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Uno dei mezzi privilegiati per definire meglio una realtà e farne risaltare le caratteristiche è metterla a confronto con un’altra realtà, anche a costo di far apparire più duri i lineamenti e di forzare un po’ la contrapposizione. La peculiarità della retorica biblica risalta meglio dal confronto con la retorica classica, che è insegnata nelle scuole da più di 2.000 anni in Europa, poi in America, e più ampiamente in tutto il mondo, dominato ormai dalla globalizzazione. Tanto che la retorica di origine greca e latina è stata considerata per molto tempo come «la» retorica. La più grande istituzione culturale che si occupa di retorica, la «Società internazionale per la storia della retorica», mette al singolare l’ultima parola del suo nome, come quello della sua rivista Rhetorica, di chiara origine latina.
Ora è emerso a poco a poco il fatto che non esiste una sola retorica nel mondo. I coreani, e poi i cinesi, hanno incominciato a partecipare ai Congressi della suddetta Società. Sono state fondate istituzioni nazionali per sviluppare gli studi sulle retoriche specifiche di culture e lingue molto lontane dal mondo occidentale greco-latino: si può citare, fra le altre, la «Società coreana di studi retorici». Dopo il VI Congresso della «Società internazionale per la storia della retorica», tenutosi a Tours nel 1987, la retorica biblica, e più ampiamente semitica, vi ha fatto ingresso e vi è largamente riconosciuta.
La retorica greco-latina
Nel mondo occidentale, erede della cultura greco-romana, la retorica è definita «l’arte del persuadere». Si precisa che è l’arte del «piacere e persuadere», o del persuadere piacendo, del persuadere attraendo. Questa definizione risale ai greci del V secolo a.C., ma si è conservata fino ad oggi. Invece di citare i greci antichi, diamo la parola a Blaise Pascal, che a metà del XVII secolo scriveva: «L’arte del persuadere ha un rapporto necessario con il modo in cui gli uomini acconsentono a ciò che si propone loro, e con le condizioni delle cose che si vuole far credere. Nessuno ignora che ci sono due vie attraverso le quali le opinioni sono accolte nell’anima: esse sono le sue due principali potenze, l’intelletto e la volontà. La via più naturale è quella dell’intelletto, perché si dovrebbe acconsentire sempre e soltanto alle verità dimostrate; ma la via più ordinaria, sebbene sia contraria alla natura, è quella della volontà; infatti, tutti gli uomini sono quasi sempre indotti a credere non dalla prova, ma dal gradimento. Questa via è meschina, indegna e straniera; perciò tutti la disapprovano. Ciascuno dichiara di credere, e anche di amare, soltanto ciò che lo merita»[1].
I luoghi non soltanto simbolici ma effettivi della retorica erano – e rimangono ampiamente – il tribunale per il genere giudiziario, l’agorà per le arringhe politiche e, si potrebbe dire, il palazzo per il discorso dimostrativo o morale.
La retorica biblico-semitica
La peculiarità della retorica biblica, che appartiene all’area geografica e culturale semitica del Vicino Oriente, si comprende meglio per contrasto con la retorica occidentale. Giocando con le parole – che è un buon modo di ragionare –, potremmo dire così: «Il greco dimostra, l’ebreo mostra».
Il greco dimostra: vuole convincere e persuadere, imporre il suo modo di pensare, costringere il suo ascoltatore, attraendolo, ad accettare le sue conclusioni, alla fine di un ragionamento lineare logico-deduttivo, fornito di prove che si considerano determinanti. L’ebreo mostra: indica una strada che il lettore potrebbe intraprendere; è come se gli dicesse: «Se vuoi capire, puoi dirigerti là». Dà fiducia all’ascoltatore e alla sua saggezza, convinto che egli sia in grado di scoprire da sé la verità; ne rispetta dunque la libertà, la responsabilità e la dignità.
La figura di Abramo
In questo senso Abramo, il personaggio che è all’origine del popolo ebreo, può offrire un buon esempio del modo biblico; o piuttosto è il Signore, che lo chiama, a rivelare il proprio modo di procedere. Le prime parole che egli rivolge ad Abramo sono: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). Nessuna dimostrazione, nessuna prova, ma una promessa: «Farò di te una grande nazione» (Gen 12,2). «Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore» (Gen 12,4), senza neppure sapere quale fosse il paese che gli avrebbe mostrato. Abramo parte verso una meta sconosciuta.
«Vattene dal tuo paese». Questa espressione sembra molto enigmatica e ha dato luogo a diverse interpretazioni. Vi si può scorgere, al tempo stesso e in modo paradossale, un invito all’obbedienza e alla libertà, alla responsabilità: «Vattene». Abramo acquista così lo statuto di figura, di modello per tutti coloro che sentono e ascoltano le frasi che si presentano come parola di Dio. Non è inutile metterci, per cominciare, sotto la protezione di questa figura tutelare dell’inizio, e soprattutto seguirla.
Il metodo di Gesù
C’è un’altra figura che ci informa sullo stile biblico, sullo stile di Dio. Capita diverse volte che Gesù risponda a una domanda del suo interlocutore con un’altra domanda. Un giorno un dottore della Legge gli chiede: «Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli risponde: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Egli risponde dunque con due domande. Il suo interlocutore replica subito, mettendo insieme due citazioni tratte dalla Legge di Mosè: «Amerai il Signore tuo Dio […] e il tuo prossimo come te stesso». Egli aveva in sé stesso la risposta alla sua domanda. Allora Gesù gli dice: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma la cosa non finisce qui, perché il dottore della Legge rivolge a Gesù un’altra domanda, sempre per metterlo alla prova: «E chi è il mio prossimo?». Gesù non si sottrae a questa seconda domanda; gli propone una storia – la parabola del buon Samaritano – e poi gli ripropone il suo quesito, capovolgendolo: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Così, per due volte Gesù risponde a una domanda con un’altra domanda (cfr Lc 10,25-37)[2].
La retorica del racconto
La parabola spesso è un racconto, e ogni racconto si distingue da un ragionamento, dal dimostrare; con il racconto siamo invece nell’ordine del mostrare. «Osserva i personaggi, quello che fanno, quello che dicono, e cerca di capire, di scoprire che cosa questo ti voglia dire». Gran parte della Bibbia è composta di racconti: certamente i Vangeli, ma praticamente tutto il Pentateuco, ossia i primi cinque libri di ciò che è chiamato «la Legge». «Legge» si dice in ebraico Torah, che significa «istruzione». Il racconto non dimostra, ma istruisce. Anche i libri successivi, detti «libri storici» o «profeti anteriori», sono racconti.
Ora la storia è enigmatica e dev’essere decifrata per diventare un insegnamento, un’istruzione. È ciò che dice il Salmo 78: «1Maskil. Di Asaf. Ascolta, popolo mio, la mia legge, / porgi l’orecchio alle parole della mia bocca. / 2Aprirò la mia bocca con una parabola, / rievocherò gli enigmi dei tempi antichi. / 3Ciò che abbiamo udito e conosciuto, / e i nostri padri ci hanno raccontato, / 4non lo terremo nascosto ai nostri figli, / raccontando alla generazione futura / le azioni gloriose e potenti del Signore / e le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78,1-4).
La storia è enigmatica, pone un problema, e sollecita quindi una risposta. Una caratteristica della composizione dei testi biblici è che lo sviluppo raramente è lineare, conducendo a una conclusione in cui si enuncia la «soluzione» del problema posto all’inizio e risolto al termine di un ragionamento. Quando il lettore moderno, formato dalla retorica classica, affronta un testo redatto secondo le regole di tale retorica, si tratti di un libro o di un articolo, la prima cosa che fa è consultare l’indice e poi leggere la conclusione, dove è sicuro di trovare il riassunto del testo e i risultati a cui è giunto l’autore.
La domanda al centro
Per quanto riguarda il discorso biblico, esso molto spesso si avvolge su sé stesso, con costruzioni concentriche. Il centro di queste composizioni da molto tempo è stato riconosciuto come la chiave di volta, la pietra su cui poggiano tutte le altre pietre dell’arco o della volta e che assicura la coerenza dell’insieme; è quella grazie alla quale tutto si regge; perciò ne costituisce anche la chiave di lettura. Non si deve dunque cercare la risposta alla fine, ma è al centro che si deve ascoltare la domanda.
Effettivamente, capita spesso che il centro delle composizioni concentriche sia occupato da una frase interrogativa; ma anche da un proverbio – e si sa che i proverbi sono per lo più enigmatici –; oppure da una parabola, che nel linguaggio biblico è una sorta di proverbio sviluppato; e, nei testi del Nuovo Testamento, da una citazione dell’Antico. Insomma, il centro pone un problema, interroga, incuriosisce, e perciò esige una risposta da parte del lettore.
Ad esempio, una lunga sequenza del Vangelo di Luca (Lc 17,11–18,30)[3] è centrata su questa domanda posta da Gesù: «Il Figlio dell’uomo[4], quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Non è indifferente che questa domanda si trovi inquadrata da due parabole parallele che formano insieme la sottosequenza centrale dell’intera sequenza. La domanda sarà dunque, secondo la logica biblica, non soltanto la chiave delle due parabole, ma anche la chiave dell’intera sequenza.
Chi risponderà alla domanda? Non il testo del Vangelo, ma il lettore, e soltanto lui, è incaricato di rispondere, di risolvere l’enigma. Diciamo subito che la risposta attesa dallo scrittore – e dunque da Gesù stesso – non è certamente una risposta teorica, intellettuale, soltanto di ragionamento, ma è una risposta vitale, personale, che riguarda dunque la propria fede, la quale non avrebbe alcun valore e consistenza se non si traducesse in atti[5].
Il contrario della domanda retorica
Questo genere di domande non è affatto della stessa natura di ciò che la retorica classica chiama «domanda retorica», cioè una domanda che l’oratore enuncia per attirare o ravvivare l’attenzione del pubblico, ma a cui si affretta a rispondere lui stesso, senza lasciare la parola ad altri. L’enigma biblico – tutta la sapienza della Bibbia, di cui l’enigma è una caratteristica – è sostanzialmente diverso dai nostri enigmi o dai nostri indovinelli. Questi sono giochi. Quando proponiamo un indovinello, speriamo che l’interlocutore – se pure si può chiamare così – non trovi la risposta. Se egli la dà, vuol dire che la conosceva già, e chi ha posto la domanda non fa una bella figura: il suo gioco non ha funzionato. E quando l’interlocutore conosce già la soluzione, se è cortese, fa finta di non saperla, per lasciare a chi ha fatto la domanda il piacere di dare lui la risposta. Infatti, la sola risposta che si attende dall’interlocutore colui che propone un indovinello è: «Sono incapace di trovare una soluzione. Rinuncio a rispondere». Chi ha proposto l’indovinello è contento quando ha tolto la parola all’altro, il quale dice: «Mi arrendo», come un soldato vinto che depone le armi, riconosce e accetta forzatamente la vittoria del nemico.
Nella Bibbia è tutto il contrario. Quando viene proposto un enigma, non viene data la soluzione; quando si pone una domanda, non viene data la risposta. Soluzione e risposta sono lasciate alla responsabilità del lettore.
«Chi è come il Signore nostro Dio?»
Ecco un altro esempio, quello del Salmo 113:
«1Alleluia. / Lodate, servi del Signore, / lodate il nome del Signore. / 2Sia benedetto il nome del Signore, / da ora e per sempre. / 3Dal sorgere del sole al suo tramonto, / sia lodato il nome del Signore. / 4Su tutte le genti è esaltato il Signore, / più alta dei cieli è la sua gloria. / Chi è come il Signore, nostro Dio? / Egli siede nell’alto 6e si china a guardare / sui cieli e sulla terra. / 7Solleva dalla polvere il debole, / dall’immondizia esalta il povero, / 8per farlo sedere / tra i prìncipi, / tra i prìncipi del suo popolo. / 9Fa abitare nella casa la sterile, / come madre gioiosa di figli. / Alleluia» (Sal 113,1-9).
Il salmo è incentrato sull’unica domanda del testo, posta nel v. 5a: «Chi è come il Signore, nostro Dio?». Anche se la risposta non viene data dall’autore, si può pensare, con la maggior parte dei commentatori, che essa sia così evidente che la domanda non sarebbe altro che una «domanda retorica». In effetti è chiaro che «nessuno è come il Signore, nostro Dio». Ora, si deve sempre diffidare delle risposte ovvie. Oppure, per riprendere una formula frequente: «Attenzione! Una domanda può nasconderne un’altra». L’enigma è duplicato da ciò che si nasconde dietro l’evidenza.
Mallarmé diceva che non si fanno poesie con idee, ma con parole. Per quanto riguarda i testi biblici, occorre sempre fare attenzione alle parole, e in particolare alle parole che si ripetono. Gli psicanalisti dicono la stessa cosa. In questo salmo un verbo è ripetuto due volte: nel versetto 4 come participio e nel versetto 7 al presente. Il Signore Dio è «esaltato», ma non è il solo: anche il povero è esaltato.
La soluzione è molto semplice: basta guardare le parole. «Chi è come il Signore?». Risposta: «Il povero». Detto questo, la prima risposta, quella che viene spontaneamente in mente, non deve essere trascurata, e la risposta completa può essere formulata così: «Nessuno è come il Signore, nostro Dio; nessun altro Dio esalta il povero perché sia esaltato come lui».
Questa risposta, sorprendente e forse scioccante per il non ebreo o il non cristiano che non hanno familiarità con la Bibbia e con i suoi racconti, concorda pienamente con molti altri testi, e anzitutto con il primo racconto della creazione, in cui si dice che Dio creò l’uomo «a sua immagine» (Gen 1,27)[6].
Dio ha fatto soltanto la metà del lavoro
A tale proposito, vale la pena considerare l’enigma proposto dai vv. 26-27 del primo capitolo della Genesi. In effetti, quando Dio decide di creare l’uomo, nel sesto giorno della creazione, dice: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (Gen 1,26). Ma quando passa all’azione, l’autore racconta: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò» (Gen 1,27).
Già nell’antichità i commentatori si sono meravigliati per la differenza tra il proposito e la realizzazione, e si sono posti la domanda: «Dov’è finita la somiglianza?». Questo è un bell’esempio del fatto che, se non ci meravigliamo, se non ci lasciamo sorprendere, se non poniamo domande, non possiamo per nulla capire. Parecchi commentatori hanno interpretato così il versetto: «Dio ha fatto l’immagine, ma ha lasciato all’uomo di fare la somiglianza. Tutta la vita dell’uomo, tutta la sua vocazione non è altro che realizzare, a poco a poco, la somiglianza divina».
Una studiosa ha riscoperto recentemente ciò che i Padri della Chiesa avevano già detto tanti secoli fa, esprimendolo con questa bella formula: «Dove Dio non fa che la metà della sua opera»[7]. Tuttavia possiamo permetterci di criticare questa espressione in nome stesso della logica che ha guidato l’autrice. In realtà, Dio ha fatto tutto il suo lavoro, che consisteva non soltanto nel fare l’immagine, ma anche nel lasciar fare all’uomo la sua parte di lavoro, cioè la somiglianza. Basterebbe sostituire due parole di quella formula con una sola, e la formula sarebbe ancora più espressiva: «Dio non fa che la metà del lavoro». È quella che potremmo chiamare «la legge del fifty-fifty». L’autore di un testo biblico ha fatto la metà del lavoro, lasciando al lettore di fare la sua parte, che è pari alla sua. Si tratta di rispetto e di fiducia da parte di Dio, di responsabilità e di dignità da parte dell’uomo.
Un altro modo di proporre un enigma, di «far pensare», secondo l’espressione di Paul Ricœur, è la paratassi, o giustapposizione: porre due cose l’una accanto all’altra, senza indicare il rapporto che le lega. Ciò significa, ancora una volta, che la scoperta di questo rapporto è lasciata al buon senso del lettore. Eccone un breve esempio:
«Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano,
benedite coloro che vi pregate per coloro che vi
maledicono, trattano male» (Lc 6,27-28).
I due membri del primo segmento sono sinonimi, ma si può anche pensare che ci possa essere una differenza tra «i vostri nemici» e «quelli che vi odiano». Infatti, la parola «nemici» indica non soltanto «quelli che vi odiano», ma anche «quelli che voi odiate», il che non è esattamente la stessa cosa: potrebbero anche non essere le stesse persone. Inoltre, il secondo membro precisa che cosa significa «amare», almeno per colui che parla: «amare» non vuol dire provare o esprimere un sentimento, ma compiere un’azione, quella di «fare del bene».
Anche il secondo segmento comprende due membri. Senza soffermarci sui rapporti fra questi ultimi, dobbiamo esaminare la relazione fra i due segmenti. L’esperienza insegna che capire o far capire non è così facile come si potrebbe immaginare. Il più delle volte bisogna porre alcune domande per aiutare i lettori a cogliere non soltanto la somiglianza, ma anche la differenza tra i due segmenti, la progressione dall’uno all’altro.
La prima domanda è: «Quanti personaggi sono presenti nel primo segmento?». Se la risposta è: «Due: voi e i vostri nemici», si può passare a una seconda domanda: «E quanti personaggi ci sono nel secondo segmento?». Non è il caso di far torto al lettore fornendogli una risposta che egli, evidentemente, è in grado di trovare da sé[8].
Misericordioso e pietoso è l’uomo… come Dio
Ecco un altro esempio, più ampio. I Salmi 111 e 112 sono entrambi salmi acrostici, alfabetici: le lettere con le quali inizia ciascuno dei loro 22 membri sono le 22 lettere dell’alfabeto ebraico, nell’ordine canonico: alef, bet, ghimel ecc. Questi due salmi formano quindi una coppia dal punto di vista formale, sia per l’acrostico, sia per il gran numero di parole che essi hanno in comune (il 43,5% dei vocaboli è comune ai due salmi).
Sal 111
1 Alleluia.
Alef Renderò grazie al Signore con tutto il cuore,
Bet tra gli uomini retti riuniti in assemblea.
Ghimel 2 Grandi sono le opere del Signore:
Dalet le ricerchino coloro che le amano.
He 3 Il suo agire è splendido e maestoso,
Vau la sua giustizia rimane per sempre.
Zain 4 Ha lasciato un ricordo delle sue meraviglie:
Het misericordioso e pietoso è il Signore.
Tet 5 Egli dà il cibo a chi lo teme,
Iod si ricorda sempre della sua alleanza.
Caf 6 Mostrò al suo popolo la potenza delle sue opere,
Lamed gli diede l’eredità delle genti.
Mem 7 Le opere delle sue mani sono verità e diritto,
Nun stabili sono tutti i suoi comandi,
Samec 8 immutabili nei secoli, per sempre,
Ain da eseguire con verità e rettitudine.
Pe 9 Mandò a liberare il suo popolo,
Sade stabilì la sua alleanza per sempre.
Kof Santo e terribile è il suo nome.
Res 10 Principio della sapienza è il timore del Signore:
Sin rende saggio chi ne esegue i precetti.
Tau La lode del Signore rimane per sempre.
Sal 112
1 Alleluia.
Alef Beato l’uomo che teme il Signore
Bet e nei suoi precetti trova grande gioia.
Ghimel 2 Potente sulla terra sarà la sua stirpe,
Dalet la discendenza degli uomini retti sarà benedetta.
He 3 Prosperità e ricchezza nella sua casa,
Vau e la sua giustizia rimane per sempre.
Zain 4 Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti:
Het misericordioso, pietoso e giusto.
Tet 5 Felice l’uomo pietoso che dà in prestito,
Iod amministra i suoi beni con giustizia.
Caf 6 Egli non vacillerà in eterno:
Lamed eterno sarà il ricordo del giusto.
Mem 7 Cattive notizie non avrà da temere,
Nun saldo è il suo cuore, confida nel Signore.
Samec 8 Sicuro è il suo cuore, non teme,
Ain finché non vedrà la rovina dei suoi nemici.
Pe 9 Egli dona largamente ai poveri,
Sade la sua giustizia rimane per sempre,
Kof la sua fronte s’innalza nella gloria.
Res 10 Il malvagio vede e va in collera,
Sin digrigna i denti e si consuma.
Tau Ma il desiderio dei malvagi va in rovina.
Ancora una volta, spetta al lettore scoprire il rapporto che il testo non indica esplicitamente, comunque non nel modo occidentale, con prove e dimostrazioni.
Nel v. 1 del primo salmo l’orante «rende grazie al Signore»; nel v. 1 del secondo salmo dichiara «beato l’uomo» (alef). Così si capisce che l’uomo è messo in parallelo con Dio; tuttavia, non qualunque uomo, ma quello «che teme il Signore», cioè, secondo la concezione biblica, non quello che ha paura del Signore, ma quello che lo rispetta e lo ama.
Si è già detto che occorre fare attenzione alle parole che si ripetono: a maggior ragione si deve fare attenzione ai sintagmi, alle proposizioni ripetute. Qui i membri che cominciano con la lettera vau nel v. 3b sono identici («E la sua giustizia rimane per sempre»). Secondo una delle regole ermeneutiche fondamentali, «quando due cose sembrano identiche, bisogna cercare la differenza»[9]. Qui la differenza è, in termini grammaticali, il referente dell’aggettivo «sua»: nel primo salmo si tratta della giustizia di Dio, nel secondo della giustizia dell’uomo. I due condividono dunque la stessa giustizia.
Si può notare di sfuggita che il Sal 112 insiste ripetendo la stessa frase nel v. 9b (l’unica differenza è che in 9b non è ripetuta la congiunzione «e», cosicché viene rispettato l’alfabetismo, poiché in ebraico «giustizia» si dice ṣedaqa).
Un’altra ripetizione è ancora più sorprendente: i versetti 4b cominciano con due aggettivi identici coordinati, «misericordioso e pietoso». Nel primo salmo essi si riferiscono al Signore, nel secondo all’uomo giusto. È l’unica volta in tutta la Bibbia che l’espressione «misericordioso e pietoso» è attribuita all’uomo, mentre in tutti gli altri casi è una qualifica soltanto di Dio. La cosa è talmente incredibile che alcuni commentatori non possono accettarla, e che già nei tempi antichi la tradizione manoscritta greca aggiungeva «il Signore», per dare un altro soggetto a «misericordioso e pietoso». Ma Dio non aveva forse detto all’inizio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine»? L’autore dei due salmi lo aveva compreso bene, se ha avuto l’audacia di attribuire all’uomo ciò che in tutti gli altri casi è prerogativa soltanto di Dio[10].
L’enigma della mangiatoia e del censimento
Concludiamo questa breve esposizione proponendo un ultimo enigma. L’argomento non potrebbe imporlo, ma è un invito a considerarlo. Il racconto della nascita di Gesù nel terzo Vangelo (cfr Lc 2,1-20) insiste tre volte sul posto in cui sua madre Maria lo ha deposto:
«Lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia» (v. 7).
«Un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (v. 12).
«Il bambino adagiato nella mangiatoia» (v. 16).
È impensabile che una tale insistenza sia casuale, e ancor meno che sia un difetto di stile. Quando eravamo bambini, i nostri maestri, formati alla retorica classica, ci hanno insegnato che bisogna accuratamente evitare le ripetizioni. Nello stile biblico, non è affatto così, anzi le ripetizioni sono importanti. Come nella musica, un tema ripetuto attira l’attenzione, invita alla riflessione e spinge all’interpretazione.
Qual è il significato di tali ripetizioni? Che cosa si mette in una mangiatoia? «Qualche cosa da mangiare», risponderebbe un bambino. Gesù è dunque presentato fin dalla nascita come colui che, invece di divorare gli altri, si dona ad essi come cibo.
Il racconto comincia con la notizia del censimento che l’imperatore di Roma, la potenza che dominava sulla regione in cui Gesù è nato, aveva organizzato in quel tempo. Alcuni esegeti hanno pensato che la questione del censimento non avesse alcuna relazione con il racconto della nascita. Effettivamente c’è da meravigliarsene; ma, invece di dire che non c’è alcun nesso, è meglio cogliere l’enigma e cercare la relazione. Ebbene, perché si fanno anche oggi, come nell’antichità, censimenti? Per sapere di quanti uomini il potere politico può disporre per fare la guerra, e anche per riscuotere le imposte.
Nella storia di Israele, il censimento non era ben visto da Dio, come racconta l’ultimo capitolo del secondo libro di Samuele, che riferisce la storia di Davide (cfr 2 Sam 24). Se i cattivi dirigenti, i cattivi pastori contano le loro pecore, è per tosarle, prendere il loro latte e, infine, mangiarle. Gesù invece è il buon pastore che dà la vita per le sue pecore, fino a dare sé stesso come cibo. Ecco come si può risolvere l’enigma della mangiatoia.
Aggiungiamo un ultimo particolare, ma che ha la sua importanza: la scena si svolge a Betlemme. In ebraico questo nome significa «la casa del pane», e il termine «pane» (lehem) significa più genericamente «cibo». È difficile pensare che qui si tratti di un caso, almeno secondo il modo di ragionare proprio della Bibbia[11].
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BIBLICAL RHETORIC, RHETORIC OF THE ENIGMA
The article deals with the “enigmatic” character of biblical rhetoric, which differs from classical rhetoric, i.e. the Greek “proves”, the Hebrew “shows”. Specific examples include: Abraham’s call (an order without explanation); Jesus and the doctor of the Law (the answer to a question with another question); Ps 78 (the word of God is an enigma to be deciphered); faith in Luke 18:8 (it has no value unless it is translated into deeds); the question: “Who is like God?” in Ps 113 (no one, because only God wants the poor to be exalted as he is); the meaning of “man in the image and likeness” of the Creator; the ambiguity of terms differently attributed to God and man in Ps 111 and 112; “manger” and “census” in the account of Jesus’ birth.
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[1]. B. Pascal, «De l’esprit géométrique et de l’art de persuader», in J. Mesnard (ed.), Œuvres diverses (1654-1657), Paris, Desclée de Brouwer, 1964, 413.
[2]. Cfr R. Meynet, Il Vangelo secondo Luca. Analisi retorica, Bologna, EDB, 2003, 458-464.
[3]. Una «sequenza» è una successione composta e coerente di diversi «passi», o piccole unità, di racconti o di discorsi. La sequenza di Luca di cui si tratta qui comprende 10 passi: anzitutto un racconto, seguito da una domanda posta dagli avversari di Gesù e da un discorso di Gesù, seguito a sua volta da una domanda posta a lui dai discepoli; poi due parabole che inquadrano una domanda; infine un gruppo di tre racconti.
[4]. «Il Figlio dell’uomo» è il titolo che Gesù si attribuisce, riprendendolo dal profeta Daniele: indica colui che regnerà, ma dopo aver attraversato la prova della passione e della morte.
[5]. Cfr R. Meynet, Il Vangelo secondo Luca…, cit., 629-663.
[6]. Per maggiori dettagli su questo salmo, cfr Id., Chiamati alla libertà, Bologna, EDB, 2010, 129-136; Id., «La rhétorique biblique et semitique. État de la question», in Rhetorica 28 (2010) 290-312.
[7]. Questo è il titolo del IV capitolo del volume di M. Balmary, La divina origine. Dio non ha creato l’uomo, Bologna, EDB, 2006.
[8]. Cfr R. Meynet, Il Vangelo secondo Luca…, cit., 214-217.
[9] . Cfr Id., Trattato di retorica biblica, Bologna, EDB, 2008.
[10]. Cfr Id., «Harmonie biblique. Les psaumes 111 et 112», in L’ Harmonie, entre philosophie, science et arts de l’Antiquité à l’âge moderne, Napoli, Giannini, 2011, 219-234.
[11]. Cfr Id., Il Vangelo secondo Luca…, cit., 93-100; Id., «La nascita di Gesù: mangiare o essere mangiato?», in Civ. Catt. 2011 IV 560-568.