a cura di V. FANTUZZI
La giuria (USA, 2003). Regista: GARY FLEDER. Interpreti principali: J. Cusack, R. Weisz, G. Hackman, D. Hoffman, B. Davison.
Nel 1957 Sidney Lumet realizza il film Twelve Angry Men (La parola ai giurati) con Henry Fonda come protagonista. Nel 1997 William Friedkin realizza un altro film con lo stesso titolo (in inglese e in italiano), con Jack Lemmon come protagonista. Il primo (un austero bianco e nero) è considerato un capolavoro del cinema giudiziario. Denunciava il razzismo strisciante nella soddisfatta middle class americana e le insidie del sistema giudiziario. Il remake (ovviamente a colori) si attarda nel descrivere, attraverso casi ritenuti emblematici, un’America giunta sull’ orlo del collasso. Entrambi i film, la cui sceneggiatura è dovuta alla mano esperta di Reginald Rose, si basano sullo stesso espediente drammaturgico.
Riunita in camera di consiglio, una giuria deve decidere la sentenza su un accusato che rischia la pena capitale. Nel primo caso si tratta di un giovane mulatto accusato di omicidio, nel secondo si tratta di un diciottenne accusato da prove schiaccianti di aver ucciso il padre. Dei dodici giurati, undici sono convinti, per idee preconcette, della colpevolezza dell’imputato. Soltanto uno dubita. Henry Fonda nel primo film e Jack Lemmon nel secondo hanno entrambi a disposizione un tempo limitato per smantellare i pregiudizi dei colleghi. Rigida unità di tempo e di luogo (in entrambi i film l’azione si svolge nel chiuso di una stanza), dialoghi serrati, attori ben scelti e ben diretti, tensione allo spasimo.
Al di là delle differenze di qualità (Lumet era impegnato nel portare ad alto livello espressivo la materia che trattava, Friedkin si accontenta di applicare le regole del suo mestiere), i due film possono essere intesi come indizi dei cambiamenti che hanno modificato la società americana nella seconda metà del XX secolo. Mentre nel primo film i pregiudizi andavano in senso unico, nel secondo sono equamente distribuiti tra individui che appartengono a diverse etnie e a diverse condizioni sociali. È come se una forma diffusa di corruzione, che scende dall’alto, si fosse propagata dagli strati medioalti agli strati bassi della popolazione.
Il film La giuria (titolo originale The Runaway Jury) di Gary Fleder, tratto da un romanzo dell’ex avvocato John Grisham, riprende in versione aggiornata il discorso avviato dai due film precedenti. Siamo nella New Orleans dei nostri giorni. Una donna, rimasta vedova con un figlio di pochi anni sulle braccia in seguito a una sparatoria scatenata da un folle, fa causa a un potente consorzio di fabbricanti di armi, dai cui arsenali è uscita la pistola che ha ucciso suo marito. A battersi per lei scende in campo il probo avocato Wendell Rohr (Dustin Hoffman), che deve vedersela con un collega del tutto privo di inibizioni morali: Rankin Fitch (Gene Hackman), specializzato nella corruzione dei giurati, il quale lavora nell’ombra guidando una squadra di esperti lautamente pagati, disposti a tutto pur di raggiungere il loro scopo, e si fa rappresentare in aula da una sorta di controfigura: l’arrendevole Durwood Cable (Bruce Davison) al quale detta ordini con un auricolare.
Lo scontro tra chi gioca pulito e chi gioca sporco è impari. L’onesto Hoffman sta per soccombere. Ma il subdolo Hackman non ha fatto i conti con il giovane Nicholas Easter (John Cusack), che è riuscito con uno stratagemma a farsi reclutare nella giuria e, spalleggiato dalla fidanzata Marlee (Rachel Weisz), cercherà di contrapporre a chi usa metodi palesemente illegali contromisure adeguate. I giurati sono svogliati e distratti. Entrano in crisi se il pranzo tarda di mezz’ora. Il verdetto è pagato in moneta sonante. La differenza tra il film di Fleder e quelli dei registi indicati sopra consiste nel fatto che, mentre negli altri si parlava di corruzione in senso generico, qui si dice con chiarezza chi è che corrompe, a quale scopo corrompe, e di quali mezzi si serve per corrompere. La giuria è una sorta di manuale, succinto ma esauriente, sulla manipolazione e sull’inganno.