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Un funzionario degli Emirati Arabi Uniti, con lunghe vesti fluenti, copricapo bianco ben calcato e il viso coperto da una mascherina protettiva per il Covid-19, sfrega i gomiti con il consigliere per la Sicurezza nazionale israeliano, che indossa un abito elegante, ha la testa coperta da una kippah e anche lui cela il volto dietro una mascherina. Questa scena si è svolta il 1° settembre 2020, quando la prima delegazione ufficiale israeliana in visita ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, stava per mettersi sulla via del ritorno con un volo diretto per Tel Aviv: un momento simbolico del processo iniziato il 13 agosto 2020 con l’annuncio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump che gli Emirati Arabi Uniti e Israele avrebbero stabilito piene relazioni diplomatiche. Poche settimane dopo, l’11 settembre 2020, a 19 anni dagli attentati di Al-Qaeda alle Torri gemelle di New York, è giunto l’annuncio che anche il Regno del Bahrain era pronto a stabilire relazioni diplomatiche con Israele.
Il 15 settembre 2020, sul prato della Casa Bianca a Washington, il raggiante padrino del processo, Trump, ha accolto i suoi ospiti israeliani, degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein per sottoscrivere insieme quelli che sono stati chiamati gli «Accordi di Abramo». L’intesa si apre con un impegno eccezionale: «Noi sottoscritti riconosciamo l’importanza di mantenere e rafforzare la pace in Medio Oriente e nel mondo sulla base della comprensione e della convivenza reciproche, nonché del rispetto della dignità umana e della libertà, inclusa la libertà religiosa».
A qualcuno l’incontro di questi figli di Isacco e di Ismaele, riuniti di nuovo sotto la tenda del patriarca Abramo, è parso l’alba di una nuova era. Come dichiara il documento firmato da Israele e dagli Emirati Arabi Uniti, «le parti si impegnano a promuovere la comprensione reciproca, il rispetto, la coesistenza e una cultura di pace tra le loro società nello spirito del loro comune antenato, Abramo». Ebrei e musulmani, convocati da un presidente degli Stati Uniti, si sono finalmente seduti allo stesso tavolo per costruire un nuovo Medio Oriente. E corre voce che altri Paesi musulmani stiano considerando la propria adesione allo storico processo: Oman, Qatar, Kuwait (altri regni e principati del Golfo) e, forse, interlocutori rilevanti come Arabia Saudita, Sudan e Marocco.
Il mondo, affascinato, è stato a guardare e ha applaudito lo storico evento. Non si tratta tuttavia del primo trattato in assoluto tra Israele e i suoi vicini arabi. L’Egitto aveva firmato un’intesa di pace con Israele nel 1978; la Giordania lo aveva fatto nel 1994; e l’Olp dal 1991 aveva avviato quello che è stato definito un «processo di pace» con Israele e che ha portato alla costituzione dell’Autorità palestinese.
Ma quegli accordi appartengono a un’epoca diversa. Da tempo nella regione le speranze di una pace durevole sono state soffocate dagli eventi. Israele ha continuato a occupare le terre palestinesi, a costruire insediamenti e a rivendicare porzioni sempre più ampie di territorio. I palestinesi hanno reagito furiosamente con la violenza, che veniva intesa come «terrorismo», e Israele ha replicato con una massiccia repressione. Nel frattempo si è diffusa una delusione sempre maggiore nei confronti dell’Autorità palestinese, che spesso appariva più come parte del problema che della soluzione. La retorica radicale islamica e gli slogan nazionalistici sionisti si sono opposti a qualsiasi barlume di speranza che potessero esserci dei progressi.
Pertanto, è vero che a Washington, nel 2020, si è fatta la storia; ma quale tipo di storia? Al di là delle emozioni suscitate dallo spettacolo dei cordiali incontri tra arabi musulmani ed ebrei israeliani, qual è la vera posta in gioco, quando oggi gli accordi e le alleanze cambiano in Medio Oriente? Qual è il processo guidato per mano dall’amministrazione statunitense, abbracciato dal governo israeliano e sostenuto dai potentati del Golfo? Potrà portare alla pace tanto attesa, per la quale pregano in tanti?
Relazioni non proprio nuove
Innanzitutto, è importante sottolineare che i rapporti tra Israele, da un lato, e gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, dall’altro, non sono nuovi. L’inizio dei contatti risale a quando Israele e l’Olp avevano avviato le relazioni reciproche, negli anni Novanta. Nel 1994 l’allora ministro israeliano dell’Ambiente, Yossi Sarid, visitò il Bahrain per partecipare a una conferenza internazionale, e incontrò il ministro degli Esteri di quel Paese. Nel 1995 Israele aprì una missione commerciale a Doha, la capitale del Qatar, gesto che rifletteva il migliorato rapporto tra i due Stati. Anche l’Oman ha avviato contatti con Israele nella prima metà degli anni Novanta. Ma queste relazioni sono state ufficialmente interrotte quando i negoziati israelo-palestinesi sono stati troncati e nel 2000 è scoppiata la seconda rivolta popolare palestinese contro l’occupazione israeliana. La violenza sia della rivolta sia della repressione israeliana ha infranto molte delle speranze riposte nel processo di pace tra Israele e Olp sostenuto dagli Stati Uniti.
Tuttavia pochi anni dopo, una volta cessata la rivolta, è iniziata una nuova serie di contatti tra Israele e gli Stati del Golfo. Firmando, nel 2005, un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, il Bahrein ha interrotto il boicottaggio di Israele. Nel 2009 Israele ha appoggiato il trasferimento dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena) ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, dichiarando che avrebbe aperto un ufficio di rappresentanza in quella città, per curare le relazioni ufficiali con la Irena. Di fatto l’apertura è stata rimandata a causa dell’assassinio, nel 2010, in un hotel di Abu Dhabi, di un importante agente di Hamas, Mahmud al-Mabhuh: episodio per il quale molti hanno puntato il dito contro Israele. L’ufficio israeliano è stato poi inaugurato soltanto nel 2015.
Nel 2016 il sultano dell’Oman, Qabus, oggi defunto, ha inviato a Gerusalemme una delegazione ufficiale ai funerali dell’ex presidente Shimon Peres. Nel 2017 il re del Bahrain, Hamad bin Isa Al Khalifa, ha posto fine al boicottaggio di Israele gestito dalla Lega araba, e le visite israeliane nel Golfo sono cresciute sempre più in frequenza e importanza. Nel 2018 il sultano dell’Oman ha accolto nella sua patria il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, in visita ufficiale, e l’Oman si è schierato a favore del riconoscimento di Israele in quanto Stato come tutti gli altri della regione. Miri Regev, ministra israeliana della Cultura e dello Sport, ha visitato Abu Dhabi nel 2018 e vi ha assistito all’esecuzione dell’inno nazionale israeliano in un evento sportivo internazionale. Pochi mesi dopo, anche Israel Katz, ministro degli Esteri israeliano, ha preso parte a conferenze internazionali in Oman e ad Abu Dhabi. Funzionari israeliani importanti hanno visitato il Bahrain per vari eventi; tra loro, l’ex rabbino capo sefardita israeliano Shlomo Amar, che ha partecipato a un congresso interreligioso nel 2019.
Nel 2020 l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti negli Stati Uniti Yousef Al Otaiba, vicino sia a Jared Kushner, imprenditore ebreo americano, genero e consigliere di Trump, sia al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ha scritto una lettera diretta al popolo israeliano, pubblicata il 12 giugno su Yediot Ahronot, popolare quotidiano in lingua ebraica. Il testo metteva in guardia dalle possibili conseguenze della pianificata annessione israeliana di gran parte della Cisgiordania, già occupata da Israele. Inoltre esprimeva una visione molto chiara delle basi di una possibile relazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.
Non proprio pace
I contatti tra Israele e gli Stati del Golfo negli ultimi anni sono stati abbastanza diversi da quelli intrecciati negli anni Novanta, all’indomani dell’inizio dei negoziati tra Israele e Olp. Allora l’attenzione si concentrava principalmente sul tentativo di risolvere il conflitto israelo-palestinese, in vista di una pace globale. Su questa prospettiva era incentrata l’Iniziativa di pace araba, lanciata sotto la guida dell’Arabia Saudita e sostenuta da tutti i leader presenti all’incontro della Lega araba tenutosi a Beirut nel 2002. Il testo del piano del 2002 dichiarava: «Riaffermiamo che la pace in Medio Oriente non potrà avere successo se non sarà giusta ed equa […] e basata sul principio della pace in cambio della terra». In una sezione intitolata «Che cosa ci aspettiamo da Israele», la Lega chiedeva: «1) il ritiro da tutti i territori occupati dal 1967 in poi, tra cui le Alture del Golan siriane fino alla linea di confine del 4 giugno 1967, oltre che i restanti territori libanesi occupati nel sud del Libano; 2) il raggiungimento di una soluzione equa del problema dei profughi palestinesi, da concordare sulla base della risoluzione 194 dell’Assemblea generale dell’Onu; 3) l’accettazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano sui territori occupati dal 4 giugno 1967 in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, con Gerusalemme Est come sua capitale». In cambio, gli Stati arabi assumevano questi impegni: considerare concluso il conflitto israelo-palestinese, stipulare un accordo di pace con Israele e adoperarsi per la sicurezza della regione; allacciare normali relazioni con Israele nel contesto di questa pace globale. A questa Iniziativa la Lega araba si è attenuta negli anni successivi.
Nel 2020 la situazione mondiale, le tensioni regionali e una serie di preoccupazioni condivise tra Israele e il Golfo hanno fatto passare in secondo piano la questione palestinese. Innanzitutto, Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain sono strettamente allineati agli Stati Uniti. Il presidente Trump ha affidato a sua figlia Ivanka e a suo genero Jared Kushner l’incarico di ricercare solidi rapporti con personalità israeliane e del Golfo. Queste reti di relazioni hanno avvicinato i leader, soprattutto quelli con comuni interessi commerciali. Un «Vangelo della prosperità», benedetto dagli Stati Uniti, è stato un’esca convincente per attirarli in un cerchio dove fosse possibile forgiare una visione comune.
Inoltre, sebbene l’Arabia Saudita sia rimasta per ora fuori dagli «Accordi di Abramo», se c’è una persona che si trova al centro di questa visione plutocratica di un nuovo Medio Oriente, questa è proprio il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Le sue riforme interne hanno attirato l’attenzione degli Stati Uniti. Ciò non significa necessariamente che verranno maggiormente garantiti i diritti umani, ma che ora le donne possono guidare le automobili. Sebbene il re Salman, padre del principe, rimanga fermamente impegnato nell’Iniziativa per la pace araba, il figlio sembra disponibile a sostenere la visione degli Stati Uniti.
L’amministrazione del presidente Trump ha investito non pochi sforzi nell’impegno di tessere accordi tra i Paesi del Medio Oriente, al fine di comporre una coalizione compatta in opposizione all’Iran. Essa si è concentrata in gran parte sulla minaccia iraniana e l’ha definita «l’odierna questione principale in Medio Oriente». L’Iran, le sue risorse nucleari, il suo sostegno ai movimenti radicali islamici e la sua sfida all’egemonia occidentale hanno del tutto soppiantato, nella gerarchia delle preoccupazioni, la questione palestinese. Da questo cambio di prospettiva, che mette in sordina i palestinesi, ha tutto da guadagnare Israele; e, dal canto loro, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain – così come altri Stati della regione – concordano sul fatto che l’Iran costituisca il principale elemento di destabilizzazione. Questa preoccupazione per l’Iran e per le sue ambizioni politiche in Medio Oriente è uno degli elementi di comprensione degli «Accordi di Abramo». Un’altra minaccia percepita, che certamente spinge Israele a unirsi agli Emirati Arabi Uniti e al Bahrain, è il ruolo sempre più aggressivo della Turchia. La miscela di nazionalismo islamico-turco di Erdoğan viene percepita con inquietudine sia in Israele sia nel Golfo.
Nella sua forte ricerca di legami con il Golfo, Israele si è fatto promotore anche di una specifica attenzione a comuni interessi ad ampio raggio: economici, culturali, scientifici, sportivi e medici. La pandemia del Covid-19 ha fornito un’ulteriore opportunità per fare fronte comune nella lotta contro la diffusione del virus. Un altro interesse condiviso riguarda la commercializzazione di prodotti israeliani hi-tech di avanguardia nei settori della sicurezza e dello spionaggio, che ai Paesi del Golfo servono nella lotta contro i nemici sia all’estero sia in patria. D’altra parte, nell’orizzonte degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain non trovano posto soltanto i prodotti del dinamismo israeliano nell’economia, nella scienza, nella medicina, nell’industria e nella sicurezza: c’è anche la consapevolezza che, dal momento che essi non vengono più visti come una minaccia per Israele (cioè, del più stretto alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente), ne verranno ricompensati anche con una maggiore libertà di acquistare merci prodotte dagli Usa, armi incluse.
La lettera di Al Otaiba, come accennato, aveva sinteticamente riassunto al popolo israeliano in che termini si sarebbe potuto formulare un accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele. E la pace nella regione non vi appariva come lo scopo principale. «Con i due apparati militari più sviluppati della regione, le comuni preoccupazioni per il terrorismo e l’aggressione e un rapporto profondo e antico con gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti e Israele potrebbero allacciare una cooperazione per la sicurezza più stretta ed efficace. […] Poiché sono le due economie più avanzate e diversificate della regione, i loro più ampi rapporti commerciali e finanziari imprimerebbero un’accelerazione alla crescita e alla stabilità in tutto il Medio Oriente. I nostri interessi condivisi sul cambiamento climatico, sulla sicurezza riguardo all’acqua e al cibo, sulla tecnologia e sulla scienza avanzata potrebbero stimolare una maggiore innovazione e collaborazione. In qualità di polo globale dell’aviazione, della logistica, dell’istruzione, dei media e della cultura, gli Emirati Arabi Uniti sarebbero una porta aperta per collegare gli israeliani alla regione e al mondo».
Infine, era chiaro che la tempistica della cerimonia diplomatica a Washington sarebbe stata molto utile alla campagna elettorale del presidente Trump, impegnato a battere il suo avversario democratico Joe Biden nelle elezioni del novembre 2020.
Non proprio sulla giustizia
Sebbene nel «Trattato di pace, relazioni diplomatiche e piena normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e lo Stato di Israele» il termine «pace» ricorra 20 volte, la parola «Palestina» non compare affatto e la parola «palestinese» è inserita solo in riferimento al conflitto israelo-palestinese, nel contesto della «visione per la pace» del presidente Trump e dei trattati sottoscritti in precedenza con l’Egitto e la Giordania. Nella molto più sintetica «Dichiarazione di pace, cooperazione e costruttive relazioni diplomatiche e amichevoli», sottoscritta insieme dal Regno del Bahrain e dallo Stato di Israele, la parola «pace» compare sette volte, e tuttavia, anche qui, soltanto un breve riferimento al conflitto israelo-palestinese esprime la speranza che si trovi «una soluzione giusta, completa e duratura». In sostanza, la Palestina e i palestinesi sono stati relegati ai margini, perché né vengono considerati come una componente del processo, né viene loro concesso di avere voce nello sviluppo delle relazioni economiche, culturali, scientifiche e tecnologiche tra Israele e i due Stati del Golfo.
I palestinesi hanno poco da offrire, a paragone dell’impegno alla normalizzazione dei rapporti con Israele da parte di un’amministrazione statunitense che in contraccambio è disposta a concedere enormi benefici. D’altra parte, in questo processo le autorità palestinesi spesso sono sembrate il peggior nemico di se stesse. Per una serie di ragioni, non sono riuscite a concentrarsi sulla giustizia e sulla pace. La mancanza di unità, lo scontro tra Hamas e l’Autorità palestinese, il fatto che entrambe le autorità mantengano contatti continui con gli israeliani nel tentativo di governare la Cisgiordania e Gaza, mettendosi tuttavia l’una contro l’altra, e i sospetti sulla diffusa corruzione dei dirigenti palestinesi hanno prodotto nel mondo arabo crepe consistenti nell’impegno per la causa palestinese. Inoltre, l’Autorità palestinese ha cercato forti legami con la Turchia, mentre da parte sua Hamas è stata corteggiata dall’Iran, e così si è creato un collegamento tra il mondo palestinese e coloro che nell’area del Golfo sono visti come i principali destabilizzatori.
La pressoché totale assenza dei palestinesi dagli «Accordi di Abramo» ha fatto eco alla loro assenza nella «visione per migliorare la vita del popolo palestinese e di quello israeliano» del presidente degli Stati Uniti, pubblicata nel gennaio 2020 sotto il titolo «Pace per la prosperità». In questa visione, la promozione della prosperità piuttosto che della pace occupa un ruolo centrale, sostituendo con lo sviluppo economico e il benessere le aspirazioni nazionali a un vero Stato palestinese nei territori occupati da Israele dopo la guerra del 1967. La parte economica del piano è più dettagliata e coerente di quella politica. Viene detto esplicitamente che i palestinesi otterrebbero soltanto un grado limitato di controllo su aree dei territori occupati, mentre Israele sarebbe libera di annettersi grandi estensioni di territorio, quelle in cui già dominano gli insediamenti israeliani impiantati in contrasto con il diritto internazionale. «Lo Stato di Israele trarrà vantaggio dall’avere confini sicuri e riconosciuti. Non dovrà sradicare alcun insediamento e incorporerà al suo territorio la stragrande maggioranza dei suoi insediamenti contigui. Le enclave israeliane situate all’interno del contiguo territorio palestinese entreranno a far parte dello Stato di Israele».
Mentre i palestinesi, mai consultati ufficialmente sulla visione espressa da «Pace per la prosperità», hanno prontamente respinto il piano, Israele l’ha abbracciato, e gli Stati Uniti lo hanno caldeggiato con entusiasmo tra i Paesi arabi, specialmente quelli del Golfo. Nell’introduzione, il documento afferma: «L’assenza di relazioni formali tra Israele e la maggior parte dei Paesi musulmani e arabi non ha fatto che esasperare il conflitto tra israeliani e palestinesi. Riteniamo che se vari Paesi musulmani e arabi normalizzeranno le relazioni con Israele, ciò contribuirà a promuovere una soluzione giusta ed equa al conflitto tra israeliani e palestinesi e impedirà alle frange radicali di utilizzare questo conflitto per destabilizzare la regione».
Alla pubblicazione della visione di Trump non ha fatto seguito la pace tra Israele e la Palestina, ma piuttosto uno sforzo concertato da Israele per annettersi ampie parti della Cisgiordania. Dopo la condanna di questo piano da parte delle Nazioni Unite e della comunità internazionale, e in particolare dell’Unione Europea, la rea-zione dell’amministrazione statunitense è stata modesta. In effetti è stato l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti Yousef Al Otaiba a condannare in modo eloquente il piano di annessione elaborato da Washington nella lettera del giugno 2020 diretta agli israeliani, e che molto probabilmente era stata approvata dai suoi amici Jared Kushner e Mohammed bin Salman. «Di certo e immediatamente l’annessione ribalterà le aspirazioni israeliane a una maggiore sicurezza, nonché ad allacciare legami economici e culturali con il mondo arabo e con gli Emirati Arabi Uniti».
Il piano di annessione israeliano ha consentito sia agli Emirati Arabi Uniti sia al Bahrain di ergersi a difensori dei palestinesi, legando la firma degli accordi con Israele all’annullamento dei progetti israeliani di annessione. Anche in questo caso l’amministrazione statunitense ha mantenuto una posizione distaccata, e da parte sua Israele ha precisato che l’annessione è stata rimandata solo temporaneamente.
Gli accordi bilaterali tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e tra Israele e Bahrain, volutamente definiti «un trattato di pace» e «una dichiarazione di pace», sembrano derivati dal piano «Pace per la prosperità». Né gli Emirati Arabi Uniti né il Bahrain sono mai stati in guerra aperta con Israele, ma sono entrambi interessati alla prosperità che potrebbe derivare dagli accordi di normalizzazione. Questi hanno comportato una spaccatura esplicita e formale del consenso arabo, ossia di quella comune opposizione a Israele che era sorta nel 1948, all’alba della tragedia palestinese. L’occupazione, nel 1967, della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, che portava tutta la Palestina storica sotto il dominio israeliano, era valsa a cementare l’opposizione araba a Israele e a intensificare la retorica del sostegno ai palestinesi. Gli accordi ora firmati puntano alla normalizzazione con Israele e all’intensificazione della collaborazione su tutti i fronti: collaborazione che di fatto era già stata intrapresa, ma che ora viene ufficializzata. Inoltre, guadagnandosi la gratitudine degli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno la certezza di una relazione privilegiata anche con gli Usa.
Dopo la firma degli accordi, l’amministrazione statunitense ha promesso che presto altri Paesi arabo-musulmani avrebbero seguíto lo stesso percorso. Ed effettivamente, in diversi stanno cercando ora di ottenere il patrocinio degli Stati Uniti. Un candidato è il Qatar, che dal giugno 2017 viene boicottato da una coalizione dei suoi vicini, guidata dall’Arabia Saudita e che include sia gli Emirati Arabi Uniti sia il Bahrain (oltre a Giordania ed Egitto). Questo Paese è accusato di finanziare movimenti politici islamici e il «terrorismo» regionale. È interessante notare come Israele sia in continuo contatto con il Qatar, che a sua volta collabora con Hamas e finanzia la ricostruzione della Striscia di Gaza, incanalandovi enormi somme di denaro con l’approvazione israeliana. Con l’identica procedura che ha portato agli «Accordi di Abramo», il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha incontrato il ministro degli Esteri del Qatar Mohammed bin Abdulrahman Al Thani per sottolineare che il Qatar è un anello importante nell’attuazione della politica statunitense in Medio Oriente. Allo stesso tempo il ministro degli Esteri qatariota ha riconosciuto che la visione statunitense è alla base della risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Gli Stati Uniti hanno lasciato capire che avrebbero lavorato per porre fine al boicottaggio del Qatar da parte dei suoi più stretti alleati[1].
Un altro Paese che ha profondo bisogno dell’appoggio degli Stati Uniti per riabilitarsi è il Sudan. Già nel 2016 questo Stato si era offerto di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele, al fine di guadagnarsi l’appoggio degli Stati Uniti per il proprio reinserimento nella comunità internazionale. Le sanzioni statunitensi sono state gradualmente allentate nel 2017, e i contatti con Israele si sono intensificati, portando a un incontro – avvenuto in Uganda – tra il primo ministro israeliano Netanyahu e il presidente del Consiglio sovrano sudanese Abdel Fattah al-Burhan. Sulla questione della normalizzazione con Israele i leader provvisori del Sudan sono divisi: quelli che la sostengono hanno chiesto ingenti aiuti finanziari per convincere gli oppositori.
Insomma, il tanto ricercato aiuto degli Stati Uniti ai Paesi arabi musulmani è ora condizionato alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Attorno a questo tema nel mondo arabo ruota un importante dibattito. Il consenso arabo, sviluppato nel 2002, che prometteva «normalizzazione» in cambio di giustizia e pace, allora veniva inteso come una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Tale soluzione consisteva essenzialmente nell’istituzione di uno Stato palestinese all’interno dei territori conquistati da Israele nel 1967, con capitale Gerusalemme Est. E tuttavia, se non si va alle cause profonde del conflitto, la «normalizzazione» appare tuttora come parte del problema piuttosto che della soluzione. Come ha affermato, nel maggio 2017, la Commissione Giustizia e pace dei vescovi cattolici in Terra Santa in una dichiarazione sulla normalizzazione, «in sintesi, per “normalizzazione” si intende l’instaurazione di rapporti con lo Stato di Israele, le sue istituzioni e i suoi cittadini, “come se” la situazione attuale fosse uno stato di cose normale, ignorando così la guerra, l’occupazione e la discriminazione ancora in corso, o occultandole, o emarginandole consapevolmente. […] La Chiesa locale in Israele-Palestina ha la responsabilità di ricordare alla Chiesa universale che la situazione in Israele-Palestina è una ferita aperta e purulenta, e la situazione non può essere considerata normale»[2].
Eppure, come nota a piè di pagina…
Sebbene sia improbabile che i cosiddetti «Accordi di Abramo» porteranno giustizia e pace, proprio ai margini della spettacolare cerimonia è apparso un raggio di sole, che ha gettato luce su una realtà troppo spesso ignorata. Tra le persone interpellate riguardo agli accordi Israele-Bahrain c’è stato il capo della comunità ebraica in Bahrain, Ebrahim Dahood Nonoo, che, in un comunicato ampiamente ripreso, ha dichiarato: «La comunità ebraica è sempre esistita nel Regno del Bahrain ed è l’unica comunità indigena del Golfo. Abbiamo una sinagoga e un cimitero tuttora in funzione. Questo è un momento storico a cui non ci saremmo mai aspettati di assistere nella nostra vita». In un’intervista con la Jewish Telegraphic Agency (15 settembre 2020), Nonoo ha spiegato: «La nostra religione è ebraica, ma in realtà la nostra cultura è molto araba, e ci sentiamo pienamente a casa […]. Onestamente non potrei pensare di vivere altrove».
Il Bahrain è l’unico Stato del Golfo ad avere una piccola comunità ebraica indigena, e uno dei suoi membri, Huda al-Nonoo, è stato ambasciatore di quel Paese negli Stati Uniti dal 2008 al 2013. La famiglia Nonoo è la prova vivente del fatto che in Bahrain, prima degli eventi del 1948 che hanno polarizzato ebrei e arabi, esisteva una realtà ebraica araba, che da allora è quasi svanita.
Le principali vittime del 1948 – gli arabi palestinesi, musulmani e cristiani che hanno perso la loro patria e aspettavano che il mondo se ne accorgesse – sono state tenute ai margini dagli «Accordi di Abramo». In questi si esprime insofferenza nei confronti dei palestinesi che, invece di consentire lo sviluppo di un prospero Medio Oriente, insistendo sulla giustizia, hanno alimentato una continua instabilità. Tuttavia ha fatto una breve ricomparsa una vittima secondaria del 1948, ossia quel milione circa di ebrei arabi che avevano lasciato le terre arabe musulmane in cui avevano vissuto per secoli, dal Marocco all’Iraq. Il ricordo di un tempo in cui ebrei e arabi non rappresentavano due campi contrapposti, ma piuttosto collaboravano alla costruzione di una società moderna, si è sbiadito anche a causa della questione israelo-palestinese. Ma qualsiasi speranza di risolvere il conflitto deve basarsi su una visione in cui israeliani e palestinesi possano godere non soltanto della prosperità, ma anche dell’uguaglianza, in un quadro politico che garantisca i loro diritti e doveri.
Nella lettera diretta agli israeliani Yousef Al Otaiba ha menzionato la visita di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, nel febbraio 2019, come un altro segno di tempi nuovi. «Dopo la storica visita di papa Francesco negli Emirati Arabi Uniti, lo scorso anno, e il suo incontro con il Grande Imam di Al-Azhar, abbiamo annunciato l’istituzione di una casa familiare abramitica ad Abu Dhabi, che conterrà all’interno del suo complesso una moschea, una chiesa e una sinagoga». Un’immagine affascinante. Tuttavia, affinché si instauri una pace effettiva in Medio Oriente, gli abitanti della regione – musulmani, ebrei e cristiani, che un tempo vivevano fianco a fianco e insieme hanno creato una civiltà araba – devono riconoscere il reciproco radicamento essenziale in quell’area. Se la chiesa e la sinagoga adiacenti alla moschea verranno frequentate solo da uomini d’affari statunitensi in visita, questo non porterà la pace, ma una mera affermazione di prosperità.
Una pace che porti vera prosperità arriverà quando il popolo del Medio Oriente si renderà conto che la perdita di ogni singolo elemento nel suo variegato ecosistema umano – che sia musulmano, ebraico, cristiano, yazida, druso, o qualsiasi combinazione di questi – impoverisce il Medio Oriente. Inoltre, ignorare una delle ferite principali nel cuore del mondo arabo, ovvero la tragedia dei palestinesi e la perdita della loro patria, non potrà mai portare né pace né prosperità duratura.
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[1]. Cfr anche D. Christiansen – J. Cesari, «La questione Quatar», in Civ. Catt. 2017 III 398-405.
[2]. Cfr D. Neuhaus, «Popolo di Israele, terra di Israele, Stato di Israele», in Civ. Catt. III 491-502.