milano, fu ripreso da L’Osservatore Romano dell’8 febbraio, che intitolava con questa parola un corsivo non firmato, ma dovuto, come la serie di altri corsivi che seguirono sullo stesso argomento, alla penna del direttore, conte Giuseppe Dalla Torre. Nello stigmatizzare l’operato della critica che aveva colto nel film valori trascendentali, più ancora che morali, L’Osservatore precisa: «Quella critica che non sa o che non osa affermare che il male, il delitto, il vizio ostentato sugli schermi, sviscerato nella psicologia, incarnato nei suoi protagonisti, splendenti in bellezze artefatte e procaci, è incentivo al male, al delitto, al vizio; ne è propaganda». Quanto all’autore del film, è ovvio che egli cerca il successo. «Per la viltà di critica e di pubblico, per l’epidemia, per il contagio della corruzione che irrompe dai giornali, dai teatri, dai romanzi, dai varietà, dagli schermi, egli sa, a colpo sicuro, che bisogna portare in piazza le case chiuse, a costo di rappresentare la società italiana, il proprio Paese, come una immensa “casa aperta”». Con riferimento al grido lanciato nella sala cinematografica milanese, il corsivo così conclude: «Bisogna, è tempo, che quel “basta!” finalmente gridato dagli spettatori si indirizzi ai pubblici poteri cui compete la sanità del costume, e il rispetto al buon nome di un popolo civile» (p. 247).
Il Secolo d’Italia del 7 febbraio non va sul leggero quando, con un corsivo dovuto presumibilmente al suo direttore, on. Franz Turchi, che ha come titolo: «Vergogna!», definisce La dolce vita «un film classista e abile, sovvertitore e antitaliano, corruttore e, in definitiva, stupido», per concludere dicendo: «Questo film-attentato, questo film menzogna, questo film laido è passato tra le maglie della censura. Noi speriamo che le distratte autorità lo tolgano dagli schermi italiani. Il pubblico di Milano — assai più sensibile di quanto non siano stati il ministro per lo Spettacolo e il Turismo, on. Tupini, e il sottosegretario Magrì — ha avvertito l’oltraggio e ha indicato nettamente alle suddette autorità il loro compito» (p. 240).
Sul versante opposto si schierano altri giornali come l’Unità, l’Avanti!, La Voce Repubblicana. Secondo l’Unità del 6 febbraio, nonostante il fatalismo che limita la concezione felliniana dell’uomo, il film riesce a smascherare i falsi miti della nobiltà e del divismo. In un articolo firmato da Ugo Casiraghi si legge: «Per merito di questa formicolante galleria di ritratti, di questa implacabile caccia ai falsi miti, di questa coraggiosa sciorinatura di egoismi, avidità, inquietudini, incoscienze, La dolce vita produrrà un forte e salutare choc, assai vicino allo sgomento, in moltissime categorie di spettatori» (p. 234).
Pur osservando che il film pone molte domande alle quali non sa fornire risposte, Corrado Terzi, sull’Avanti! del 6 febbraio, riconosce che «La dolce vita è un film di grandi qualità. I personaggi e gli ambienti del diario di via Veneto sono collocati su un piano di cruda verità morale e di grande luce poetica […]. Il film inizia con un’immagine stupenda nella sua forza polemica e sintetica: quell’elicottero che sorvola l’acquedotto romano e punta verso il Vaticano reggendo un’immensa statua di Cristo benedicente. In quell’alleanza di progresso tecnico e di irrazionalismo, di scienza e di religione, è perfettamente individuato il conflitto che è alla base delle contraddizioni e dei tormenti della nostra società» (p. 229).
Nel difendere il film dagli attacchi dei suoi accusatori La Voce Repubblicana del 7 febbraio osserva: «Nessuno che abbia un minimo di cervello può pensare che La dolce vita sia l’immagine di tutto un Paese e nemmeno della borghesia italiana, che, con tutti i suoi difetti, è migliore di quella non certo estesa, ma assai vistosa sezione, che è effigiata nel film, ma appunto perché tale sezione è vistosa, e il suo modo di vivere rivela una stortura che ci offende un po’ tutti, essa va individuata e messa in luce» (p. 247).
Mentre il pubblico faceva la fila davanti alle sale dove il film veniva proiettato, alcuni giornali (in particolare Il Secolo d’Italia e l’Unità) aprivano rubriche nelle quali i lettori erano invitati a esprimere il loro parere. Scorrendo le pagine del volume pubblicato dal Centro Sperimentale, si ha quasi l’impressione che in Italia non si parlasse d’altro. Giovanni Mosca, tipico esponente del giornalismo «indipendente», suggeriva al regista sul Corriere d’Informazione del 6-7 febbraio: «Una maggior modestia e un maggior senso della misura avrebbero indotto Fellini a non strafare, a limitare gli scopi e le intenzioni del film, a tagliare quel che andava tagliato, a ridurre a un agile e sincero “documentario” di un’ora e mezzo un ambizioso e spesso noioso polpettone di tre ore» (p. 232).
«Videant consules»
L’offensiva contro il film non accennava a placarsi. La presidenza della Giunta diocesana dell’Azione Cattolica di Roma chiedeva in una lettera indirizzata al ministro Tupini «il richiamo della pellicola perché venga sottoposta alla visione della Commissione di censura di secondo grado per le determinazioni del caso». Il Collegio dei parroci di Roma inviava allo stesso ministro un telegramma di protesta: «Assemblea generale Parroci Romani raccogliendo numerose segnalazioni contro proiezione film La dolce vita eleva vibrata protesta per grave offesa morale et carattere sacro città di Roma». Il senatore missino Franz Turchi presentava un’interrogazione al ministro dell’Interno, oltre che a quello dello Spettacolo e Turismo, per chiedere il ritiro dal circuito di proiezione del film che «presenta un quadro deteriore di ambiente corrotto e degenerato». Anche gli onorevoli Quintieri, Pennacchini e Negroni della Democrazia Cristiana presentarono un’interrogazione contro La dolce vita, chiedendo al presidente del Consiglio, al ministro dell’Interno e a quello dello Spettacolo e Turismo se erano a conoscenza delle «vive reazioni del pubblico che ha assistito alla proiezione del film e delle vibranti proteste di persone e associazioni preoccupate che la rappresentazione di un mondo moralmente deteriore possa gettare un’ombra calunniosa sulla popolazione romana e sulla dignità stessa della capitale d’Italia e del cattolicesimo».
In difesa del film si levarono le voci di noti intellettuali come Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Galvano Della Volpe. Il circolo di cultura «Charlie Chaplin» organizzò un dibattito pubblico che attirò una folla di partecipanti. Moravia introdusse il discorso osservando che La dolce vita spezza alcuni luoghi comuni del cinema. «Abbiamo attraversato un periodo di sonnolenza nel cinema italiano — disse lo scrittore —. Il neorealismo era scaduto a maniera. Per fortuna noi abbiamo un certo numero di registi che hanno cose da dire. Hanno messo sugli schermi degli oggetti, hanno rappresentato la realtà. Nel rappresentare la realtà c’è una forza polemica che va al di là di qualsiasi polemica concettuale» (da Il Paese del 13 febbraio) (p. 339).
Alle parole di Moravia faceva seguito la relazione di Pasolini, basata su un’analisi precisa dello stile del film. «Ciò che conta in Fellini — disse il poeta — è ciò che di eterno e assoluto permane nella sua ideologia genericamente cattolica: l’ottimismo amoroso e simpatetico. Guardate la Roma che egli descrive: è difficile immaginare un mondo più perfettamente arido […]. Ma essere riusciti a vedere purezza e vitalismo in questa Roma arrivista, scandalistica, cinematografara, superstiziosa o fascista, mi sembra una cosa incredibile. Bisogna davvero possedere una miniera inesauribile di amore per arrivare a questo» (ivi).
Nel corso del dibattito Galvano Della Volpe intrecciò una garbata polemica con Moravia a proposito del personaggio di Steiner (Alain Cuny), l’intellettuale che si suicida dopo aver ucciso i propri figlioletti. «Secondo Della Volpe, Steiner rappresenta la lacuna del film perché Fellini non è riuscito a render conto delle motivazioni del suo gesto. Per Moravia, l’unico intellettuale che Fellini prende in scarsa considerazione è Marcello (Mastroianni), il quale avrebbe potuto suicidarsi come Steiner, ma non lo fa. Capisce che l’ambiente di cui fa parte è falso e superficiale, ma non reagisce. Si lascia trascinare dai fatti, ma non cerca di reagire con violenza» (ivi).
L’onorevole Domenico Magrì, democristiano, sottosegretario per lo Spettacolo e il Turismo, rispondendo il 17 febbraio in Parlamento alle interrogazioni che erano state rivolte al Governo, difese l’operato della Commissione di censura, la quale, a suo dire, aveva esaminato il film con l’attenzione che meritava, non ravvisandovi alcun compiacimento per la materia trattata. «Al contrario, vi colse l’evidenza di una rappresentazione drammatica, di una realtà squallida che solo la maturità di una coscienza cristiana può superare». Secondo Magrì, non erano giustificate né le pretese di quelli che dagli episodi denunciati volevano trarre il motivo per facili speculazioni demagogiche, né le eccessive preoccupazioni di quanti temevano che il film potesse danneggiare il buon nome di Roma e dell’Italia. Bene ha fatto pertanto la Commissione a concedere il nulla osta limitando la visione del film ai maggiori di 16 anni.
«Sconsigliato» o «escluso»
La Commissione di revisione del Centro cattolico cinematografico (CCC), che in un primo momento aveva emesso su La dolce vita il giudizio preventivo e provvisorio «sconsigliato», dopo il pesante intervento dell’Osservatore Romano classificò il film «escluso per tutti». Nel render noto, attraverso il suo Ufficio Stampa, l’avvenuta modifica, il CCC precisò: «Il giudizio negativo è determinato dall’impostazione del lavoro […]. Ne La dolce vita non c’è speranza, non rimorso, non possibilità di redenzione. La trascrizione minuziosa di tanto putridume, gli stridenti accostamenti tra il sacro e il libertinaggio, il frasario di alcuni personaggi, che una persona educata non solo non usa, ma evita per proprio decoro di sentire, sono i motivi obiettivi che hanno determinato il giudizio negativo» (da Il Quotidiano, 9 febbraio) (p. 251).
Tre giorni prima, Il Quotidiano, organo dell’Azione Cattolica, aveva pubblicato una recensione positiva del film scritta dal noto studioso Mario Verdone che curava la rubrica cinematografica del giornale. «Gli episodi del grandioso film — scrive Verdone e precisa: “grandioso non perché dura tre ore o perché usa lo schermo panoramico, ma perché si tratta di opera nuova e moderna, che si affianca ai pochi veri capolavori della storia del cinema” — sono tutti significativi e compiuti: dagli svaghi sfrenati alla notte al castello, dalla sera col padre, venuto dalla provincia, al tuffo di Sylvia nella fontana di Trevi…» (p. 208). Il giudizio di Verdone fu successivamente sconfessato dal giornale dove lavorava e dal quale fu licenziato su due piedi.
Tra i pareri sul film riferiti dai giornali c’è quello di Diego Fabbri, commediografo di ispirazione cattolica. «Sono persuaso — egli dice — che La dolce vita sia il fatto culturale più importante di questo dopoguerra. Si parla di scandalo, e sia pure: ma si tratta di quello scandalo salutare di cui parla il Vangelo: Oportet ut eveniant scandala. È lo sbigottimento che ci prende di fronte a una galleria di mostri […] che ci vivono accanto, e non ce ne accorgiamo: mostri che, forse, vivono addirittura dentro di noi, e non ce ne spaventiamo. Mostri di cui abbiamo orrore e, insieme, compassione» (p. 287).
Il Nuovo Cittadino, giornale della diocesi di Genova, scriveva il 6 febbraio: «Con uno stile che trae origine dal “documento”, Fellini ha gettato nel crogiuolo della narrazione tutto il materiale che ha potuto raccogliere risucchiando i rifiuti di una umanità che si sfalda con pericolosa velocità […]. Questo film è coraggioso fino in fondo […]. Fellini può essere giudicato, ora, l’unico regista cinematografico che abbia compiuto un grande atto di bonifica umana e sociale» (p. 212).
Le parole del quotidiano genovese suscitarono un certo scalpore, tanto è vero che, il 9 febbraio, il cardinale arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI, prese carta e penna per scrivere al cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova. La recensione del Nuovo Cittadino, scrive Montini, ha destato a Milano «una sconcertante impressione di stupore e di dolore», poiché «sembra coonestare uno spettacolo sul quale qui sono dati i giudizi più sfavorevoli». Pur ammettendo di non aver visto La dolce vita e dicendo di volersene tenere alla larga, Montini riferisce di aver ricevuto «suppliche e proteste molto gravi» contro il film, con richieste pressanti di «qualche intervento dell’autorità ecclesiastica per farlo togliere dagli schermi». Il carteggio Montini-Siri su questo caso controverso è stato pubblicato da Antonio Carioti sul Corriere della Sera del 9 settembre 2008.
A differenza di Montini, Siri aveva visto il film e non ne era rimasto per nulla scandalizzato. Risponde pertanto al collega milanese con cognizione di causa dicendo di essere d’accordo sull’esigenza di correggere la valutazione del film espressa dal giornale della sua diocesi, ma allo stesso tempo assume un atteggiamento più articolato, rispetto a quello di Montini, distinguendo tra l’inopportunità che i fedeli vedano il film e l’indubbio valore artistico della pellicola. La dolce vita, sostiene Siri, è un «documento del punto al quale siamo arrivati, ben triste e vergognoso», e molti attaccano Fellini proprio perché «vi si sono visti descritti e hanno avuto paura di se stessi». Si tratta dunque di un film «veritiero», da cui emergono «le qualità notevolissime dell’autore», anche se non è conveniente che il pubblico lo veda. Al di là delle distinzioni e delle precisazioni, sembra di capire che il parere del cardinale Siri sul film di Fellini coincide sostanzialmente con quello formulato dal giornale della sua diocesi.
In una dichiarazione apparsa su Il Giorno del 10 febbraio Fellini diceva: «Io voglio sperare che coloro che dicono “basta” lo dicano alla dolce vita e non al mio film. In questo caso sono perfettamente d’accordo: infatti il film vuole proprio dire “basta” alla dolce vita […]. D’altra parte devo dire che mi sento confortato dal fatto che in alcuni ambienti cattolici molto avanzati e intelligenti (ambienti che stimo e che considero “responsabili”) il mio film è piaciuto ed è stato capito nel suo giusto significato» (p. 284).
Genova – Milano – Roma
Nel parlare di ambienti cattolici «avanzati e intelligenti» Fellini si riferiva con ogni probabilità anche al Centro culturale San Fedele, gestito dai gesuiti di Milano, a proposito del quale i giornali riferiscono per accenni notizie non sempre precise. Per sapere come sono andate le cose è opportuno consultare altre fonti. Fellini aveva un rapporto di amicizia fraterna con un gesuita di Genova, il padre Arpa (2). Lasciamo a lui la parola.
«Da tempo conoscevo il cardinale Siri, arcivescovo di Genova, che mi onorava della sua stima. Di tanto in tanto mi chiedeva di poter vedere qualche film di particolare rilievo. L’idea di un colloquio con lui si rivelò proficua: il cardinale manifestò interesse a vedere La dolce vita, di cui tanto si parlava. Organizzai una proiezione privata nel salone dell’istituto Arecco. Invitai anche il mio padre provinciale, Giovanni Colli. Il cardinale seguì lo spettacolo in silenzio. Alla fine, visibilmente impressionato, mi guardò e disse: “Padre, che ne pensa?”. Risposi: “Eminenza, non è un film facile; per certi aspetti è un film inquietante, ma decisamente nuovo per lo stile e l’imponenza delle sue suggestioni. È imprevedibile l’impatto che avrà sulla gente, ma il grande pubblico, non fosse altro che per curiosità, andrà a vederlo in massa. Per questo, a mio avviso, non andrebbe classificato come escluso per tutti, ma per adulti con riserva o tuttalpiù sconsigliato”. Il cardinale annuiva» (3).
Siri, oltre che presidente della Cei, era presidente della Commissione episcopale per l’alta direzione dell’Azione Cattolica, dalla quale dipendeva il CCC. A questo suo tacito consenso si deve con ogni probabilità il primo giudizio «sconsigliato» emesso dal CCC, poi modificato in «escluso per tutti». Prosegue la testimonianza di Arpa: «Il cardinale, dopo breve pausa, tutto solo concluse: “Questa Dolce vita bisognerebbe farla vedere ai miei seminaristi del quarto anno di teologia, perché si rendano conto di quanto è brutto il mondo”. Poi si trattenne a conversare con padre Colli, che a suo modo e con valutazioni abbastanza caute non condannò il film» (4). Era la sera del 30 gennaio. Il film sarebbe uscito nelle sale la settimana successiva. Il giorno dopo, la scena si sposta da Genova a Milano e, anche qui, cediamo la parola a un testimone diretto: il padre Alessandro Scurani che così ne scriveva su Terra Ambrosiana, periodico della Curia di Milano, nel 1995.
«A fine gennaio 1960 giunse al Centro culturale San Fedele dei gesuiti di Milano, di cui facevo parte da pochi mesi, la proposta, attraverso il padre Arpa e con l’approvazione del cardinale Siri, di proiettare in anteprima nella nostra saletta il nuovo film di Fellini. Sarebbe stato presente anche il regista, desideroso di discuterlo prima che uscisse. Alla proiezione parteciparono sette padri e una settantina di critici e giornalisti su invito […]. Il giudizio sul film fu unanime. Nonostante qualche scena scabrosa e alcune difficoltà d’interpretazione, il messaggio del film era preciso: una denuncia coraggiosa dello stile di vita di alcuni ceti della società e di certe ambiguità della religiosità, anche popolare […]. Nell’entusiasmo del momento padre Arcangelo Favaro, direttore del Centro San Fedele, si lasciò sfuggire una frase compromettente: “Questo film ha su di sé il sigillo di una porpora…”» (5).
Padre Favaro si riferiva, evidentemente, al parere positivo che sul film era stato espresso, forse più tacitamente che esplicitamente, dal cardinale Siri dopo la proiezione avvenuta nel salone dell’Arecco. Altre testimonianze consentono di precisare che il parere di coloro che hanno assistito all’anteprima a San Fedele non fu unanime. Oltre ai giornalisti e alle personalità del mondo della cultura, che erano state invitate, è probabile che nella saletta del Centro San Fedele fosse presente qualche «infiltrato». «Un autorevole mecenate, che si era distinto nella costruzione di nuove chiese a Milano [il commendator Giordano Dell’Amore, presidente della Cariplo], era rimasto scandalizzato soprattutto per il riferimento al “sigillo di una porpora” e se ne era andato indispettito, dicendo che avrebbe riferito la cosa al cardinale Montini» (6).
Questi avrebbe voluto che la rivista Letture dei gesuiti di Milano non si occupasse favorevolmente del film. Espresse il suo desiderio a voce e per iscritto al padre Alberto Bassan, superiore della comunità della quale facevano parte sia il Centro San Fedele sia la rivista Letture. Non ravvisando nelle parole del cardinale un ordine perentorio, padre Bassan, dopo essersi consultato con i superiori maggiori dell’Ordine a Roma, e con alcuni padri della comunità, ritenne che «il servizio della verità e della Chiesa esigesse non una posizione polemica, ma un’equanime e approfondita analisi, che prescindesse del tutto dalle dispute in corso» (7). L’incarico di redigere l’articolo fu affidato al padre Nazareno Taddei, critico cinematografico di Letture, e fu pubblicato nel fascicolo di marzo. La reazione di Montini non si fece attendere.
«Obbligato a vedere ogni cosa soprattutto in funzione dell’Onore di Dio e del bene delle anime — scrive il Cardinale al padre Bassan il 22 marzo —, sono costretto a deplorare l’esaltazione che il Rev. P. Nazareno Taddei S.J. fa sul fascicolo 3 della rivista Letture del film La dolce vita […]. Non voglio contestare le buone intenzioni di P. Taddei; e voglio augurare che anche da così biasimevole film posano derivare benefiche reazioni. Ma la sua apologia ne aggrava l’influsso e ne estende la diffusione, e soprattutto disarma il giudizio morale, contraddice a criteri fondamentali della nostra educazione, rompe l’argine della difesa pastorale del nostro popolo alla dilagante immoralità delle scene. Per quanto è ancora possibile, tale fascicolo dev’essere ritirato dalla circolazione, almeno nella diocesi di Milano» (8).
La vertenza aveva raggiunto un livello tale che non poteva rimanere circoscritta entro i confini della diocesi ambrosiana. Da Roma intervenne il Sant’Uffizio, che si occupò di questo argomento nella «plenaria» del 16 marzo, quando venne intimato un «monito» ai padri Bassan, Favaro e Arpa per l’iniziativa di proiettare in anteprima il film a San Fedele e «per l’apprezzamento favorevole dato al soggetto rappresentato». Nella «plenaria» del 30 marzo il Sant’Uffizio si occupò dell’articolo del padre Taddei pubblicato dalla rivista Letture. Fu decretato che venissero ritirate dal commercio le copie della rivista; che il padre Taddei fosse trasferito ad altro ufficio, «in cui egli non debba occuparsi di cinematografia o di critica del libro»; che allo stesso padre Taddei fossero applicate altre restrizioni canoniche a giudizio dei suoi superiori. Nella «plenaria» del successivo 14 dicembre il Sant’Uffizio decretò il cambiamento del superiore della comunità di San Fedele, padre Bassan (9).
Una lite in famiglia
Che cosa dice il padre Taddei nel suo articolo? Applicando il metodo della «lettura strutturale» del film, il critico di Letture sostiene che elementi portanti del film sono il prologo (con gli elicotteri e la statua del Cristo) e l’epilogo (con il mostro sulla spiaggia e la ragazzina innocente, Valeria Ciangottini, che sorride a Marcello). Tutto il resto del film va interpretato nel contesto di questi due elementi, che sono come i pilastri che sostengono l’arcata di un ponte. «È un’intuizione splendida — scrive Taddei — quella che ha guidato Fellini nell’aprire il film con la sequenza del Cristo e nel chiuderlo con quella di Paolina [la ragazza che sorride]: l’intuizione dell’Incarnazione del Cristo che continua — sebbene non avvertita — nel suo Corpo mistico e che si fa visibile attraverso il volto dell’innocenza in un mondo impastato di peccato» (10) .
Tra la statua del Cristo che vola e il sorriso di Paolina sulla spiaggia del mare, il film procede per tre ore tra «ambienti equivoci, situazioni malsane, cose obbrobriose. Il racconto cinematografico lega strettamente queste sequenze a quella iniziale del Cristo, cosicché, cinematograficamente parlando, il Cristo scende sulla terra di oggi ed entra in quel mondo» (11). Passando alla «valutazione tematica del film, il critico di Letture asserisce che «Fellini constata l’inautenticità di certo modo di vivere tipico del nostro tempo, constata l’ansia di un’autenticità che tuttavia permane nel fondo degli spiriti e che si rivela nell’incapacità di soddisfare quella vita; intuisce quali siano le porte aperte su quella autenticità e intravede tutto il valore della soluzione cristiana» (12).
Nell’autunno di quello stesso anno, padre Enrico Baragli, critico cinematografico della Civiltà Cattolica, pubblicò sulla nostra rivista due lunghi articoli nei quali, tracciando un bilancio di ciò che nei mesi precedenti era stato scritto, in bene e in male, a proposito del film, si schierava dalla parte degli «avversari» di Fellini e demoliva le tesi di coloro che avevano cercato di difendere il regista e la sua opera. A proposito dell’articolo di Taddei, egli scrive: «Anche per un noto critico cattolico “il film è sostanzialmente cristiano”; tuttavia, per quanto abbiamo letto, riletto e soppesato, con animo quanto più ci è stato possibile sereno, gli argomenti apportati a sostegno di questa sua ardua tesi, confessiamo che non siamo riusciti a giudicarli probanti; anzi qualcuno ci è parso paradossale, tanto che abbiamo finito col supporre che alla obiettività del critico abbia fatto velo una in sé lodevole e tutta apostolica sollecitudine verso il regista» (13).
Dopo aver scorso le espressioni con le quali Taddei definisce di volta in volta il film, con qualche incertezza terminologica, «sostanzialmente cristiano», «precristiano», «opera di pensiero perlomeno naturaliter cristiano», Baragli conclude: «Per quanto rispettosi delle opinioni altrui, soprattutto se suffragate da argomenti che almeno abbiano qualche pervenza di validità, non ce la sentiamo di passare questo film per cristiano; tanto meno per cattolico; anzi, neanche per religioso» (14). Il film di Fellini è riuscito dunque a mettere l’uno contro l’altro anche due gesuiti, entrambi esperti di cinema, inseriti nelle redazioni di due prestigiose testate. Si è trattato di una lite in famiglia che ha provocato dolorose conseguenze in coloro che ne furono coinvolti (15).
Ritornando sull’argomento in un articolo scritto nel 1993, dopo la morte del regista, Taddei ricorda i colloqui avuti con Fellini mentre stava scrivendo l’articolo per Letture, che tante pene gli procurò. Persuaso, in base all’applicazione del suo metodo di «lettura», che il sorriso di Paolina alla fine del film rappresentasse la Grazia, Taddei nutriva qualche dubbio circa le intenzioni con le quali il «vitellone» Fellini avrebbe accettato di misurarsi con una tema così… teologico. «Nei nostri incontri non si era mai parlato di “Grazia”. Un giorno gli chiesi: “Cos’è, secondo te, la Grazia di Dio?”. Mi rispose di botto: “Che cos’è la Grazia se non quella realtà, come Paolina, che tu non capisci e la rifiuti; e lei sorride e ti dice: Vai pure! Mi troverai sempre qui ad aspettarti”?». Taddei commenta: «Risposta teologicamente perfetta, espressa però con linguaggio non da trattati teologici, ma con parole semplici, che concentrano il discorso che aveva fatto con immagini tutt’altro che devote» (16).
I sette vizi capitali
Ai tempi della Dolce vita c’era un altro gesuita, amico di Fellini e di Diego Fabbri, studioso di Italianistica, fondatore e animatore del Centro artistico «Il Grattacielo» di Livorno: il padre Egidio Guidubaldi (17). Quando esplose lo scandalo Dolce vita, si stava occupando di oratoria sacra del Seicento (Segneri, Bartoli e altri). Disse che, secondo lui, il film, assomigliava a un quaresimale barocco. A imitazione di quanto facevano i grandi oratori in quello che gli spagnoli chiamano el siglo de oro, Fellini prende di mira i falsi valori che affascinano l’uomo del suo tempo: la ricchezza, la bellezza, la superstizione, la cultura degli pseudo-intellettuali, la nobiltà che ha perduto il suo scopo, la ricerca sfrenata del piacere… Tra le diverse interpretazioni che sono state avanzate sul film, quella di Guidubaldi può essere ritenuta valida anche da chi, non avendolo mai visto, volesse vederlo con gli occhi di oggi.
Dal volo della statua di Cristo, che pende da un elicottero e getta la sua ombra sulle vestigia dell’antica Roma, al sorriso di Paolina, intesi come segni nei quali non si può non cogliere l’indicazione di qualcosa che è alto e puro, anche se è difficile riconoscervi, come fa Taddei, riferimenti impliciti, ma inequivocabili, alla dottrina del Corpo mistico, si snodano sette episodi, dedicati ad altrettanti vizi capitali che si presentano in forma di allegorie barocche. Sono tentazioni con le quali il male seduce l’uomo nell’attuale società opulenta. Sette falsi valori.
La ricchezza è rappresentata da Maddalena (Anouk Aimée), un’ereditiera ninfomane, che attira Marcello sul letto di una prostituta. La bellezza è rappresentata da Sylvia (Anita Ekberg), un’attrice straniera che trascorre a Roma una notte pazza in compagnia di Marcello. La superstizione è rappresentata da un falso miracolo al quale Marcello assiste per dovere professionale: è giornalista. L’amico Steiner invita Marcello a un party che si svolge in un salotto letterario: cultura superficiale e inautentica. Una visita del padre (Annibale Ninchi), che viene dalla provincia, lo mette a confronto con la mediocrità piccolo-borghese. La festa dei nobili in un castello e la débauche nella villa di un produttore cinematografico completano il quadro o, per meglio dire, il grande affresco che Fellini ha dipinto con gesto magniloquente.
Ogni tentazione (ogni vizio) costituisce un mondo a sé e assume l’aspetto di una macchina scenica che ha al suo interno un ingranaggio pronto a scattare come una trappola per stritolare l’incauto Marcello o a respingerlo lasciandolo a mani vuote e con la bocca amara. Se è vero che la douceur de vivre rimanda a un pensiero di Talleyrand, il quale diceva che chi non aveva vissuto gli anni prima della Rivoluzione non sapeva cosa fosse la dolcezza di vivere, è vero anche che la morale del film coincide con quella che il cardinale Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, espresse in un distico dettato per la Dafne del Bernini. «Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae / fronde manus implet, baccas seu carpit amaras (Colui che cerca in amore le gioie della forma fugace, riempie le mani di fronde o coglie frutti amari).
***
Copyright © 2010 – La Civiltà Cattolica
Riproduzione riservata
(1) Cfr D. MONETTI – G. RICCI (eds), «La dolce vita» raccontata dagli Archivi Rizzoli, Roma – Rimini, Centro Sperimentale di Cinematografia – Fondazione Federico Fellini, 2010. Le pagine citate nel testo si riferiscono a questo volume.
(2) Il padre Angelo Arpa era nato nel 1909, era entrato nella Compagnia di Gesù nel 1925, era stato ordinato sacerdote nel 1943, aveva svolto la sua attività apostolica prevalentemente a Genova, dove aveva fondato e diretto il Columbianum, un istituto che si proponeva di favorire i rapporti culturali tra Europa e America Latina. Nel 1967, in seguito a inconvenienti economici dovuti alle sue molteplici iniziative (aveva fondato fra l’altro una casa di produzione cinematografica denominata Golden Star) dovette lasciare l’Ordine. È morto a Roma nel 2007.
(3) A. ARPA, «La dolce vita». Cronaca di una Passione, Cantalupo in Sabina (Ri), Edizioni Sabinae, 2010, 13-15.
(4) Ivi.
(5) A. SCURANI, «Magna procella in San Fedele», in Terra Ambrosiana, marzo – aprile 1995, ripreso in Edav. Educazione audiovisiva, n. 229, aprile 1995, 3-6.
(6) N. TADDEI, «La storia della “Dolce vita” comincia…», ivi, n. 230-231, maggio-giugno 1995, 3.
(7) Sono parole della Historia domus della comunità di San Fedele, scritta dal padre Pietro Costa e ripresa dal padre Scurani nell’articolo sopra citato.
(8) Questa lettera di Montini, insieme a un’altra del medesimo allo stesso padre Bassan del 15 febbraio, è stata pubblicata nell’articolo di Scurani sopra citato. Padre Taddei, che diceva di aver conosciuto le due lettere del cardinale soltanto dopo la loro pubblicazione nel 1995, rifiuta i termini di «esaltazione» e «apologia» con i quali Montini si riferisce all’articolo apparso su Letture. Tale articolo, a detta dell’autore, è frutto di una «lettura» del film condotta con metodologia scientifica (cfr «La storia della “Dolce vita” comincia…», cit., 15).
(9) I decreti del Sant’Uffizio con le disposizioni qui indicate sono depositati nell’Archivio della allora Provincia Veneto-Milanese della Compagnia di Gesù. La proibizione al padre Taddei di occuparsi di cinema fu attenuata, qualche anno dopo, da un ulteriore intervento del Sant’Uffizio.
(10) N. TADDEI, «La dolce vita», in Letture, marzo 1960, 215.
(11) Ivi.
(12) Ivi, 217.
(13) E. BARAGLI, «Dopo “La dolce vita”. I: Tra realtà, arte e religione», in Civ. Catt. 1960 III 611.
(14) Ivi, 612 s.
(15) Dopo il primo articolo, sopra citato, Baragli ne pubblicò un secondo sullo stesso argomento: «Dopo “La dolce vita”. II: Critici, registi e pubblico», in Civ. Catt. 1960 IV 155-176.
(16) N. TADDEI, «Fellini», in Edav, n. 214, novembre 1993, 4.
(17) Come molti dei personaggi di cui si parla in questo articolo, anche i padri Bassan, Favaro, Taddei, Scurani e Guidubaldi nel frattempo sono morti.