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Nel 1994 la Santa Sede ha firmato con lo Stato di Israele un accordo che stabilisce le relazioni diplomatiche. Da allora si è aperto un dibattito sulla posizione della Chiesa cattolica in merito a uno Stato che si definisce ebraico e vede se stesso in continuità con l’antico Israele di quella Scrittura biblica che anche la Chiesa considera sacra.
Il dialogo ebraico-cristiano dopo il Concilio Vaticano II
La Chiesa si è impegnata in un processo di riconciliazione, dialogo e collaborazione con gli ebrei sin dal Concilio Vaticano II. Mettendo da parte l’«insegnamento del disprezzo», ha cercato di sviluppare un «insegnamento del rispetto» per gli ebrei e per l’ebraismo, che guarda con attenzione al modo in cui gli ebrei vedono se stessi[1].
Questo ripensamento del rapporto con gli ebrei ha aperto gli occhi di molti cattolici sulla realtà vivente del popolo ebraico, quindi sulla sua identità e sulle sue aspirazioni. Un documento del 1974 dichiarava: «La storia dell’ebraismo non si è conclusa con la distruzione di Gerusalemme. Questa storia ha continuato a svolgersi sviluppando una tradizione religiosa la cui portata, pur assumendo – crediamo noi – un significato profondamente diverso dopo Cristo, resta tuttavia ricca di valori religiosi». Inoltre, «è necessario, in particolare, che i cristiani cerchino di capire meglio le componenti fondamentali della tradizione religiosa ebraica e apprendano le caratteristiche essenziali con le quali gli ebrei stessi si definiscono alla luce della loro attuale realtà religiosa»[2]. Dal Vaticano II a questa parte i cattolici, ascoltando gli ebrei, sono diventati sempre più consapevoli del fatto che molti ebrei oggi si definiscono, più che una religione, un popolo. Essi, in quanto popolo, rivendicano una terra, che chiamano «la terra di Israele», e la identificano con uno Stato, «lo Stato di Israele», che esiste in quei luoghi dal 1948.
La pretesa ebraica sulla terra e sullo Stato d’Israele
Ebrei di varie denominazioni religiose, molti dei quali hanno collaborato con i cattolici nel dialogo, nel 2000 hanno pubblicato un documento in otto punti, nel quale si promuovono le relazioni con i cristiani. Esso si intitola Dabru emet («Direte la verità»). Al terzo punto, si afferma: «L’evento più importante per gli ebrei dal tempo dell’Olocausto è stato la restaurazione di uno Stato ebraico nella Terra promessa. Come membri di una religione fondata sulla Bibbia, i cristiani riconoscono che Israele fu promesso – e dato – agli ebrei come luogo fisico del patto tra loro e Dio. Molti cristiani approvano lo Stato di Israele per ragioni ben più profonde di quelle politiche»[3].
Nell’affrontare questa realtà politica dello Stato di Israele, la Chiesa cattolica si è attenuta a una condotta prudente. Dopo decenni di esitazione, la Santa Sede ha inaugurato piene relazioni diplomatiche con questo Stato nel 1994, in un tempo in cui la pace tra israeliani e palestinesi sembrava vicina. Ancora oggi esistono relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e lo Stato di Israele. Tuttavia, nonostante il riconoscimento diplomatico da parte di Israele, i portavoce ebraici hanno continuato a lamentare la persistente riluttanza della Chiesa a riconoscere esplicitamente il significato teologico della pretesa ebraica sulla terra e sullo Stato di Israele. Invitato a parlare a fianco del cardinale Kurt Koch, presidente della Commissione per le relazioni religiose con gli ebrei, alla presentazione del documento che nel 2015 celebrava il cinquantesimo anniversario del paragrafo 4 della Dichiarazione conciliare Nostra aetate, il rabbino David Rosen si è espresso così: «Forse mi sarà consentito di sottolineare che per il pieno rispetto dell’autocomprensione ebraica è necessario valorizzare la centralità che la terra di Israele occupa nella vita religiosa, passata e presente, del popolo ebraico, che sembra mancare»[4].
In effetti, il documento del 2015, nel suo testo ampio e conciliante, faceva solo due riferimenti allo Stato di Israele. Il primo era la citazione di un precedente documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo: «I cristiani sono invitati a comprendere questo attaccamento religioso, che affonda le sue radici nella tradizione biblica, senza tuttavia far propria un’interpretazione religiosa particolare di questa relazione[5]. Per quanto concerne l’esistenza dello Stato d’Israele e le sue opzioni politiche, esse vanno viste in un’ottica che non sia di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale»[6].
Il secondo riferimento allo Stato di Israele era in relazione alla giustizia e alla pace: «Nel dialogo ebraico-cristiano, di grande rilevanza è la situazione delle comunità cristiane nello Stato di Israele, poiché là – come in nessun altro luogo al mondo – una minoranza cristiana si trova davanti ad una maggioranza ebraica. La pace in Terra Santa – una pace che manca e per la quale si prega costantemente – svolge un ruolo considerevole nel dialogo tra ebrei e cristiani»[7].
Oggi tuttavia c’è chi – in particolare in Europa e nel Nord America – preme perché si giunga, da parte cattolica, all’affermazione del significato teologico della pretesa ebraica sulla terra e sullo Stato di Israele[8].
Umanesimo sionista e militarismo israeliano
Si deve anzitutto precisare che, riguardo allo Stato di Israele, non vi è unanimità tra gli stessi ebrei. La storia del sionismo e il moderno nazionalismo ebraico hanno suscitato diffidenza e persino ostilità da parte di alcuni ebrei, e molti altri hanno criticato le scelte politiche adottate dai leader sionisti, in particolare per quanto riguarda il popolo palestinese[9]. Martin Buber, celebre filosofo ebreo, così scriveva già nel maggio del 1948, vale a dire nel pieno della guerra che fece da cornice all’istituzione dello Stato di Israele: «Cinquant’anni fa, quando mi sono unito al movimento sionista per la rinascita di Israele, il mio cuore era integro. Oggi è lacerato. La guerra condotta per una struttura politica rischia a ogni momento di diventare una guerra di sopravvivenza nazionale […]. Non posso nemmeno essere felice di augurarmi una vittoria, perché temo che il significato della vittoria ebraica sia la caduta del sionismo»[10]. Il filosofo aveva levato la sua voce angosciata, perché vedeva il sorgere del militarismo israeliano e temeva che ciò avrebbe comportato il venir meno del suo ideale di umanesimo sionista. La sua angoscia crebbe quando le autorità israeliane si rifiutarono di prendere sul serio i profughi palestinesi e sottoposero alla legge militare gli arabi che non avevano abbandonato il territorio che era diventato lo Stato di Israele (una situazione a cui si è posto fine solo nel 1966, alcuni mesi dopo la morte di Buber). Il filosofo era già morto quando fu imposta l’occupazione militare nei territori conquistati da Israele nella guerra del 1967.
Altrettanto profetica, nella sua incisiva analisi del lato oscuro del sionismo, è stata la filosofa ebrea Hannah Arendt. Impegnata nello studio del totalitarismo nelle sue forme moderne, la filosofa metteva in guardia dai pericoli del sionismo per il popolo ebraico. In un articolo del 1945, scriveva: «Se i sionisti continueranno a ignorare i popoli del Mediterraneo e presteranno attenzione soltanto alle grandi potenze lontane, appariranno come i meri strumenti di quelle, cioè agenti di interessi stranieri e ostili. Gli ebrei che conoscono la propria storia dovrebbero essere consapevoli che un tale stato di cose porterà inevitabilmente a una nuova ondata di odio antiebraico»[11].
L’elezione del popolo ebreo e la promessa della terra nell’Antico Testamento
Non c’è dubbio, comunque, che la maggior parte degli ebrei consideri lo Stato di Israele qualcosa di più che una semplice istituzione politica. Secondo Dabru emet, poiché ebrei e cristiani condividono un linguaggio basato sulle Scritture di Israele, possono anche condividere il fatto che la terra di Israele sia stata promessa e data agli ebrei. Da un punto di vista teologico, l’elezione di Israele fatta da Dio e il dono della terra sono davvero temi centrali nell’Antico Testamento. Tuttavia i cristiani comprendono l’Antico Testamento in riferimento al Nuovo, e questo è vero in modo particolare per temi come il dono della terra e l’elezione di un popolo. La fede in Gesù distingue la lettura cristiana della Bibbia da quella degli ebrei, e nel dialogo in corso con questi ultimi è importante chiarire come questo influisca sulla concezione cristiana della terra, e in particolare sulla questione dei confini.
Nei racconti dell’Antico Testamento, Dio ha promesso la terra ad Abramo e ai suoi discendenti; poi ha incaricato Giosuè di conquistare quella terra, ovvero il luogo in cui Israele avrebbe vissuto il rapporto di alleanza con lui, osservando la Torah. Al centro di quella terra c’era Gerusalemme, la Santa Sion, e al centro di Gerusalemme il Tempio, luogo sacro della continua presenza divina. Tuttavia non va dimenticato che la terra, sebbene fosse stata donata a Israele nell’Antico Testamento, in definitiva continuava ad appartenere a Dio (cfr Lv 25,23) ed era una terra data come il luogo in cui Israele sarebbe stato la «luce delle nazioni» (cfr Is 42,6; 49,6), attirandole tutte a Gerusalemme, affinché vi giungessero e apprendessero la Torah (cfr Is 2,3).
Secondo il linguaggio delle Scritture – in particolare dei Libri della tradizione deuteronomista – la terra fu perduta perché i peccati di Israele provocarono l’oscurità anziché la luce. Tuttavia, al tempo di Ciro, re di Persia, Dio riportò il popolo a Sion, perché volle effondere la sua grazia e mantenere la sua fedeltà alle promesse fatte. L’esilio lasciò il posto al ritorno, e la morte alla risurrezione. È certamente significativo il fatto che il canone ebraico delle antiche Scritture di Israele si concluda con le parole della lettera di Ciro agli esiliati babilonesi: «Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga [a Sion]!» (2 Cr 36,23).
Ma la Chiesa ha ordinato diversamente queste stesse Scritture, collocando il Secondo libro delle Cronache nel mezzo della saga veterotestamentaria di Israele. La lettera di Ciro rappresenta anch’essa un evento che orienta la narrazione verso la promessa posta alla fine dell’Antico Testamento: la venuta del Giorno del Signore. Nel Nuovo Testamento, Giovanni annuncia il Giorno che, con l’avvento di Gesù di Nazaret, trasfigurerà i confini tra i popoli e le terre, fino a condurre alla scomparsa di quelle frontiere e all’unità delle terre e dei popoli.
La concezione cristiana della terra
Nel passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento la concezione cristiana della terra cambia. Un documento della Pontificia Commissione biblica del 2001 dichiara: «Una beatitudine effettua lo stesso tipo di passaggio dal significato geografico storico a un significato più aperto: “I miti possederanno la terra” (Mt 5,5); “la terra” equivale lì a “Regno dei cieli” (5,3.10), in un orizzonte di escatologia al tempo stesso presente e futura. Gli autori del Nuovo Testamento non fanno che spingere oltre un processo di approfondimento simbolico messo già in moto nell’Antico Testamento e nel giudaismo intertestamentario»[12]. A prima vista, nei testi del Nuovo Testamento la terra sembra essere quasi scomparsa, perché per lo più i cristiani vedono la loro patria nel cielo (cfr Eb 11,13-16). La terra tuttavia non è assente; anzi, Cristo risorto l’ha trasfigurata, perché i confini che separano un territorio dall’altro, un popolo dall’altro, si dissolvono progressivamente nella predicazione del Vangelo.
Il continuo allargarsi del concetto di terra è evidente quando il Vangelo si estende da un luogo all’altro e si diffonde – come documentano gli Atti degli Apostoli – da Gerusalemme fino ai confini della terra. La terra non è più esclusivamente la terra di Israele, ma si espande per includere ogni luogo in cui il Vangelo viene predicato e vissuto. Abbattere i confini è un aspetto fondamentale della missione di Cristo: «Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (Ef 2,14-18).
Pur essendo vero che ebrei e cattolici condividono un linguaggio comune derivato dalle Scritture, non sempre essi concordano sulla comprensione teologica di tale linguaggio e delle sue implicazioni per la vita odierna, dal momento che sono radicati in due distinte concezioni religiose. In effetti, molti cristiani sarebbero restii a usare i testi dell’Antico Testamento per giustificare le ideologie e le azioni politiche del XX secolo in Medio Oriente. D’altra parte, i cattolici devono procedere con cautela quando si tratta di enunciare simili percezioni, perché gli ebrei hanno buone ragioni per ribattere che la Chiesa non ha sempre sostenuto tale prospettiva.
L’ideologia imperiale che si sviluppò quando i cristiani conquistarono il potere terreno fu in contraddizione con la concezione della terra propria del Nuovo Testamento dai tempi dell’imperatore Costantino, nel IV secolo, in poi. L’Impero cristiano guardava con passione ai confini che dovevano essere difesi, e ai territori che attendevano di essere conquistati nel costante tentativo di espandere tali confini. Nel Medioevo, una cristianità militarizzata andò in guerra per liberare Gerusalemme dai musulmani, che, secondo alcuni, rappresentavano una rediviva forma di ebraismo[13].
L’insegnamento del disprezzo verso i musulmani è andato di pari passo con l’insegnamento del disprezzo verso gli ebrei. Per molti, al tempo delle crociate, la guerra fu duplice: contro il nemico interno (gli ebrei) e contro il nemico esterno (i musulmani). I crociati, ispirandosi alla Bibbia, si consideravano conquistatori per diritto divino, ed echi di questa mentalità sono risuonati in tutta la lunga storia del colonialismo europeo. Esploratori e conquistatori spianavano la strada a missionari e predicatori. Diversamente dai cristiani trionfatori, confermati da Dio nelle loro vittorie, gli ebrei, sconfitti e soggiogati, avevano perso la terra dei loro antenati, sebbene nemmeno Gesù avesse profetizzato una cosa del genere[14], e li si considerava condannati a essere un popolo errante senza terra[15].
Il ripensamento postconciliare delle relazioni ebraico-cristiane ha reso consapevoli del fatto che gli ebrei hanno sofferto a causa della supremazia cristiana, spesso basata su una lettura non etica dei testi biblici. I meccanismi che collegano l’egemonia cristiana con l’emarginazione ebraica vanno riscoperti e trasformati, e i presunti princìpi teologici su cui essi si basano vanno sconfessati. I cattolici hanno intrapreso il compito importante di riformulare i loro atteggiamenti nei confronti degli ebrei, il che è una vera benedizione della nostra epoca. Ma una sfida altrettanto importante è quella di garantire che la riformulazione di una teologia cristiana, purificata dall’antigiudaismo e permeata del nuovo linguaggio del dialogo e della collaborazione ebraico-cristiana, a sua volta non dia adito a nuovi meccanismi di supremazia ed esclusione. Qualsiasi riflessione cattolica sulla terra e sullo Stato di Israele deve considerare la reale situazione politica, sociale, economica e culturale in Israele-Palestina. Questo include un attento esame di come le rivendicazioni ebraiche e le politiche israeliane siano correlate alla protezione dei luoghi santi del cristianesimo e dell’islam, al benessere delle comunità indigene cristiane e musulmane e alle aspirazioni del popolo palestinese.
Sebbene l’attenzione della Chiesa per i luoghi santi e le comunità di fede sembri abbastanza naturale, la sua preoccupazione per la giustizia e la pace non è una mera questione politica o diplomatica, ma è parte integrante della sua missione. La Costituzione pastorale del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, ha affermato: «Quanto alla Chiesa, fondata nell’amore del Redentore, essa contribuisce ad estendere il raggio d’azione della giustizia e dell’amore all’interno di ciascuna nazione e tra le nazioni. Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell’attività umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini»[16]. La Chiesa formula la propria posizione sull’attuale situazione di conflitto in Israele-Palestina come un atto di responsabilità morale, analizzando il contesto odierno, senza ridurre la sua prospettiva alle formule bibliche o alla speculazione teologica.
La posizione della Chiesa riguardo alla terra di Israele-Palestina
Negli ultimi decenni, tornando indietro all’inizio dell’attuale conflitto dopo la Prima guerra mondiale, la Chiesa ha sviluppato un discorso articolato e complesso sulla terra di Israele-Palestina, i popoli che la abitano e le strutture di governo. In tale argomentazione convergono le Scritture, la tradizione, l’interesse per le comunità cristiane, l’impegno nel dialogo con ebrei e musulmani e una particolare insistenza nel promuovere la giustizia e la pace per israeliani e palestinesi. Questo discorso a più livelli non è un esercizio diplomatico, ma un progetto genuino e dinamico per affermare la verità in una situazione di divisione, conflitto e violenza[17].
Inoltre, la Chiesa universale non può esporre un discorso spirituale o teologico astratto su una terra in cui i membri della Chiesa locale hanno a che fare con realtà quotidiane di discriminazione e occupazione che colpiscono i palestinesi cristiani, in quanto toccano tutti i palestinesi che oggi vivono nell’area di Israele-Palestina. I tentativi della Chiesa locale di affrontare tali realtà hanno una ripercussione molto naturale e consistente sul pensiero riguardante le questioni della terra e dello Stato nella Chiesa universale.
Le rivendicazioni ebraiche nei confronti della terra, che fanno appello sia all’autorità della Scrittura sia alla sofferenza ebraica nella storia, vanno viste anche alla luce dell’esilio del popolo palestinese dalla sua patria e delle sue esperienze di discriminazione e occupazione nelle terre oggi governate da Israele. Il patriarca Michel Sabbah, capo della diocesi latina in Terra Santa per più di 20 anni, nella sua lettera pastorale del 1993 ha posto questa scottante domanda teologica: «Dobbiamo forse essere vittime della nostra stessa storia della salvezza, che sembra privilegiare il popolo ebraico e condannare noi? È proprio questa la volontà di Dio alla quale dovremmo piegarci inesorabilmente, senza appello e senza discussione, e che ci chiederebbe di lasciare tutto a favore di un altro popolo?»[18].
Secondo l’insegnamento attuale della Chiesa, il popolo ebraico, come tutti i popoli, ha il diritto di esprimersi in quanto tale. Emarginato per secoli, il nazionalismo ebraico ha respinto quell’emarginazione e ha combattuto per l’emancipazione. Riguardo al popolo di Israele e alla terra di Israele, oggi la Chiesa comprende il legame ebraico con la terra, che è storico, religioso ed emotivo, e respinge secoli di insegnamento tradizionale che condannava gli ebrei a una perpetua condizione di esilio come punizione per il loro rifiuto di accettare Cristo. Tuttavia il riconoscimento, da parte della Chiesa, della specificità permanente del popolo ebraico e il suo rispetto per l’attaccamento ebraico alla terra di Israele non possono essere intesi come legittimazione della volontà politica e ideologica di governare quella terra in maniera esclusiva. La Chiesa diffida di un linguaggio di diritti esclusivi che oggi in Israele-Palestina scavalchi i diritti degli altri. Riconosce invece l’autorità del «diritto internazionale», che stabilisce i criteri atti a promuovere la giustizia, l’uguaglianza e la pace in ogni contesto concreto[19].
L’insegnamento sull’esilio degli ebrei come punizione divina va chiaramente respinto, in quanto tradisce il Vangelo della fedeltà di Dio. Tuttavia l’alternativa non è l’affermazione teologica del nazionalismo ebraico, ma piuttosto il rifiuto di tutte le forme di insegnamento del disprezzo che sostengono privilegi per alcuni a esclusione di altri. L’insistenza nazionalista degli ebrei sulla sovranità nazionale, definita come ebraica, stride fortemente con i diritti di tutti i cittadini dello Stato di Israele, in particolare di quelli che non sono ebrei.
La realtà di oltre settant’anni di statualità israeliana si manifesta nell’esperienza di quei cittadini che incontrano molteplici forme di discriminazione, emarginazione ed esclusione, perché sono «non ebrei» nello Stato ebraico. Essi pure devono avere voce, non soltanto nell’arena politica, ma anche nel dibattito teologico sulla terra e sullo Stato di Israele. Qualunque quadro si stabilisca per una soluzione del conflitto israelo-palestinese – sia che si tratti di due Stati che vivono fianco a fianco, sia di un unico Stato per tutti –, il principio ultimo per una soluzione duratura è l’uguaglianza della persona umana nei diritti e nei doveri.
Una recente dichiarazione dei vescovi cattolici in Terra Santa ha sottolineato questo principio: «Promuoviamo una visione secondo la quale tutti in questa Terra Santa hanno piena uguaglianza, l’uguaglianza che si addice a tutti gli uomini e le donne creati uguali a immagine e somiglianza di Dio. Noi crediamo che l’uguaglianza, quali che siano le soluzioni politiche che potrebbero essere adottate, resti una condizione fondamentale per una pace giusta e duratura. Nel passato abbiamo vissuto insieme in questa terra, perché non potremmo vivere insieme anche in futuro? Questa è la nostra visione per Gerusalemme e l’intera terra, chiamata Israele e Palestina, tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo»[20]. Può darsi che, guardando alla terra e ai suoi abitanti, ebrei e cattolici non siano uniti in una visione comune, ma essi possono certamente esserlo in una preghiera comune per la pace e per il benessere di tutti coloro che vivono lì.
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[1]. Cfr D. Neuhaus, «“Ebrei” ed “ebraismo” nell’insegnamento cattolico. Una rivoluzione nell’interpretazione», in Civ. Catt. 2019 II 417-431.
[2]. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare «Nostra aetate» (n. 4), 1 dicembre 1974.
[3]. National Jewish Scholars Project, Dabru Emet, 2000, in www.nostreradici.it/dabru_emet.htm
[4]. Citato in G. D’Costa, Catholic Doctrines on the Jewish People after Vatican II, Oxford, Oxford University Press, 2019, 65. Cfr R. Langer, «Theologies of the Land and State of Israel: The Role of the Secular in Jewish and Christian Understandings» in Studies in Jewish-Christian Relations 3 (2008) 1-17.
[5]. Cfr Dichiarazione della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, 20 novembre 1975.
[6]. Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei ed ebraismo nella predicazione e nella catechesi nella Chiesa cattolica (1985), VI, 1.
[7] . Id., Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (2015), n. 46.
[8] . Cfr P. Lenhardt, «La fin du sionisme?», in Sens, n. 3, 2004, 99-138; M. Remaud, Echos d’Israël, Gerusalemme, Elkana, 2010; R. Lux, The Jewish People, the Holy Land, and the State of Israel: A Catholic View, Mahwa, Paulist Press, 2010; G. D’Costa, Catholic Doctrines on the Jewish People after Vatican II, cit.
[9] . Una rassegna classica dell’opposizione ebraica al sionismo si trova in M. Selzer (ed.), Zionism Reconsidered: The Rejection of Jewish Normalcy, New York, Macmillan, 1970.
[10]. M. Buber, «Zionism and Zionism», in P. Mendes-Flohr (ed.), Martin Buber on Jews and Arabs, Oxford, Oxford University Press, 1983.
[11]. H. Arendt, «Zionism Reconsidered», in M. Selzer (ed.), Zionism Reconsidered…, cit., 216.
[12]. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001), 57. Cfr W. D. Davies, The Gospel and the Land: Early Christianity and Jewish Territorial Doctrine, Berkeley, University of California Press, 1974.
[13]. Qualcuno vedeva nell’islam una nuova e potente forma di cristianesimo eretico, mescolato al giudaismo talmudico. Si tendeva ad appaiare il Talmud e il Corano come fonti di errore (cfr gli scritti di Pietro Alfonsi, il Corpus toletanum cluniacense, Riccoldo da Montecroce e altri).
[14]. Nel Vangelo di Luca, Gesù, piangendo su Gerusalemme, afferma: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,41-44).
[15]. Alcuni Padri della Chiesa, tra cui Tertulliano, hanno contrapposto l’eredità cristiana all’esilio ebraico, descrivendo quest’ultimo in maniera incisiva: «Dispersi, errabondi, dal suolo e dal cielo loro banditi, errando vanno per il mondo, senza un uomo, senza Dio per loro capo; nemmeno a titolo di stranieri ad essi salutare è permesso, sia pure per un istante, la patria terra» (Tertulliano, Apologeticum, 21, 5).
[16]. Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes (1965), n. 76.
[17]. Per una riflessione cattolica su questi temi, cfr A. Marchadour – D. Neuhaus, The Land, the Bible, and History, New York, Fordham University Press, 2007.
[18]. M. Sabbah, Lettera pastorale Leggere e vivere la Bibbia oggi nel paese della Bibbia (1993), n. 7.
[19]. «Il diritto si pone come strumento di garanzia dell’ordine internazionale, ovvero della convivenza tra comunità politiche che singolarmente perseguono il bene comune dei propri cittadini e che collettivamente devono tendere a quello di tutti i popoli, nella convinzione che il bene comune di una Nazione è inseparabile dal bene dell’intera famiglia umana» (Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 434).
[20]. Assemblea dei Vescovi cattolici della Terra Santa, Giustizia e pace si baceranno, 20 maggio 2019.