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Cultura e società

IL MIO AMICO ERIC

Virgilio Fantuzzi

20 Febbraio 2010

Quaderno 3832

FILM

a cura di V. FANTUZZI

Il mio amico Eric (Gran Bretagna – Francia, 2009). Regista: KEN LOACH. Interpreti principali: S. Evets, E. Cantona, S. Bishop, L.-J. Hudson, G. Kearns, S. Gumbs, J. Henshaw, J. Moorhouse, D. Sharples, G. Cook.

Spalleggiato dal suo sceneggiatore abituale Paul Laverty, il regista inglese Ken Loach conduce una lotta senza quartiere contro la progressiva disgregazione dell’ambiente del lavoro in Gran Bretagna e altrove. Un operaio in pensione come il padre di Angie, protagonista del film precedente scritto e diretto dalla collaudata coppia, In questo mondo libero (cfr Civ. Catt. 2007 IV 519 s), non riusciva a orientarsi in un ambiente dove l’insicurezza e la precarietà tolgono a chi lavora il senso della propria dignità. Regista e sceneggiatore, che non hanno cambiato opinione, ritengono che questo sia il frutto della «rivoluzione thatcheriana», la quale ha fatto pendere la bilancia dalla parte del profitto a scapito del bene comune. Una linea perseguita anche da Tony Blair, da cui non si discosta Gordon Brown.
È curioso notare come i due cineasti «impegnati» riescano a mantenere la barra dritta, a non perdere cioè di vista il loro orientamento politico e sociale, nel passare da un film drammatico come In questo mondo libero, che descriveva a tinte fosche l’ambiente dell’importazione clandestina della mano d’opera, a una commedia come Il mio amico Eric, non certo spensierata, ma soffusa di toni crepuscolari che si aprono di tanto in tanto su squarci di ottimismo. Nella Manchester dove la classe operaia non va in paradiso e dove i proletari sanno che la lotta di classe è stata definitivamente perduta, c’è un ambiente di lavoro, l’ultima impresa statale che non è stata ancora privatizzata, nel quale vigono tra colleghi rapporti di autentica solidarietà. È la Royal Mail, tra i cui impiegati si trova Eric Bishop (Steve Evets), un cinquantenne depresso, abbandonato dalla donna con la quale conviveva, che gli ha lasciato sulle spalle due figliastri in età difficile (16-18 anni).
I compagni di lavoro non lo perdono di vista. Sanno che è in difficoltà e cercano, come si suol dire, di tirarlo su. Il gruppo è unito, oltre che dalla condivisione dei problemi quotidiani, dalla passione per il football o, per meglio dire, dal tifo per la squadra Manchester United e dall’autentica venerazione che nutrono nei confronti del loro idolo «King Eric», il campione francese Eric Cantona che, per un decennio, ha stupito il pubblico dei suoi fans con una serie di goal spettacolari. Il cuore dei lavoratori è sempre pronto ad accendersi per una squadra di calcio anche quando, con quello che costano i biglietti dello stadio, le partite si accontentano di vederle sul televisore del pub dove sono soliti incontrarsi.
Deus ex machina del film è il giocatore Cantona che interpreta il ruolo di se stesso o piuttosto quello del proprio fantasma, dato che l’altro Eric, quello in carne e ossa, quando è giù di corda si fa uno spinello e, invitato dagli amici a sentirsi amato e stimato dalla persona che ammira più di ogni altra, vede apparire il suo idolo, che lo invita a farsi coraggio e a non arrendersi davanti alle difficoltà. Situazione davvero strana soprattutto in un film di Loach che, almeno per una volta, sembra allontanarsi dal consueto realismo. Sorprende ancora di più sapere che all’origine del film non c’è una proposta fatta da Loach a Cantona, ma, al contrario, una proposta fatta pervenire da Cantona al regista attraverso due produttori francesi che avevano voglia di fare un film col campione.
Passano così sullo schermo, commentati dalla voce del «grande» Eric e da quella del «piccolo» Eric, che conversa con lui, i goal più strabilianti della carriera di Cantona. I dialoghi sono infarciti di aforismi. Gli stessi che il calciatore usa disseminare nelle interviste che rilascia sulla stampa o in televisione. «Se i gabbiani inseguono i pescherecci vuol dire che, prima o poi, saranno gettate in acqua delle sardine». C’è del senso comune in quello che dice. La sapienza popolare che si annida nei vecchi proverbi. Ma il chiodo su cui batte più spesso intervenendo nelle faccende personali e familiari del suo interlocutore, piuttosto complicate a dire il vero, è che non si deve mai mollare. Per giungere a sorprendere gli altri, bisogna, prima di tutto, sorprendere se stessi.
Oltre ai due figliastri, il più grande dei quali è coinvolto suo malgrado in una faccenda di malavita, Eric il «piccolo» ha dietro di sè un matrimonio andato in pezzi ormai da tanto tempo con una moglie, Lily (Stephanie Bishop), e una figlia, Sam (Lucy-Jo Hudson), divenuta madre a sua volta e in procinto di laurearsi. Little Eric riuscirà a rimettere insieme i cocci della sua vita e a tirare fuori dai guai il figliastro seguendo i consigli di Big Eric, il quale lo incoraggia ad avere fiducia negli altri e a contare sulla solidarietà dei compagni di lavoro.

Non è disponibile la versione digitale di questo articolo, è possibile leggerlo solo nella versione cartacea o e-book


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IL MIO AMICO ERIC

Virgilio Fantuzzi

Già scrittore de "La Civiltà Cattolica" (1937 - 2019).


20 Febbraio 2010

Quaderno 3832

  • pag. 423
  • Anno 2010
  • Volume I

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