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In occasione del 110° anniversario di fondazione del Pontificio Istituto Biblico (7 maggio 1909), si è svolto, nell’Aula Magna della Pontificia Università Gregoriana, il convegno internazionale Jesus and the Pharisees: An Interdisciplinary Reappraisal (7-9 maggio 2019). L’evento, organizzato in collaborazione con il Centro cardinal Bea per gli Studi giudaici della Gregoriana, è stato sostenuto dall’ American Jewish Committee, dalla Conferenza Episcopale Italiana, da Verbum Catholic Study Software e dalla Gregorian University Foundation, e ha visto come relatori studiosi ebrei, protestanti, cattolici e altri, provenienti da ogni parte del mondo.
Prima finalità del simposio è stata quella di promuovere un riesame delle fonti storiche e letterarie in nostro possesso per fornire un quadro più chiaro sull’effettiva identità dei farisei nell’antichità. Grazie a un approccio multidisciplinare si sono poi riconsiderati i fattori responsabili degli stereotipi che hanno segnato la percezione comune dei farisei e gli effetti delle opinioni espresse su questo gruppo. Non sono state quindi trattate soltanto questioni inerenti agli studi biblici, ma anche l’omiletica, i testi scolastici e la cultura popolare, della quale sono espressione libri, film e opere teatrali su Gesù e sulla rappresentazione della Passione. Sono state infine indicate alcune modalità per superare e abbandonare qualsiasi percezione distorta[1]. Come ha osservato papa Francesco nel discorso consegnato ai partecipanti, ricevuti in Udienza speciale, questo convegno, «mettendo in relazione fedi e discipline nel suo intento di giungere a una comprensione più matura e accurata dei farisei, permetterà di presentarli in modo più appropriato nell’insegnamento e nella predicazione».
In effetti, di fronte alla questione farisaica, lo studioso si trova in una situazione molto simile a quella che concerne la ricerca del Gesù storico. Le complesse problematiche a riguardo potrebbero essere compendiate intorno a tre cardini: uno ontologico (chi erano veramente i farisei?); uno epistemologico (quali sono i criteri per arrivare alla loro vera identità?); e uno ermeneutico (come interpretare i testi che li riguardano?). Sulla base di quanto emerso dai lavori del convegno, è possibile formulare cinque proposizioni, che possono costituire dei fondamenti su cui costruire una lettura ontologicamente, epistemologicamente ed ermeneuticamente significativa per la futura comprensione dei farisei nella Chiesa cattolica e nell’ambito delle altre confessioni cristiane.
La questione farisaica nel nuovo contesto teologico ebraico-cristiano
Il giudizio che il cristianesimo, lungo i secoli, ha formulato sui farisei – con la connotazione negativa che il fariseismo ha assunto nel pensiero teologico e nella catechesi ecclesiale – è figliastro di una teologia antigiudaica. Una certa teologia cristiana, come quella della «sostituzione» (sostituzione dell’Alleanza, della Legge, del popolo di Dio ecc.) e quella del compimento, inteso come «perfezionamento» di ciò che era prima imperfetto (perfezionamento dell’immagine di Dio dell’Antico Testamento, perfezionamento dei precetti della Torah ecc.) ha portato a un fraintendimento sostanziale del movimento farisaico e della successiva teologia rabbinica. I farisei sono divenuti i nemici di Gesù, i rappresentanti della Legge che si oppone alla Grazia, del vecchio che si oppone al nuovo.
Soltanto un dialogo sincero su basi teologiche rinnovate può condurre a un ripensamento di questa immagine. Un convegno sul fariseismo con rappresentanza ebraica e cristiana è stato possibile perché sia i cristiani sia gli ebrei, nel dramma di una storia comune intricata e macchiata di sangue, sono sulla strada di una percezione profondamente diversa del rapporto fra le relative Scritture Sacre, dell’Alleanza mai revocata e dei popoli a cui le Scritture e l’Alleanza appartengono. La Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, nel documento del 2015 Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29), ha scritto: «La Chiesa professa inequivocabilmente, all’interno di un nuovo quadro teologico, le radici ebraiche del cristianesimo […]; essa non rimette in discussione l’amore costante di Dio per Israele, suo popolo eletto. Viene così delegittimata la teologia della sostituzione che vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili e una Sinagoga respinta e sostituita dalla Chiesa» (n. 17).
I contenuti del convegno Jesus and the Pharisees vanno pertanto letti nell’alveo del profondo cambiamento teologico che ha investito la Chiesa in quest’ultimo mezzo secolo. È nostra convinzione che solo nel quadro di questo nuovo contesto teologico sia possibile un’impostazione diversa della questione farisaica e di tutte quelle altre questioni che sono oggetto di dibattito tra ebrei e cristiani.
Il confronto con ermeneutiche differenziate
Nella presentazione dei farisei operata dalla tradizione cristiana nel corso della sua storia bimillenaria c’è stata un’assunzione acritica delle sole fonti evangeliche. Ciò che è emerso chiaramente dal convegno è che di immagini riguardanti i farisei ce n’è più di una. Questo non solo perché nel corso delle varie epoche i farisei hanno assunto le tonalità dei vari interpreti che se ne sono occupati, ma anche perché – sin dalle origini – i farisei descritti dai Vangeli non sono gli stessi di Paolo di Tarso o di Flavio Giuseppe, né tantomeno quelli della letteratura rabbinica, senza menzionare la varietà delle sfaccettature e contraddizioni all’interno delle stesse fonti, per cui una sintesi risulta pressoché impossibile.
Conviene qui citare nuovamente il già menzionato documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo: «Dopo la catastrofe della distruzione del secondo Tempio nell’anno 70 […] si profilarono due risposte alla (nuova) situazione o, per meglio dire, due nuovi modi di leggere le Scritture, ovvero l’esegesi cristologica dei cristiani e l’esegesi rabbinica di quella forma di ebraismo che ebbe uno sviluppo storico. Poiché ciascuna modalità comportava una nuova interpretazione delle Scritture, la questione cruciale consiste ora nel comprendere precisamente come queste due modalità si rapportano l’una all’altra. Tuttavia, dato che la chiesa cristiana e l’ebraismo rabbinico post-biblico si svilupparono in parallelo, ma anche in una reciproca opposizione e ignoranza, non è possibile trovare una risposta a questa domanda basandosi soltanto sul Nuovo Testamento. Dopo secoli di contrapposizioni, il dovere del dialogo ebraico-cattolico è ora quello di far interloquire tra loro questi due modi di leggere le Scritture bibliche, per individuare la “ricca complementarità” laddove esiste e “aiutarci vicendevolmente a sviscerare la ricchezza della Parola”» (nn. 30-31).
Da cristiani comuni, come pure da studiosi di un certo livello, sono state fatte affermazioni avventate sulla base di stereotipi inveterati, senza una reale disamina critica delle diverse fonti a questo riguardo. Il famoso studioso tedesco Joachim Jeremias, nel volume Gerusalemme al tempo di Gesù, scrive che, da una parte, i farisei formavano un gruppo che prendeva distanza dalle masse popolari – arrivando fino al disprezzo e all’esclusione del popolino – e, dall’altra, avevano comunque un forte influsso sulle medesime masse, a tal punto da svolgere un ruolo importante nella condanna di Gesù. Egli infatti si sarebbe messo in pericolo contrapponendosi a essi e chiamando i peccatori a conversione: «Questo atto lo condusse alla croce»[2].
In Rediscovering the Teaching of Jesus, Norman Perrin – discepolo di Jeremias e professore di Nuovo Testamento dal 1964 al 1976 alla Divinity School dell’Università di Chicago – scrive che a provocare i farisei, che si affidavano al merito e volevano la punizione per i peccati, fu l’offerta del perdono da parte di Gesù verso quei peccatori che «erano considerati al di fuori della speranza di pentimento o di perdono»[3]. Offrendo il perdono, Gesù avrebbe avviato il giudaismo sulla strada della crisi[4]. In un contributo su «The Quest of the Historical Jesus», Ernst Fuchs sostiene che la morte di Gesù fu dovuta al fatto «che egli proclamava, attraverso la sua stessa condotta, che la volontà di Dio era una volontà misericordiosa»[5].
È legittimo domandarsi se tali opinioni abbiano un qualche fondamento sulla base delle fonti criticamente vagliate e delle innumerevoli istanze che attraversavano il mondo giudaico nel tempo delle origini cristiane. Per gli studiosi cristiani non è più possibile affrontare la questione farisaica sulle sole basi evangeliche e neotestamentarie. Occorre ribadire la necessità di confrontarsi con fonti ed ermeneutiche diverse, e questa sensibilità – già oggi molto diffusa – dovrà essere in futuro sempre più viva e operante.
Anthony Saldarini, nella sintesi a conclusione del suo contributo su «The Pharisees» in The Anchor Bible Dictionary offre, ad esempio, un modello interessante, anche se non del tutto condivisibile[6].
Il movimento cristiano all’interno dei giudaismi del I secolo
Un altro importante scenario da approfondire è quel periodo della storia e della cultura giudaica compreso tra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. Sotto l’influsso di Wellhausen, Bousset, Schürer e altri, questo periodo è stato presentato come un’epoca di degenerazione legalistica rispetto al giudaismo «profetico» delle epoche precedenti. Lo schema evolutivo hegeliano ha fatto sì che la lettura di tale epoca – con il movimento farisaico identificato quale espressione sintomatica del tempo – fosse interamente negativa: una sorta di deterioramento rispetto a epoche precedenti, dovuto a una comprensione legalistica e materialistica della fede, un giudaismo decadente da sostituire con l’astro nascente del cristianesimo.
Si tratta di uno schema monolitico tradizionale, che ha regnato nell’epoca della contrapposizione polemica cristiana al giudaismo, e che oggi, ovviamente, nessuno studioso serio porrebbe in questi termini. Jules Isaac ha scritto: «Il cristianesimo è nato da un ebraismo non degenerato, ma pieno di vitalità, come lo provano la ricchezza della letteratura ebraica, l’indomita resistenza dell’ebraismo al paganesimo, la spiritualizzazione del culto nelle sinagoghe, il diffondersi del proselitismo»[7]. Ed Parish Sanders, nel contesto di una trattazione sul fariseismo al tempo di Gesù e Paolo, scrive: «La frequente accusa cristiana contro il giudaismo […] non è che alcuni singoli ebrei fraintesero […] e fecero cattivo uso della propria religione, ma che il giudaismo necessariamente tende verso un legalismo angusto, verso una casistica fine a se stessa e che inganna se stessa, e verso un misto di arroganza e di mancanza di fiducia in Dio. Ma la letteratura ebraica rimastaci è esente da queste caratteristiche […]; il dono e l’esigenza divina erano tenuti in una sana relazione reciproca, i minuti dettagli della legge erano osservati sulla base di principi più generali della religione e con lo scopo di abbandonarsi a Dio, mentre d’altra parte era incoraggiata l’umiltà di fronte al Dio che aveva scelto Israele e l’avrebbe alla fine redento»[8].
Benché il pensiero di studiosi molto seri si esprima con affermazioni analoghe, la tradizione cristiana ha inteso lo scontro tra diverse posizioni all’interno dell’ebraismo come scontro tra cristiani ed ebrei, senza alcun esame critico delle diverse interpretazioni della Torah all’interno dei «giudaismi» al tempo di Gesù. Si è quindi convogliato e frainteso lo scontro come se si trattasse degli ebrei (da una parte) e dei cristiani (dall’altra).
Per il futuro, sarà necessario percorrere un’altra strada, nella comprensione dei diversi movimenti esistenti in quel periodo. Dal punto di vista storico, bisognerà anche ridefinire il movimento cristiano all’interno del giudaismo – o meglio, dei giudaismi – del I secolo. Nel periodo che va sino al II secolo inoltrato, infatti, il movimento giudeo-messianico non fu né qualcosa di completamente altro dal giudaismo, né un movimento originariamente ebraico poi abortito, ma uno dei tanti giudaismi del I secolo, alcuni dei quali hanno avuto vita breve, mentre altri una storia molto più lunga. All’interno di questa pluralità, il movimento che parte da Gesù e quello farisaico sono fratelli e diversi. Lo studioso ebreo Alan Segal parla di Rebecca’s Children.
Non appropriarsi acriticamente di stereotipi polemici
Per quanto riguarda lo studio sulla lettura che i Vangeli danno dei farisei, è auspicabile che la riflessione futura obbedisca meno a criteri «dogmatici» e più a criteri di verità storico-critica. Dell’identità dei farisei nei primi tre decenni d. C. sappiamo poco, e il poco che sappiamo è polimorfo. I testi che sono in nostro possesso sono troppo frammentari. Flavio Giuseppe, ad esempio, nelle sue opere menziona i farisei solo 44 volte, e nella Guerra giudaica solo 7. Lì essi vengono classificati come «scuola di pensiero», insieme ai sadducei e agli esseni, e tuttavia, sebbene vengano descritti come un movimento riformatore – ma senza un potere diretto a livello di governo –, lo storico giudeo non presenta mai un’immagine unitaria del loro pensiero e della loro organizzazione interna.
Qualcosa di analogo andrebbe detto sull’immagine dei farisei nella letteratura rabbinica. Le storie e i detti dei saggi risalenti al I secolo a. C. sono pochi e frammentari. Sulla discussa figura di Hillel ha forse ragione chi afferma che «lo Hillel di queste fonti rabbiniche non è davvero più storico di quanto lo sia il Gesù del Vangelo»[9].
Se dunque sappiamo così poco dei farisei al tempo di Gesù, come mai essi hanno assunto tanta importanza nella tradizione cristiana? Ciò è dovuto senz’altro al Nuovo Testamento, che menziona i farisei per ben 97 volte, con il «fronte antifarisaico», rappresentato soprattutto da Matteo e da Giovanni e da alcune pagine che hanno l’impronta di uno stereotipo massificante e ingiusto.
Fondarsi su una solida base storico-critica significherà allora non solo riconoscere le diversificazioni esistenti in materia di fede e di vissuto al tempo di Gesù, ma anche distinguere tra i vari atteggiamenti all’interno di un sistema variegato e complesso come quello che ci è stato tramandato come retaggio dei farisei.
Con tutte le cautele che si devono prendere sulla datazione del brano e sul linguaggio piuttosto arcano, il Talmud (b. Sotah 22b) menziona sette tipi di perushin, da quello che ostenta se stesso a quello che teme Dio e lo ama nel profondo del cuore. Joseph Sievers, ordinario di Storia e letteratura ebraica al Pontificio Istituto Biblico, ha peraltro fatto notare che è difficile sapere se i sette tipi di perushin menzionati in questo brano siano da considerarsi farisei o altro[10]. Giustamente, Jules Isaac scrive: «Israele non mancava certo di falsi credenti, di puritani pieni di affettazione, sentenziosi e pretenziosi; essi sono denunciati e marchiati di ignominia nel Talmud ebraico come nei Vangeli».
E se «è ben vero che il rigorismo farisaico aveva i suoi difetti» e i suoi eccessi, tuttavia, «detto questo, i fatti, i testi, il buon senso, tutto dimostra che il fariseismo della storia non può essere interamente identificato né con l’ipocrisia, né col formalismo […]: “è quasi impossibile – scrive Herford […] – immaginare una maggiore deformazione della storia”». Di farisei «convinti, di un alto valore morale […] ne fanno testimonianza la storia ebraica, il Talmud e gli stessi Vangeli»[11]. In che misura, dunque, il disprezzo testimoniato dai Vangeli si applica ai farisei reali, quelli della storia? Isaac risponde: «Precisamente allo stesso modo con cui si applica ai gesuiti la definizione della parola “gesuitismo”»[12]. In molti passi «Matteo non è affatto interessato a distinguere, nella loro massa, gli eventuali scribi e farisei buoni, ai quali il giudizio di Gesù non rende giustizia. Non distingue nemmeno gli scribi dai farisei, ma li mette insieme in una delle sue tipiche coppie di avversari di Gesù»[13].
Storicamente lo stereotipo negativo di Matteo non sta in piedi, come del resto non sta in piedi mettere sulla bocca di Gesù le parole: «Fate e osservate tutto quello che essi [gli scribi e i farisei] vi dicono; poiché essi parlano [solamente] e non fanno» (Mt 23,3). Prima si ordina di osservare in toto l’insegnamento dei farisei, e poi di rifiutare in toto il loro comportamento? È un po’ come quando si dice che Gesù guarì «tutti» i malati, o che percorreva «tutte» le città e i villaggi della Galilea e della Giudea (cfr Mt 9,35): si tratta di iperboli, che hanno un intento pragmatico e che non vanno lette nella loro accezione locutoria, ma nella loro forza illocutoria, con l’intento cioè di produrre un qualche effetto sui lettori.
Ritornare a considerare i punti di contatto tra Gesù e i farisei
Come presentare allora i farisei nella teologia, nella catechesi, nell’omiletica della Chiesa? Bisognerà partire anzitutto dal fatto che la rielaborazione redazionale che i diversi Vangeli hanno operato sui farisei non è uniforme, e quindi ogni singolo caso va sottoposto a una valutazione critica. Ad esempio, le invettive contro i farisei che si trovano in Lc 11,39-52 e in Mt 23,2-36, pur appartenendo a testi paralleli, sono profondamente diverse tra loro sia per struttura sia per contenuti testuali. Già nel 1988 Klaus Berger sottolineò come Luca abbia insistito sulla coesistenza, nella stessa comunità matteana, di giudeocristiani provenienti dal fariseismo ed etnocristiani[14]. Ma, alla luce di quanto emerso nei lavori del convegno Jesus and the Pharisees, occorre dire che la situazione della comunità di Matteo era molto più complessa.
In futuro sarà dunque necessario distinguere quello che poggia su basi storiche e quelle espressioni che invece sono diventate dei topoi argomentativi classici, modelli precostituiti o schemi letterari per il raggiungimento dei propri scopi. «La prospettiva di Matteo nella sua rielaborazione redazionale non è storica, bensì teologico-letteraria e quasi nella forma di un manifesto», osserva Hubert Frankemölle[15]. E noi possiamo aggiungere che l’intento dello scriba Matteo è quello di convincere i suoi uditori e lettori che la prospettiva da lui proposta è vera e giusta. Pertanto egli si serve di mezzi retorici, che non escludono qualche basso fendente, per convincerli a seguire la propria lettura della Torah e dei profeti.
Dopo un periodo secolare di disamine critiche che hanno insistito soltanto sulla polemica tra Gesù e i farisei, sarà bene che qualcuno ritorni a occuparsi sul piano storico-critico di quei punti di contatto tra Gesù e i farisei che, sulla base del detto e non-detto dei Vangeli, possono essere appurati. La ricerca di una trasformazione personale e sociale, con uno strenuo impegno a cercare quanto appartiene all’«autentica volontà di Dio» (la «giustizia») è retaggio sia del movimento farisaico sia del movimento di Gesù e dei suoi discepoli; il compimento della Torah, che appartiene alla struttura fondamentale del Vangelo di Matteo, non è radicalmente lontano dalla ricerca della perfezione farisaica.
Il maestro Hillel – con le debite cautele avanzate da Günter Stemberger – riassumeva la legge in termini evangelici: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Ecco tutta la Legge, tutto il resto è commento» (b. Shabbat 31a).
La fiducia in Dio, il giudizio, la fede nella risurrezione, l’attesa del compimento futuro e così via appartengono sia alle basi del giudaismo rabbinico sia a quelle del cristianesimo. Leggendo alcune pagine evangeliche, si potrebbe persino ipotizzare che Gesù fosse un fariseo.
Davanti a queste osservazioni, in quanti non sono abituati a pensare la fede nelle categorie proposte può sorgere un interrogativo comprensibile: che ne è allora della identità cristiana? Non si rischia in questo modo di «giudaizzare» il cristianesimo? La risposta è racchiusa in un’osservazione di Rolf Rendtorff: «Non si tratta di mettere in dubbio la nostra identità cristiana […]. Al contrario, si tratta di formularla di nuovo, e meglio […]. Non si tratta di destabilizzarci come cristiani […]. Si tratta semmai di formulare un’identità cristiana alla luce del fatto che Israele continua ad esistere»[16].
Copyright © La Civiltà Cattolica 2019
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JESUS AND PHARISEES. Beyond the stereotypes
On the occasion of the 110th anniversary of the foundation of the Pontifical Biblical Institute, a conference was held to re-examine the historical and literary sources in our possession on the identity of the Pharisees in antiquity. A certain anti-Jewish theology, on the one hand, and the uncritical assumption of the only evangelical sources, on the other, have in fact marked the negative connotation that Phariseeism has assumed in ecclesial catechesis. Instead, research should return to the historical-critical level to deal with the numerous points of contact between Jesus and the Pharisee movement.
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[1]. Tutte le relazioni del convegno sono disponibili sul canale YouTube del Pontificio Istituto Biblico o attraverso il sito del convegno www.jesusandthepharisees.org
[2]. J. Jeremias, Gerusalemme al tempo di Gesù, Bologna, EDB, 1989, 409.
[3]. N. Perrin, Rediscovering the Teaching of Jesus, New York – Evanston, Harper & Row, 1967, 94.
[4]. Cfr ivi, 97.
[5]. E. Fuchs, Studies of the Historical Jesus, London, SCM, 1964, 21.
[6]. Cfr A. J. Saldarini, «Pharisees», in The Anchor Bible Dictionary, V, 301-303.
[7]. J. Isaac, Gesù e Israele, Genova, Marietti, 2001, 402.
[8]. E. P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese, Brescia, Paideia, 1986, 586 s.
[9]. A. J. Saldarini, «Pharisees», cit., 299.
[10]. Sievers commenta dicendo che certamente nel brano seguente sul re Yannai e sua moglie (Alessandra) i perushin sono da intendersi come farisei, ma alla pagina precedente (b. Sotah 22a) la ishah perushah viene tradotta spesso come abstinent woman, cioè una che si separa dal rapporto col marito. Testo e traduzione inglese in https://www.sefaria.org/Sotah.22a.8?lang=bi&with=all&lang2=en
[11]. J. Isaac, Gesù e Israele, cit., 59 s. Isaac cita qui R. Travers Herford, The Pharisees, London, G. Allen, 1924.
[12]. J. Isaac, Gesù e Israele, cit., 59.
[13]. U. Luz, Matteo, Brescia, Paideia, 2006-2014, III, 377.
[14]. Cfr K. Berger, «Jesus als Pharisäer und frühe Christen als Pharisäer», in Novum Testamentum 30 (1988) 231-262.
[15]. H. Frankemölle, Biblische Handlungsanweisungen: Beispiele pragmatischer Exegese, Mainz, Grünewald, 1983, 155.
[16]. R. Rendtorff, Cristiani ed Ebrei oggi, Torino, Claudiana, 1999, 126.