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Ricordare tutto: un ideale desiderabile?
Poter ricordare ciò che si conosce e vive è un aspetto fondamentale della vita. Sappiamo quanto siano invalidanti le malattie della mente e l’indebolimento della memoria che in genere caratterizza l’ultima parte della vita. La difficoltà a ricordare rimane uno dei problemi con i quali maggiormente ci si scontra nella quotidianità: anni faticosamente impiegati per raggiungere un titolo di studio, per la professione, le letture di svago, numeri di telefono, persone e avvenimenti sembrano dissolversi e con facilità essere dimenticati. E la crescente abbondanza di possibilità non sembra aiutare la memorizzazione.
Joshua Foer, nel suo L’ arte di ricordare tutto, nota come il passaggio dalla lettura «intensiva» (leggere e rileggere più volte lo stesso testo) a quella «estensiva» (leggere una volta sola più libri) abbia avuto notevoli ripercussioni sulla memoria. E compie un bilancio sconfortante, nel quale ci si può riconoscere con facilità: «Quando finisco un libro, che cosa m’aspetto di ricordare di lì a un anno? Se è un saggio, perlomeno la tesi che propone, ammesso che ne abbia una […]. Se è un testo di narrativa, la trama a grandi linee, qualche informazione sui personaggi principali e un giudizio complessivo. Ma è probabile che anche queste quattro informazioni striminzite svaniscano in fretta. Ogni volta che alzo lo sguardo sui libri che hanno risucchiato una marea delle mie ore di veglia mi prende lo sconforto. Di Cent’anni di solitudine ricordo soltanto il suo realismo magico e quanto mi fosse piaciuto, tutto qui. Non saprei neanche dire quando l’ho letto. Di Cime tempestose mi sono rimaste due cose: di averlo letto al liceo durante le lezioni di inglese e che uno dei personaggi si chiamava Heathcliff. Ma non ricordo nemmeno se mi sia piaciuto […]. Leggiamo, leggiamo, leggiamo e dimentichiamo, dimentichiamo, dimentichiamo. Allora perché darsi tanta pena?»[1].
Ma ricordare tutto, al di là della sua realizzabilità, è davvero un ideale auspicabile?
Un racconto di Borges
Questo problema ha trovato una felice espressione letteraria in un famoso racconto di Jorge Luis Borges, Funes, o della memoria. Il protagonista, Funes, in seguito a un incidente, perde la capacità di dimenticare, e così ogni dettaglio rimane impresso nella sua mente. Tuttavia questo cambiamento non è un vantaggio per lui, ma piuttosto una maledizione. Funes è diventato una sorta di registratore vivente; prestando attenzione a ogni cosa, non riesce più a dormire – «Dormire è distrarsi dal mondo», precisa Borges – e non è in grado di ragionare: «Non solo gli era difficile di comprendere come il simbolo generico “cane” potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte) […]. Aveva imparato senza sforzo l’inglese, il francese, il portoghese e il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati»[2].
Funes rimane prigioniero del flusso dei ricordi, che non è neppure in grado di raccontare, perché la memoria totale impedisce la rielaborazione e la valutazione, indispensabili per la narrazione degli eventi. Quando prova a farlo, Funes impiega esattamente lo stesso tempo del loro svolgimento: come un nastro registrato, egli elenca tutti i dettagli minuziosi e non può vivere il presente, perché consumato completamente dalla rievocazione dei ricordi.
La genialità di uno scrittore si mostra nella sua capacità di intuire aspetti fondamentali dell’essere umano. E difatti il racconto di Borges ha trovato una conferma puntuale nella vicenda di Solomon Šereševskij (1887-1958), descritta dallo psicologo russo Alexander Lurija in un libro, Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, pubblicato in inglese nel 1968, e del quale Borges non poteva aver avuto notizia, dal momento che Funes, o della memoria era uscito nel 1942.
Lurija visitò accuratamente Šereševskij e giunse alle medesime conclusioni di Borges: egli ricordava senza difficoltà sequenze lunghissime di parole, o di numeri, o anche di libri scritti in lingue a lui sconosciute (come La Divina Commedia). In questo modo poteva ripetere con estrema esattezza il testo anche a distanza di 15 anni o recitarlo al contrario senza alcuna difficoltà. Ma a un costo pesante: Šereševskij era sprovvisto di logica, non sapeva distinguere un elenco di liquidi da un elenco di animali, o spiegare il significato di un proverbio.
L’accumulo enorme di dettagli non gli dava pace; senza la capacità di differenziare, essi erano, come per Funes, «un deposito di rifiuti», rendendo impossibili anche le azioni più ordinarie: «Una volta sono andato a comprare un gelato e mi avvicinai alla venditrice e le chiesi che tipo di gelato avesse. “Gelato alla frutta”, disse. Ma lei rispose con un tono di voce che mi sembrò quasi che un mucchio di carbone venne fuori dalla sua bocca, bloccandomi nell’acquisto del gelato»[3].
Šereševskij non poteva nemmeno provare piacere in ciò che leggeva, perché non lo comprendeva: le parole lo rimandavano alle situazioni più diverse, impedendogli di seguire il filo narrativo del testo, come anche di riconoscere voci e volti. Un tormento terribile, che può essere riassunto da un aforisma di Elias Canetti: «Gradi della disperazione: non ricordarsi di nulla, ricordare qualcosa, ricordare tutto»[4].
Dimenticare è sempre un male?
Se è dunque giusto esaltare le capacità straordinarie della memoria umana e deplorare la sua decadenza, di solito si fa meno caso all’importanza che l’oblio riveste in ordine alla sanità intellettuale. In realtà i due processi, lungi dall’essere contrapposti, costituiscono un aiuto vicendevole: in altre parole, dimenticare non è di per sé un difetto della memoria, ma una necessità salutare. Quando si smarrisce questo sottile e forse indefinibile equilibrio, divengono entrambi nocivi per la salute.
Il ricordo non è una mera registrazione. Per diventare «nostro», richiede una presa di distanza dall’accaduto e una sua ripresa nel presente. Senza tale stacco si smarrisce la dimensione temporale: «Un ricordo troppo perfetto – anche se con l’intento di aiutarci a decidere – può indurci a rimanere impigliati nelle nostre reminiscenze, incapaci di lasciarci il passato alle spalle»[5].
La rielaborazione e la narrazione sono caratteristiche indispensabili per la memoria umana, e non potranno mai ridursi alla mera registrazione dell’accaduto. Ne abbiamo un esempio magnifico in una pagina de La ricerca del tempo perduto, dove Marcel Proust cerca di esprimere quello che sente osservando lo spettacolo, sorprendente e insieme ordinario, del fruscio dell’acqua piovana. Egli riesce a rendere in maniera quasi visiva la gradualità della rielaborazione propria del ricordo: «Il tetto di tegole creava nello stagno, che il sole aveva reso di nuovo specchiante, una marezzatura rosa alla quale, prima, non avevo mai fatto attenzione. E vedendo che sull’acqua e sulla superficie del muro un pallido sorriso rispondeva al sorriso del cielo, gridai in preda all’entusiasmo, brandendo il mio parapioggia arrotolato: “Accipicchia, accipicchia!”. Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell’opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto»[6]. È una descrizione magistrale della lotta tra impressione ed espressione o, come direbbe Dante, tra la materia e l’arte[7], che dà voce alla fatica, sofferta ma necessaria, richiesta per riappropriarsi di ciò che era perduto e, in questo modo, di ritrovare nel senso di quell’esperienza la dimensione autentica di sé.
La memoria umana è inoltre selettiva e affettiva, plasma il ricordo e lo colora, ne evidenzia alcuni particolari, lasciandone altri in sottofondo. Dimenticare è quindi la condizione per ricordare, come il polo positivo e negativo dell’energia elettrica; sono entrambi indispensabili per la conoscenza. Memoria e attenzione sono strettamente legate tra loro: per mettere qualcosa in primo piano si deve lasciare altro sullo sfondo; vedere qualcosa comporta non vedere qualcos’altro. Come aveva notato Borges, una pura memoria senza oblio diventa un ostacolo e non un aiuto per la vita: «Ricordare e dimenticare sono strettamente legati anche perché entrambi, insieme, organizzano i ritmi mutevoli della nostra coscienza […]. In effetti la memoria dipende fortemente dal filtro dell’oblio che, accogliendo solo poche cose dalla massa di sensazioni che giungono al cervello attraverso i canali sensoriali, fornisce i presupposti per prospettive, rilevanza, identità e, con ciò, crea anche la base stessa del ricordo»[8].
I «big data»
Quello che per Funes e Šereševskij costituiva una disperante eccezionalità può essere oggi reso possibile con l’avvento del digitale. Già nel 1998 due studiosi statunitensi avevano progettato la creazione di un album di famiglia elettronico: «Pensate che bello sarebbe avere una registrazione delle conversazioni infantili con la vostra migliore amica, oppure un’audioteca completa delle milioni di frasi impagabili dette dai vostri figli nei primi anni di vita»[9]. Un progetto che può trovare facile realizzazione con i social network e gli smartphone, che possono registrare o scaricare tutto ciò che si trova sotto i nostri occhi.
Il computer e le ricerche online mettono a disposizione una strumentazione raffinata per non dimenticare e ovviare allo sconforto descritto da Foer: biblioteche, archivi, data base, motori di ricerca del web sempre più potenti. In questo modo diviene molto più facile individuare una citazione che si cercava inutilmente nella libreria o che non è più ormai a propria disposizione, o evidenziare ciò che interessa di un testo, tralasciando il resto. E richiamarlo ogni volta che si vuole. Qualcosa di simile diviene possibile anche per gli accadimenti della vita: una volta postati sui social, essi rimangono più a lungo di quanto la nostra memoria possa fare.
Tutto questo ha naturalmente suscitato un acceso dibattito circa l’influsso che questa conservazione straordinaria di dati ha sull’apprendimento, dividendo gli studiosi tra entusiasti e detrattori, rilevando i possibili vantaggi o danni che i nuovi ritrovati avrebbero per la memoria. Si tratta di un problema antico: già Platone aveva notato che l’invenzione della scrittura conserva i dati, ma indebolisce la memoria[10]. La velocità di archiviazione è a scapito della memorizzazione, che richiede lentezza e ripetitività.
La psicologa Linda Henkel ha mostrato come la tendenza a fotografare gli oggetti in un museo di arte minasse la capacità di ricordarli, come se la memoria umana cedesse il posto a quella digitale. Chi invece si limitava a osservare gli oggetti ricordava un maggior numero di dettagli. Maggiore era il numero delle immagini archiviate, minore era l’attenzione prestata, indebolendo la memoria. Se invece ci si soffermava sui dettagli per una ricerca, ciò risultava di aiuto per il ricordo. In altre parole, l’immagine digitale aiuta la memoria nel momento in cui ne rispetta la selettività e non si riduce a un mero accumulo di dati[11].
Ci sono però altri aspetti che l’oblio reclama per una vita rispettosa della dignità umana.
Quando dimenticare è necessario
La tendenza a conservare tutto, resa possibile dal web, insieme a enormi possibilità fa emergere tuttavia anche nuove forme di sofferenza. Come, ad esempio, quando riguarda persone scomparse.
La conservazione perenne dei files è stata paragonata a un dissotterramento continuo di un cadavere, che rimane presente in maniera inquietante tra i vivi, mischiando così vita e morte e rendendo problematica quella forma di oblio che è il lutto, indispensabile per continuare a vivere: «Nella vita reale il legame, con il trascorrere del tempo, pian piano, nella maggior parte dei casi si allenta. A un certo punto, nel corso della giornata, il cimitero chiude […]. Si pensi, al contrario, a un cimitero online sempre presente sul telefono, con, in più, il morto che dialoga con noi in maniera credibile, che ci informa dei video che sta guardando, della musica che sta ascoltando o se gli è piaciuto il film trasmesso la sera prima, che controlla la nostra posta elettronica e ci informa degli appuntamenti»[12].
Questa possibilità si mostra ancora più inquietante quando riguarda eventi tragici, impedendo di voltare pagina. Si possono citare alcuni casi significativi.
Il 18 febbraio 2014 Hollie, una ragazza inglese di 20 anni, venne uccisa dal suo fidanzato. Quando i genitori decisero di riprendere le immagini presenti nel suo profilo per ricordarla in un album digitale, scoprirono con orrore che la maggior parte delle fotografie la ritraevano insieme al suo assassino. Come dichiarò il padre alla BBC: «Mi fa sentire male quando guardo quelle foto […], è un vero peccato che la famiglia e gli amici non potessero vedere il profilo di Hollie senza vedere quelle foto». Il problema è che la ragazza non aveva dato alcuna disposizione circa la possibile rimozione di materiale dal suo profilo e quindi il gestore non poteva attuare cambiamenti. Alla fine, dopo una lunga battaglia giudiziaria e la sottoscrizione di 11.000 persone, le foto vennero rimosse dal profilo[13].
Un altro esempio è la vicenda di Gill Brockell, una giornalista del Washington Post. Nel periodo della gravidanza si era collegata a link di articoli pubblicitari per la maternità. Quando Brockell perse il bambino nel corso dei mesi seguenti, continuò a ricevere messaggi sui nuovi modelli di passeggini, biberon e pannolini. Ciò che era stato motivo di gioia rischiava di trasformarsi in un incubo senza fine. Brockell cercò più volte di rimuovere i link, ma invano. Alla fine scrisse una lettera a Facebook, supplicandola di non mandarle più quelle pubblicità[14].
Stefano Rodotà, pensando alla memoria onnivora di Google, ricordava l’importanza di leggi come quella del 25 gennaio 2012 della Commissione europea, che sanciva un diritto all’oblio per poter continuare a vivere, indispensabile per il rispetto dell’essere umano: «Che cosa diventa la persona quando viene consegnata alle banche dati e alle loro interconessioni, ai motori di ricerca che rendono immediato l’accesso a qualsiasi informazione, quando le viene negato il diritto di sottrarsi allo sguardo indesiderato? Di ritirarsi dietro le quinte, in una zona d’ombra? […]. Il diritto all’oblio si presenta come diritto a governare la propria memoria, per restituire a ciascuno la possibilità di reinventarsi, di costruire personalità e identità, affrancandosi dalla tirannia di gabbie nelle quali una memoria onnipresente e totale vuole rinchiudere tutti»[15].
Il diritto all’oblio diviene così un modo di garantire la dignità personale, una protezione dalle nuove forme di invadente voyeurismo, dalla «dittatura della memoria».
Il ruolo dell’oblio nella vita pubblica
Gli esempi sopra riportati mostrano anche il ruolo pubblico dell’oblio, il suo legame con la privacy e la cancellazione dei dati personali ottenuti dalla navigazione sul web. Questo ha conseguenze notevoli anche per la politica, come si è avuto modo di constatare nel 2018 con lo scandalo di Cambridge Analytica, quando si scoprì che milioni di informazioni personali erano state utilizzate per influenzare l’atteggiamento degli elettori, ad esempio «individuando le madri single, e facendo leva sulla loro paura di essere aggredite a casa per convincerle a sostenere la lobby delle armi […]. Uno degli annunci più efficaci della campagna è stato un grafico interattivo intitolato 10 verità scomode sulla fondazione Clinton»[16].
Il dibattito sull’opportunità di cancellare i dati è anch’esso un tema antico, che ha trovato proprio nella politica una sua applicazione importante. Si pensi al decreto di Trasibulo del 403 a. C., promulgato dopo la cacciata dei Trenta Tiranni da Atene: esso aveva lo scopo di voltare pagina e riportare la pace nella città, ponendo fine alla spirale di vendette e regolamenti di conti personali. Aristotele lo chiama «il patto dell’oblio»[17]. Un oblio volontariamente posto.
In termini molto simili si è espresso anche il celebre Editto di Nantes, promulgato da Enrico IV nel 1598, con il quale si pose fine alle guerre di religione in Francia. Esso esordisce stabilendo che «sia estinto il ricordo di qualsiasi azione compiuta dalle due parti dal principio del mese di marzo 1585 fino alla nostra accessione alla Corona […], come se nulla fosse mai accaduto»: una proibizione confermata nell’articolo successivo[18]. È significativo che si precisi non solo cosa dimenticare, ma che si stabilisca addirittura per quanto tempo debba essere fatto.
Gli esempi potrebbero essere moltiplicati a volontà: dalla pace di Vestfalia del 1648, che pose fine alla guerra dei Trent’anni («perpetua oblivio et amnestia») al discorso di Winston Churchill all’indomani della Seconda guerra mondiale («Se vogliamo salvare l’Europa da una sventura senza fine e da un tramonto definitivo, dobbiamo fondare tale salvezza su un atto di fede nella famiglia europea e su un atto d’oblio di tutti i crimini e gli errori commessi»[19]).
La polarità ricordo-oblio è molto presente anche in sede giuridica o morale, legata alla riconciliazione e al perdono. È presente sotto forma di prescrizione, come divieto di perseguire penalmente una persona per le azioni da essa compiute, trascorso un certo periodo di tempo; è presente nell’amnistia, come cancellazione stessa del legame tra le azioni e il suo autore; è presente infine nel perdono. Il filosofo Paul Ricœur precisa che nei primi due casi la dimenticanza è all’imperativo («devi dimenticare!»), mentre il perdono si pone come un desiderio, non imposto, espresso nella forma dell’ottativo: «Se una forma di oblio potrà, allora, essere legittimamente evocata, non consisterà in un dovere di tacere il male, bensì di dirlo in un modo pacificato, senza collera. Questa dizione non sarà nemmeno più quella di un comandamento, di un ordine, ma di un voto sul modo ottativo»[20].
È interessante notare come in tutti questi casi – fatta salva sempre la necessità di espiare per il male commesso – ricordo e dimenticanza non si escludano: sono cancellazioni consapevoli, per non identificare per sempre l’uomo con ciò che ha fatto ed è stato. Questo è indispensabile per la possibilità di un riscatto: concedere un’altra possibilità. Per non incorrere a livello sociale nella condizione senza speranza di Funes.
Quando il ricordo è di aiuto
Il processo di riconciliazione e perdono, indispensabili per la guarigione della memoria, può ricevere un aiuto dai nuovi ritrovati del digitale, non soltanto per lo studio e la ricerca, ma anche per l’identità narrativa personale, per accedere alla verità di ciò che è accaduto. Come si notava, nella memoria umana il ruolo giocato dall’immaginazione e dagli affetti è rilevante. Questa selettività, insieme alla colorazione affettiva del ricordo, può diventare uno schermo che deforma e non rende giustizia del passato.
Un’indagine su 400 persone che avevano superato i 30 anni di età ha mostrato un dato significativo: alla richiesta di rivedere la propria vita per dare consigli al «se stesso più giovane», la nota prevalente era la condanna o il dispiacere per aver compiuto o disatteso alcune scelte. Questo sguardo negativo portava a dimenticare altri aspetti dell’accaduto che potessero essere di aiuto per il presente, incrementando la tendenza alla condanna o all’autocommiserazione[21].
Una memoria più ampia, oggi resa possibile dalle molteplici opportunità sopra ricordate, può favorire letture differenti, più rispettose della complessità degli avvenimenti, ridimensionando il vissuto interpretativo e mostrando possibilità non intravviste, in grado di proteggere da fatalismi o autorimproveri. O dal rischio di una sbrigativa parzialità di giudizio in sede professionale[22].
Ciò è fondamentale per la giustizia e la riconciliazione, con gli altri come con se stessi: il commento interiore può oscurare dettagli importanti che, se resi noti, favoriscono il beneficio del dubbio e rimettono in discussione la polarità buono-cattivo propria dei giudizi sommari.
Accedere a un archivio più completo può favorire quell’atteggiamento che la fenomenologia chiama epochè, la sospensione del giudizio. E promuovere la memoria positiva, luogo della gratitudine.
Per un oblio a servizio della memoria
Come la memoria, anche la dimenticanza si rivela essere un’attività complessa e dai significati molteplici. In queste pagine ne abbiamo incontrati alcuni. Aleida Assmann ne riconosce almeno sette, di valore differente, suddivisi in tre modalità fondamentali:
- cognitivo (il dimenticare automatico, conservativo e selettivo);
- di fuga dalla realtà (il dimenticare repressivo e difensivo);
- positivo (il dimenticare costruttivo e terapeutico).
Quest’ultimo, in particolare, per essere esercitato, oltre a richiedere l’esercizio della memoria, la purifica e la potenzia, perché la restituisce alla complessità delle cose, protegge dai giudizi sommari e mostra nuove possibilità. Ma può fare ciò grazie alla memoria: «Detto con un’immagine, il dimenticare terapeutico significa: prima di poter voltare pagina, bisogna leggerla. Nell’ambito della confessione cristiana, per esempio, si ricorda per dimenticare, ma, prima di poter essere cancellata dall’assoluzione sacerdotale, la colpa va riconosciuta e confessata»[23].
Dante pone il Lete, il fiume della dimenticanza, al vertice del Purgatorio, nel Paradiso terrestre: qui le anime, dopo aver conosciuto ed espiato le loro colpe, possono finalmente dimenticarle per accedere alla beatitudine eterna del Paradiso (cfr Inferno, XIV, 136-137; Purgatorio, XXVIII, 121 ss). Per loro resterà solo la memoria del bene. All’Inferno, al contrario, i dannati, che non hanno compiuto questa purificazione della memoria, sono costretti a ricordare il male commesso. E a rinfacciarselo per l’eternità.
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MEMORY AND OBLIVION. AN INDISPENSABLE PAIR
On the contrary to how it may appear at first sight, memory and oblivion are not necessarily opposing terms, but rather allies. In fact, forgetting and remembering are both indispensable for knowledge. Therefore, if it is right to exalt the extraordinary capacities of human memory and to deplore its decline, one usually pays less attention to the importance that oblivion has in terms of intellectual well-being. Forgetting is not in itself a defect of memory, but a necessity. In addition, like memory, forgetting is a complex activity with multiple meanings, some of which are indispensable to our quality of life. When this subtle and perhaps indefinable balance is lost, they both become harmful to health.
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[1]. J. Foer, L’ arte di ricordare tutto, Milano, Tea, 2013, 166 s.
[2]. J. L. Borges, «Funes, o della memoria», in Id., Tutte le opere, Milano, Mondadori, vol. I, 2005, 714 s.
[3]. «Solomon Šereševskij», in Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Solomon_Šereševskij).
[4]. E. Canetti, La tortura delle mosche, Milano, Adelphi, 1993, 69. Šereševskij un giorno confidò a Lurija: «Se in un brano ci sono dei dettagli che mi è capitato di leggere altrove, la sua lettura mi risulta particolarmente difficile. In questo caso mi ritrovo a iniziare da una parte e finire da un’altra e tutto mi si confonde in testa […]. L’espressione di una persona dipende dal suo stato d’animo e dalle circostanze in cui mi capita di incontrarla. I visi delle persone cambiano continuamente e sono le diverse sfumature di espressione che mi confondono e mi rendono così difficile ricordarli» (citato in R. Quian Quiroga, Borges e la memoria. Viaggio nel cervello umano da Funes al neurone Jennifer Aniston, Trento, Erikson, 2018, 50 s).
[5]. V. Mayer-Schönberger, Delete. Il diritto all’oblio nell’era digitale, Milano, Egea, 2016, 10.
[6]. M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto. 1: Dalla parte di Swann, Milano, Mondadori, 2004, 189.
[7]. «Vero è che come forma non s’accorda / molte fïate a l’intenzion de l’arte, / perch’a risponder la matera è sorda» (Paradiso, I, 127-129).
[8]. A. Assmann, Sette modi di dimenticare, Bologna, il Mulino, 2019, 15; 62.
[9]. G. Bell – J. Gemmell, Total Recall. Memoria totale. Ricordare tutto? Inquietante, ma reale, Milano, Rizzoli, 2012, 20.
[10]. Cfr Platone, Fedro, 274-278. Per una panoramica del problema, si veda G. Cucci, Internet e cultura. Nuove opportunità e nuove insidie, Milano, Àncora – La Civiltà Cattolica, 2016.
[11]. Cfr L. A. Henkel, «Point-and-Shoot Memories: The Influence of Taking Photos on Memory for a Museum Tour», in Psychological Science 25 (2014/2) 396-402.
[12]. G. Ziccardi, Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto, eternità e oblio nell’era dei social network, Milano, Utet, 2017, 203; cfr G. Cucci, «Morte e digitale», in Civ. Catt. 2020 II 543-553.
[13]. Cfr J. Commons, «How Facebook Refused To Take Down Pictures Of Murdered Hollie Gazzard With Her Killer», in Grazia (https://graziadaily.co.uk/lifereal-life/facebook-refuses-take-pictures-murdered-hollie-gazzard-killer), 13 febbraio 2019.
[14]. «Gentili aziende tecnologiche: so che sapevate che ero incinta. È colpa mia, non sono riuscita a resistere a quegli hashtag di Instagram. Ho anche cliccato una o due volte sugli annunci di abbigliamento premaman offerti da Facebook […]. E scommetto che Amazon.com ti ha persino detto la mia data di scadenza, il 24 gennaio, quando ho creato quel registro Prime […]. Ma non hai visto il post dell’annuncio con parole chiave come “cuore spezzato” e “problema” e “nato morto” e le 200 emoticon a goccia dei miei amici? E quando milioni di persone dal cuore infranto cliccano su “Non voglio vedere questo annuncio”, sai cosa decide il tuo algoritmo, Tech Companies? Decide che hai partorito. Experian si lancia con il colpo di tracciamento più basso di tutti: un’e-mail di spam che mi incoraggia a “finire di registrare il tuo bambino” per tenere traccia del suo credito per tutta la vita. Per favore, Tech Companies, ti imploro: se i tuoi algoritmi sono abbastanza intelligenti da capire che ero incinta, o che ho partorito, allora sicuramente possono essere abbastanza intelligenti da rendersi conto che il mio bambino è morto, e smettere di mandarmi pubblicità» (G. Brockell, «Dear tech companies, I don’t want to see pregnancy ads after my child was stillborn», in The Washington Post, 12 dicembre 2018).
[15]. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma – Bari, Laterza, 2012, 405 s. Cfr, per una panoramica generale, U. Ambrosoli – M. Sideri, Diritto all’oblio, dovere della memoria. L’ etica nella società interconnessa, Milano, Bompiani, 2017.
[16]. H. Fry, Hello World. Essere umani nell’era delle macchine, Torino, Bollati Boringhieri, 2019, 47 s. Cfr B. Kaiser, La dittatura dei dati, Milano, HarperCollins, 2019; Sh. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Roma, Luiss, 2019; N. Tirino, Cambridge Analytica. Il potere segreto, la gestione del consenso e la fine della propaganda, Lecce, Libellula, 2019. I dati di Cambridge Analytica sono stati utilizzati per le campagne elettorali di Donald Trump e Ted Cruz, per il referendum sulla Brexit del 2016 e per le elezioni del 2018 in Messico.
[17]. «Non sia lecito a nessuno vendicarsi delle offese passate» (Aristotele, La Costituzione degli Ateniesi, 39, 6).
[18]. «Proibiamo a tutti i nostri sudditi, di qualsiasi stato o condizione, di rinnovare il ricordo di tali fatti, di aggredirsi, risentirsi, ingiuriarsi, provocarsi l’un l’altro rimproverandosi per quel che è avvenuto […], ma esortiamo tutti a vivere in pace come fratelli, amici e concittadini» (www.athenapiattaforma.it/7-leuropa-dellintolleranza).
[19]. W. Churchill (ed.), The Sinews of Peace. Post-War Speeches, London, Cassell, 1948, 200.
[20]. P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina, 2003, 646. Cfr G. Cucci, P come perdono, Assisi (Pg), Cittadella, 2011.
[21]. Cfr R. M. Kowalski – A. McCord, «If I knew then what I know now: Advice to my younger self», in The Journal of Social Psychology 91 (2020/1) 1-20.
[22]. Cfr G. Cucci, «Per un umanesimo digitale», in Civ. Catt. 2020 I 27-40.
[23]. A. Assmann, Sette modi di dimenticare, cit., 98; cfr 103.