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Il 31 ottobre Mario Draghi ha concluso il suo mandato di presidente della Banca centrale europea (Bce). Gli succede Christine Lagarde, fino a pochi mesi fa alla guida del Fondo monetario internazionale e precedentemente ministro dell’Economia in Francia[1]. Giurista di formazione, Lagarde ha acquisito negli anni una grande esperienza di politica economica. Le si riconoscono notevoli capacità diplomatiche e di mediazione, così come decisionali e di gestione istituzionale.
Pur essendo probabile che gli indirizzi sostanziali di politica monetaria non cambieranno immediatamente con il suo arrivo, Lagarde si troverà fin dall’inizio a gestire una crescente tensione all’interno del Consiglio direttivo della Bce, con i membri di diversi Paesi – tra cui Austria, Olanda e soprattutto Germania –, sempre più contrari a una politica monetaria, che ritengono troppo espansiva, nonostante i segni di un notevole rallentamento dell’attività reale nelle loro stesse economie[2].
Si tratta di tensioni legate a recenti scelte tecniche della Bce, che però evidenziano elementi di fondo di tutta la storia dell’Unione economica e monetaria (Uem) e, soprattutto, l’urgenza e l’opportunità di completare e rendere più solida la sua architettura. Un’opportunità preziosa in quanto per nulla scontata, vista la storia degli ultimi anni, durante i quali l’Uem ha rischiato di frantumarsi, e con essa il progetto di un’Europa politicamente e socialmente unita.
Sono stati anni caratterizzati da fenomeni economici, politici e sociali di eccezionale complessità: le crisi bancarie e dei debiti sovrani, il rischio di deflazione piuttosto che di inflazione, il caotico processo della Brexit, le istanze populiste contro la moneta unica e gli attacchi all’indipendenza della Bce.
In questi anni così complessi Draghi ha svolto un ruolo decisivo nel preservare l’Uem, assolvendo in modo tanto rigoroso quanto creativo il suo mandato. Ha contribuito inoltre ad avviare un processo di riforma dell’architettura dell’Uem, il cui completamento richiede l’accurata definizione di aspetti tecnici non secondari, ma soprattutto la responsabilità politica di ciascun Paese, anche di promuovere un’informazione corretta e di attuare le necessarie riforme a livello nazionale.
La conclusione del mandato di Draghi è allora l’occasione per ripercorrere la storia dell’Uem, sottolineando gli aspetti sia positivi sia problematici della sua architettura, il ruolo centrale della politica monetaria della Bce soprattutto negli anni della crisi, le riforme avviate e quelle ancora da realizzare, a livello europeo e nazionale.
Il cammino verso l’Unione economica e monetaria
L’Uem è il culmine di un lungo processo di integrazione dei Paesi europei, iniziato negli anni Cinquanta del secolo scorso con la firma dei Trattati di Roma e la costituzione della Comunità economica europea (Cee), a cui inizialmente aderirono sei Paesi (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Olanda), ai quali nel tempo si aggiunsero altri sei (Danimarca, Irlanda, Regno Unito, Grecia, Portogallo e Spagna).
Alla fine degli anni Sessanta ci fu un primo tentativo di definizione dell’Uem con un piano, predisposto da una commissione presieduta dall’allora primo ministro del Lussemburgo Werner, che prevedeva entro 10 anni la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la fissazione dei tassi di cambio tra i Paesi della Cee. Il piano fu quasi subito accantonato per via delle turbolenze degli anni Settanta, in particolare il crollo del sistema di Bretton Woods[3].
Un’altra tappa di avvicinamento all’Uem fu la creazione nel 1979 del Sistema monetario europeo (Sme), in base al quale ciascun Paese aderente si impegnava a evitare eccessive deviazioni della propria valuta dalle altre. Si trattava di un sistema «dominato» dalla politica monetaria tedesca, tendenzialmente restrittiva per la tradizionale avversione della Germania all’inflazione, dopo quella economicamente e socialmente devastante degli anni Venti e quella del 1945. Di conseguenza, le politiche monetarie degli altri Paesi erano interamente «dedicate» a mantenere le rispettive valute vicine al marco «forte». Il sistema, se da una parte vincolava le politiche monetarie nazionali, dall’altra riduceva il rischio di tensioni inflazionistiche e svalutazioni competitive – con le quali un Paese tenta di sostenere le proprie esportazioni –, e incentivava così il commercio europeo.
L’Atto Unico Europeo del 1985, dando impulso al «Mercato unico» di beni e servizi, fu un altro passaggio importante. Finalmente nel 1988 si giunse a un piano per la realizzazione dell’Uem, che fu preparato da un gruppo di lavoro, guidato dall’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors e che divenne parte del Trattato di Maastricht, Istitutivo dell’Unione Europea, sottoscritto nel 1992 dai 12 Paesi della Cee, e negli anni successivi da altri 16.
La ricezione del Trattato di Maastricht fu particolarmente travagliata in alcuni Paesi, soprattutto in Danimarca, Francia e Regno Unito. Alle incertezze politiche si aggiunsero gli attacchi speculativi, che nella seconda metà del 1992 costrinsero molti Paesi a svalutare, e Italia e Regno Unito ad abbandonare lo Sme. Secondo alcuni commentatori, quella era la prova evidente dell’impossibilità di coordinare le politiche monetarie e stabilizzare i cambi dei Paesi europei. Tuttavia si decise di «adattare» lo Sme, ampliando i margini di oscillazione delle valute, e di portare avanti il progetto dell’Uem, confidando che proprio la politica monetaria unica prevista nella sua architettura avrebbe ridotto l’instabilità.
I capisaldi dell’Uem, secondo le disposizioni del Trattato di Maastricht, furono introdotti in tre fasi: 1) la liberalizzazione dei movimenti di capitale (fino al 1993); 2) la convergenza delle politiche economiche, il coordinamento delle politiche monetarie e il requisito dell’indipendenza delle Banche centrali nazionali dai governi, con il divieto di finanziamento monetario dei deficit pubblici (1994-98); 3) l’introduzione dell’euro[4], l’entrata in vigore del Patto di stabilità e crescita sui vincoli di politica fiscale e l’inizio della politica monetaria comune (dal 1999 in poi).
La Banca centrale europea e la stabilità dei prezzi
Nel 1999 la Bce divenne quindi responsabile della politica monetaria nell’area euro. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (art. 127) assegna al sistema europeo di Banche centrali (Sedc) l’obiettivo del «mantenimento della stabilità dei prezzi». La Bce contribuisce anche a sostenere l’economia reale, «fatto [però] salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi».
Questa insistenza sulla stabilità dei prezzi si basa sul dato incontrovertibile che l’inflazione è, in ultima analisi, un fenomeno monetario: aumenti incontrollati della quantità di moneta hanno l’effetto di aumentare i prezzi, ma non quello di aumentare la crescita e l’occupazione, che invece sono determinate da fattori strutturali, come il progresso tecnologico, le tendenze demografiche, la qualità delle istituzioni, l’efficienza del welfare e del sistema produttivo.
Se la Bce non può modificare la traiettoria di crescita dell’economia, può però controllare la quantità di moneta in circolazione e contrastare, su un orizzonte di tempo sufficientemente ampio, fenomeni sia di eccessiva inflazione sia di deflazione[5]. In effetti, l’obiettivo della Bce si traduce operativamente nel tentativo di mantenere nel medio termine l’inflazione annua dei prezzi al consumo sotto, ma vicina al 2%.
Un’inflazione eccessiva, infatti, è molto dannosa e tende ad autoalimentarsi: le famiglie vedono ridotto il loro potere di acquisto e chiedono salari più alti; le imprese a loro volta rispondono agli aumenti salariali aumentando ulteriormente il prezzo dei prodotti. Inoltre, l’inflazione disincentiva il risparmio, dato che si viene ripagati con una moneta che vale meno, e rende costosissimo per i governi emettere debito pubblico. Gli effetti su investimenti e crescita sono deleteri. Argentina, Venezuela e Zimbabwe sono esempi recenti e drammatici di episodi di iperinflazione.
D’altra parte, è molto dannosa anche la deflazione, ovvero una persistente diminuzione dei prezzi non legata a innovazione tecnologica o maggiore efficienza produttiva. In contesti di deflazione, le famiglie tendono a posticipare i consumi, e le imprese di conseguenza riducono salari, occupazione e investimenti, con un effetto ulteriormente negativo su consumi e prezzi. In deflazione, inoltre, è molto complicato per le autorità di politica monetaria e riportare i prezzi su un sentiero crescente e sostenere l’economia.
Si comprende allora l’assoluta priorità che il mandato della Bce attribuisce alla stabilità dei prezzi, intesa come aumento contenuto e costante. E in quest’ottica si possono individuare due fasi della storia dei primi 20 anni dell’euro: la prima di contenimento e stabilizzazione dell’inflazione, la seconda di lotta contro il rischio di deflazione.
I primi 20 anni dell’euro
Nella prima fase, dal 1999 al settembre del 2008 – quando il fallimento di Lehman Brothers innescò la peggiore crisi economica e finanziaria dai tempi della Grande Depressione del 1929 – la Bce riuscì a mantenere l’inflazione vicina all’obiettivo del 2%, anche se in media leggermente al di sopra (2,35%). Soprattutto, consolidò la sua credibilità e confermò le aspettative che, grazie all’Uem, l’inflazione europea sarebbe stata strutturalmente inferiore a quella dei 20 anni precedenti.
Nella seconda fase la Bce si trovò invece ad affrontare il problema opposto. A seguito della crisi, l’inflazione diminuì sensibilmente, fino a diventare negativa nel 2014, per poi tornare a salire, seppur stentando a raggiungere l’obiettivo del 2%. Uno dei principali motivi della prolungata difficoltà di raggiungere il target di inflazione è al centro del dibattito attuale sulla riforma dell’Uem: la mancanza di coordinamento tra la politica monetaria della Bce e le diverse politiche fiscali nazionali.
Infatti, se a partire dal 2008 la politica monetaria della Bce è stata sempre più espansiva, le politiche fiscali nazionali sono state eterogenee e complessivamente restrittive. Da una parte, i Paesi con una tradizione di maggiore disciplina di bilancio hanno risposto alla crisi utilizzando lo «spazio» fiscale a disposizione. Dall’altra parte, a partire dal 2010 sono esplose le crisi dei debiti sovrani di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna, che, proprio in quella fase, hanno dovuto ristabilire la credibilità e la sostenibilità fiscale.
E «il circolo vizioso» tra banche e governi nazionali ha accentuato tale frammentazione: da un lato, banche con un’alta concentrazione all’attivo di titoli sovrani del proprio Paese, e quindi legate alle sorti delle finanze pubbliche nazionali; dall’altro, ingenti risorse utilizzate dai governi per ricapitalizzare banche del proprio Paese, ma non sempre nella misura adeguata e in modo efficiente.
Tutto questo ha reso ancora più complesso il compito della Bce, che si è trovata «isolata» nel tentativo di rispondere alla crisi.
Le risposte della Banca centrale europea alla crisi
Fin dall’inizio della crisi, come già sottolineato, la Bce adottò una politica monetaria espansiva. Ma tra il 2010 e il 2012 le crisi dei debiti sovrani complicarono ulteriormente la situazione. Con la prospettiva di dissoluzione dell’Uem sempre più concreta, in un discorso nel luglio del 2012 Draghi, alla presidenza della Bce da meno di un anno, pronunciò una frase che rimarrà storica e che fu decisiva: «Nell’ambito del nostro mandato, la Bce è pronta a fare tutto quello che è necessario per salvaguardare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza».
La credibilità dell’annuncio fece ridurre drasticamente i rendimenti dei titoli dei Paesi più a rischio di default, tanto che tra questi nessuno fece mai ricorso al programma emergenziale predisposto dalla Bce (le cosiddette Outright Monetary Transactions). La dissoluzione dell’Uem fu così scongiurata.
Oltre a questo decisivo intervento, un altro tratto distintivo della presidenza di Draghi è stato l’adozione di misure non convenzionali di espansione monetaria, tra cui l’acquisto dalle banche di titoli di debito pubblico (il cosiddetto Quantitative Easing) e l’applicazione di interessi negativi sulle riserve depositate dalle banche presso la Bce, con l’obiettivo di stimolare il credito, sostenere l’occupazione e avvicinarsi al target di inflazione. Queste misure hanno suscitato critiche da parte della Germania e di altri Paesi, che ne lamentano i potenziali effetti distorsivi: tassi di interesse tanto bassi penalizzano il risparmio privato, possono incentivare l’erogazione di credito a imprese inefficienti e aumentano il rischio di bolle speculative; d’altra parte, l’acquisto di titoli di debito pubblico disincentiva la disciplina fiscale da parte di alcuni Paesi.
Si tratta però di critiche che non possono sminuire l’operato di Draghi. Le misure non convenzionali, infatti, pur non avendo ancora sortito tutti i loro effetti positivi, sono state decisive per scongiurare il rischio di deflazione, evitare il precipitare della crisi e sostenere l’occupazione: rispetto a questo, i potenziali effetti distorsivi assumono un peso minore.
In condizioni di straordinaria incertezza e complessità, Draghi è riuscito a evitare il peggio, prendendo decisioni innovative e audaci, sulla base di analisi rigorose e nel pieno rispetto del suo mandato, come anche riconosciuto dalla Corte di giustizia europea a fine 2018. Inoltre, i Trattati dell’Unione sanciscono l’indipendenza della Bce, ma l’obbligo di rendere conto del proprio operato ai cittadini e ai loro rappresentanti eletti: Draghi ha difeso l’indipendenza della Bce dalle pressioni politiche più diverse, proprio aumentando la trasparenza delle strategie di politica monetaria e rispondendo in modo puntuale e costruttivo alle diverse istanze.
Infine, non si può dimenticare che Draghi ha contribuito ad avviare un processo di riforma dell’Uem e ha ripetutamente invitato i Paesi membri a completarlo. A 20 anni dall’introduzione dell’euro, sono infatti evidenti gli enormi benefici di una politica monetaria credibile: maggiore integrazione e sincronizzazione delle economie e riduzione drastica dell’inflazione e del costo di finanziamento per molti Paesi. D’altra parte, è necessario semplificare i vincoli di finanza pubblica, procedere con l’unione dei sistemi finanziari e integrare le politiche fiscali; ed è opportuno che questi obiettivi siano assegnati a istituzioni europee, come la Bce indipendenti e responsabili per il proprio operato. In questo modo, la Bce raggiungerebbe più facilmente il suo obiettivo di stabilità dei prezzi e tutti i Paesi membri coglierebbero pienamente i benefici dell’Uem.
Le riforme avviate
Secondo queste linee di riforma, con il contributo rilevante di Draghi, alcuni passi sono stati fatti negli ultimi anni[6]. Nel 2012 è stato costituito il Meccanismo europeo di stabilità, un fondo che eroga credito a Paesi in serie difficoltà finanziarie, a fronte del loro impegno a mantenere la disciplina fiscale. In questo modo il Meccanismo sostiene la ripresa dei singoli Paesi ed evita il propagarsi di crisi di fiducia a livello sistemico.
Un’altra importante riforma, iniziata sempre nel 2012, è stata l’istituzione dell’Unione bancaria, che prevede due pilastri. Il primo è il Meccanismo di vigilanza unico, che attribuisce alla Bce la supervisione diretta delle banche più significative (attualmente 116, che detengono circa l’80% degli attivi bancari dell’area euro). Il secondo è il Meccanismo di risoluzione unico, che attribuisce a un’agenzia indipendente (il Comitato di risoluzione unico) la decisione di ristrutturare o meno le banche di cui la Bce certifica il dissesto. Si procede alla ristrutturazione se è nell’interesse pubblico, in considerazione del rischio di instabilità sistemica implicato dal dissesto. In tal caso, la ristrutturazione avviene tutelando i depositanti e imponendo i costi agli azionisti e ai creditori subordinati (il cosiddetto bail-in) piuttosto che ai contribuenti (bail-out), eventualmente attingendo a un fondo privato, costituito dal settore bancario (il Fondo unico di risoluzione). Nel caso in cui il Comitato non riconosca l’interesse pubblico, il dissesto viene gestito a livello nazionale secondo le procedure di insolvenza ordinarie.
L’Unione bancaria è una riforma importante, ma emergono alcune criticità. Innanzitutto, il Fondo unico è troppo esiguo. In secondo luogo, c’è il rischio che la liquidazione a livello nazionale di istituti non «sistemici» alimenti il «circolo vizioso» tra governi e banche dello stesso Paese.
Soprattutto, all’Unione bancaria manca il terzo decisivo pilastro: un sistema di assicurazione dei depositi che tuteli uniformemente i depositanti nell’area euro. Il sistema sarebbe dotato di un fondo a cui le banche contribuirebbero in base alla loro rischiosità. Anche in caso di grandi crisi finanziarie, l’entità del fondo consentirebbe di ridurre il rischio di corse agli sportelli e di non far ricadere il peso dei dissesti sui contribuenti. Il sistema, inoltre, contribuirebbe a rendere più efficace il meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Ovviamente questo sistema, come ogni meccanismo di assicurazione, può indurre comportamenti rischiosi (il cosiddetto «azzardo morale») e implica la possibilità di trasferimenti di risorse dal «centro» alle realtà dove si manifestino i dissesti. E davanti a queste possibilità, Paesi come la Germania si oppongono alla costituzione di un’assicurazione dei depositi europea.
Analoghe resistenze ostacolano la realizzazione di un’unione fiscale. Più in generale, alcuni Paesi esigono una riduzione dei rischi attraverso una maggiore disciplina sia fiscale sia finanziaria dei singoli Paesi, mentre altri invocano maggiore condivisione dei rischi attraverso meccanismi di assicurazione tra Paesi. E la contrapposizione di queste istanze rallenta considerevolmente il processo di riforma dell’Uem.
Riduzione e condivisione dei rischi: riforme complementari da attuare
Si tratta però di un’impasse essenzialmente politica. Tra economisti, infatti, si riconosce più facilmente che queste istanze di riduzione e condivisione dei rischi sono complementari e non alternative. E lo stesso Draghi lo ha più volte sottolineato, invitando a procedere con decisione su entrambi i fronti.
In questo senso, è interessante una recente proposta di un gruppo di economisti francesi e tedeschi – tra cui Isabel Schnabel, indicata dalla Germania come prossimo membro del Comitato esecutivo della Bce –, che raccoglie e integra i contributi del fruttuoso dibattito degli ultimi anni e rispetto alla quale c’è una buona convergenza, per lo meno accademica[7].
Cercando di riassumere i punti della proposta, si individuano tre decisivi ambiti di riforma: 1) la progressiva eliminazione del «circolo vizioso» tra governi e banche dello stesso Paese; 2) la semplificazione dei vincoli di spesa previsti dal Patto di stabilità e crescita; 3) la creazione di un’istituzione europea di stabilizzazione fiscale.
Quanto al primo ambito, è fondamentale completare l’Unione bancaria costituendo un sistema europeo di assicurazione dei depositi e incrementando la dotazione del Fondo unico di risoluzione. Inoltre, aiuterebbe creare un titolo di debito sicuro, che le banche potrebbero detenere al posto dei titoli sovrani del proprio Paese e che potrebbe essere «disegnato» in modo da non implicare la mutualizzazione dei debiti tra Paesi. D’altra parte, si deve lasciare minore discrezionalità ai governi nei casi di liquidazione delle banche non sistemiche, promuovere un’azionariato meno «nazionale» delle banche di ciascun Paese, proseguire la riduzione dei crediti deteriorati presenti nei bilanci delle banche europee (ad oggi poco più della metà degli oltre 1.000 miliardi del 2014), e infine sviluppare l’Unione dei mercati dei capitali per ampliare le possibilità di finanziamento delle imprese europee, tipicamente dipendenti dal credito bancario.
Quanto al Patto di stabilità e crescita, è auspicabile avere una sola regola fiscale, in base alla quale la crescita della spesa pubblica di un Paese non può essere maggiore della crescita di lungo periodo del suo Pil nominale, e deve essere tanto minore quanto maggiore è il suo debito pubblico; alcuni tipi di investimenti pubblici, come ad esempio quelli ambientali e per l’innovazione tecnologica, non rientrerebbero nel computo; le spese aggiuntive dovrebbero essere finanziate emettendo debito subordinato. Questa regola permetterebbe, più semplicemente rispetto ad oggi, sia di mantenere la disciplina fiscale di lungo periodo sia di attuare politiche anti-cicliche, ovvero di maggiore spesa nelle fasi recessive e viceversa in quelle espansive. Inoltre, sarebbe verificabile in modo più oggettivo, idealmente da un’istituzione centrale indipendente e responsabile per il proprio operato. Sempre nell’ambito della finanza pubblica, sarebbe opportuno definire regole chiare per la ristrutturazione dei debiti dei Paesi evidentemente insolventi, per rendere il principio del bail-in effettivo anche per quanto riguarda i titoli sovrani.
Infine, l’istituzione centrale di stabilizzazione fiscale potrebbe avere la forma di un’assicurazione contro la disoccupazione: un Paese dove la disoccupazione salisse sopra una determinata soglia riceverebbe dagli altri Paesi, purché non colpiti dalla stessa recessione, dei trasferimenti; per evitare l’azzardo morale, i trasferimenti sarebbero vincolati al rispetto previo di alcune regole.
Questa sintesi di alcune delle proposte di riforma dell’Uem dimostra tutta la complessità del processo, ma anche la presenza di un solido dibattito e di soluzioni concrete che, se implementate congiuntamente, rispettano le istanze e migliorano la situazione di tutti i Paesi. Anche grazie a Draghi, esiste oggi questa possibilità di confronto e di avanzamento. E l’opinione pubblica ne riconosce il valore: nell’area euro il supporto per l’Uem è ai massimi livelli di sempre e significativamente in crescita proprio nei Paesi che durante la crisi hanno rischiato di uscire dall’Unione e in quelli dove recentemente i movimenti antieuropeisti hanno avuto un consenso relativamente maggiore[8].
La responsabilità politica di ciascun Paese
Il completamento dell’architettura dell’Uem dipende ora dalla responsabilità politica di ciascun Paese, anche di promuovere un’informazione corretta e di attuare le necessarie riforme a livello nazionale, come Draghi ha spesso invitato a fare. In questo senso, Germania e Italia sono esempi paradigmatici.
In Germania si è recentemente alimentata una narrativa distruttiva che, anche se non maggioritaria, ha impedito di considerare lucidamente le valide soluzioni ai problemi di azzardo morale e di riconoscere che una maggiore integrazione delle politiche fiscali e dei sistemi finanziari permetterebbe una riduzione dei rischi aggregati, con grandi benefici per la Germania stessa. In questo senso, è incoraggiante la nomina al Comitato esecutivo della Bce di Isabel Schnabel, un’eccellente economista, capace di analisi tanto rigorose quanto costruttive.
D’altra parte, in Italia, le disarticolate istanze populiste di ritorno all’autonomia monetaria hanno recentemente determinato un ingente aumento della spesa per interessi sul debito pubblico, che inevitabilmente grava sui contribuenti. E preoccupa l’inconsistenza della narrativa che attribuisce all’euro e alle istituzioni europee la responsabilità della perdita di competitività dell’Italia, che invece dipende dalla produttività stagnante, che a sua volta richiede di affrontare con obiettività e profondità i nodi strutturali che frenano il Paese e alimentano le disuguaglianze. Rispetto a queste sfide e alla possibilità di contribuire credibilmente a un serio progetto di completamento dell’Uem, è necessario procedere con maggiore discontinuità, sia nel dibattito pubblico sia nell’azione politica.
Conclusione
Mario Draghi è stato protagonista di una delle fasi più complesse della storia recente d’Europa. Il suo servizio come presidente della Banca centrale europea è stato decisivo per salvare l’Unione economica e monetaria, e grazie al suo contributo si presenta oggi la straordinaria opportunità di completarla.
Ciascun Paese ha una grande responsabilità. In Germania è necessario far in modo che una maggiore integrazione delle politiche fiscali e dei sistemi finanziari permetterebbe una migliore stabilizzazione macroeconomica a beneficio di tutti. Altri Paesi devono attuare riforme che rendano le istituzioni più funzionali e credibili, aumentino le prospettive di crescita e riducano le disuguaglianze. L’Italia, in particolare, deve affrontare con ben maggiore obiettività e discontinuità rispetto al passato i suoi nodi strutturali: la spesa pubblica inefficiente, l’eccessiva pressione ed evasione fiscale, l’iniquità intergenerazionale del sistema pensionistico, le carenze di istruzione e ricerca, la produttività stagnante. Sono problemi complessi che richiedono soluzioni profonde, in assenza delle quali trovano consenso istanze inconsistenti e dannose per la crescita e l’equità.
L’azione dei diversi Paesi lungo queste linee permetterebbe il completamento dell’Unione economica e monetaria che, a sua volta, amplificherebbe gli effetti positivi delle riforme a livello nazionale. La Banca centrale europea continua ad agevolare questo processo, ma solo la politica può portarlo a compimento.
In contesti del tutto inediti, dominati dall’incertezza e dallo scetticismo, Draghi ha saputo prendere decisioni sulla base di analisi rigorose, con audacia e guidato da una visione altissima dell’Europa, unita ben oltre la moneta come nel progetto dei Padri fondatori. Ha creato così le condizioni perché il processo di unione dei nostri Paesi giunga a compimento.
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MARIO DRAGHI’S CONTRIBUTION TO EUROPE. Economic and Monetary Union
Mario Draghi was the protagonist of one of the most complex phases of recent European history. His service as President of the European Central Bank has been decisive in saving the Economic and Monetary Union and starting a process of reform of its architecture, the completion of which depends on the political responsibility of each Country. This article traces the history of the Union, underlining the fundamental role of monetary policy during the crisis, and describes the reforms undertaken and those still to be implemented. Draghi emerges as a policy maker of the highest stature, and to our gratitude to him we add the hope that his way of proceeding without rhetoric, with in-depth study and vision, will be taken on in broader areas of both European and Italian politics.
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[1]. Il presidente della Bce dirige il Comitato esecutivo (di cui fanno parte anche il vicepresidente e altri quattro membri) e il Consiglio direttivo (formato dal Comitato esecutivo e dai governatori delle Banche centrali nazionali dei Paesi che adottano l’euro). Il Comitato esecutivo implementa la politica monetaria dell’area euro secondo gli indirizzi stabiliti dal Consiglio direttivo. I membri del Comitato esecutivo hanno mandati di otto anni, non rinnovabili e a scadenze scaglionate. Sono nominati dal Consiglio europeo (che riunisce i Capi di Stato e di governo), dopo aver consultato il Parlamento europeo. Nei prossimi giorni verrà nominato membro del Comitato esecutivo l’italiano Panetta, attualmente direttore generale della Banca d’Italia, in sostituzione del francese Cœuré, in scadenza di mandato.
[2]. Sono significative in questo senso le recenti e improvvise dimissioni della tedesca Lautenschläger dal Comitato esecutivo, più di due anni prima del termine del suo mandato.
[3]. Un sistema monetario internazionale in vigore dal secondo dopoguerra, in base al quale le principali valute erano ancorate al dollaro, che a sua volta manteneva un rapporto di cambio fisso con l’oro.
[4]. La circolazione di banconote e monete iniziò il 1° gennaio 2002. Inizialmente adottarono l’euro 11 Paesi. Negli anni se ne aggiunsero altri otto. È previsto che anche gli altri Paesi dell’Unione Europea, non appena soddisfino i criteri di convergenza, adottino l’euro. Solo Danimarca e Regno Unito hanno scelto di mantenere le valute nazionali, e il Regno Unito recentemente ha anche deciso di uscire dall’Unione.
[5]. La Bce cerca di controllare i prezzi emettendo liquidità e fissando i tassi di interesse a cui le banche possono prendere in prestito tale liquidità. Questi «impulsi», attraverso il complesso meccanismo di trasmissione della politica monetaria, passano, non sempre nell’immediato, ai mercati finanziari, alle scelte di consumo e investimento, e infine ai prezzi.
[6]. Draghi ha partecipato alla redazione del cosiddetto «Rapporto dei cinque Presidenti», un piano sul completamento dell’Uem presentato nel 2015 e da attuare entro il 2025. Esso prevede il passaggio da regole a istituzioni, per un’effettiva unione politica, fiscale e finanziaria.
[7]. Gli autori sintetizzano la proposta nell’articolo «How to reconcile risk sharing and market discipline in the euro area», che si trova sul sito voxeu.org
[8]. La Commissione europea conduce sondaggi annuali su diversi temi relativi all’Unione (il cosiddetto «Eurobarometro»). I risultati si trovano sul sito della Commissione ec.europa.eu