a cura di V. FANTUZZI
Il muro (Israele – Francia, 2003). Regista: SIMONE BITTON. Documentario.
Nata in Marocco nel 1955 da genitori ebrei, la regista Simone Bitton ha frequentato in Francia la scuola primaria. Nel 1966 la sua famiglia si è trasferita a Gerusalemme. Ha imparato rapidamente l’ebraico. Ha fatto il servizio militare durante la guerra del 1973 e da allora è diventata una pacifista convinta. «Ho visto troppa morte, troppa distruzione», dice la regista che ora vive tra Parigi e Gerusalemme. Con una camera digitale in mano ha percorso la linea del muro che divide Israele dai Territori palestinesi. Si prevede che la lunghezza complessiva del muro attualmente in costruzione supererà i 600 chilometri. 8 metri di altezza. 50 metri di larghezza tra le barriere di filo spinato collocate da una parte e dall’altra del muro.
Grigi lastroni di cemento prefabbricato trasportati da una gru si incastrano lentamente uno accanto all’altro. La cinepresa immobile sta a guardare. Il paesaggio sullo sfondo scompare, una fetta dopo l’altra, coperto dal cemento. Si tratta di una visione panoramica di Gerusalemme, che viene cancellata sotto gli occhi dello spettatore. Non si può non pensare a Gesù che, osservando la città santa dal monte degli Ulivi, pianse sulla sorte presente e futura di essa. Sono le prime immagini del documentario, intitolato Il muro, che la Bitton ha girato per raccontare la costruzione dell’immane barriera che, a partire dal 2002, viene innalzata giorno dopo giorno per separare fisicamente gli israeliani dai palestinesi. Immagini destinate alla memoria; un modo per dire addio a città, paesi, uliveti che stanno scomparendo dalla vista.
Il primo pensiero che viene in mente riguarda l’efficacia che ha il cinema nel «far vedere» le cose che la propaganda ufficiale (alla quale la televisione è in larga misura assoggettata) tende a nascondere. C’è infatti uno sguardo distratto gettato sulle cose: è lo sguardo della televisione che si esprime generalmente per stereotipi, si accontenta di cogliere alcuni elementi esteriori degli avvenimenti di cui si occupa, non si interroga sulle motivazioni che li determinano, ne sfrutta gli aspetti spettacolari e passa oltre con rapidità. Il cinema invece (anche se realizzato, come in questo caso, con mezzi elettronici) prende tutto il tempo che ci vuole perché lo spettatore giunga a percepire, da un punto di vista intellettivo e allo stesso tempo emozionale, il senso di ciò che sta vedendo.
Il documentario della Bitton allarga lo sguardo su un paesaggio deturpato. Nelle immagini silenziose, quasi attonite, il muro appare come uno sfregio che offende insieme la natura e la storia. La Terra Santa è ugualmente cara ai credenti delle tre religioni monoteiste (ebrei, cristiani e musulmani). È un paesaggio che ha lasciato tracce indelebili nella mente di coloro che, lungo i millenni, vi si sono recati in pellegrinaggio. Anche chi non ha avuto la possibilità di vedere fisicamente questi luoghi, li possiede attraverso la lettura delle pagine che da essi sono nate e le immagini degli artisti che ad essi si sono ispirati. Lo sfregio inflitto alle cose materiali non riguarda soltanto queste, ma provoca una lacerazione nell’intimo di tutti coloro che a quei luoghi e a quelle cose si sentono legati per motivi che appartengono all’essenza della vita spirituale.
Lungo il muro, costruito da salariati arabi perché gli israeliani non sono disposti a fare lavori di questo genere, si incontrano persone che parlano di amicizie spezzate, di famiglie divise, di paesi isolati, di campi separati dall’abitazione di chi li coltiva, di un senso di precarietà e di paura, percepibile di qua e di là dalla barriera, da parte di persone che non si sentono protette da questa imponente costruzione, ma vedono in essa uno spreco inutile di mezzi e un motivo per ulteriori conflitti. Il film contiene anche un’intervista al generale Amos Yaron del Ministero della Difesa israeliano, il quale spiega le ragioni per le quali il muro viene costruito, che non riguardano soltanto la sicurezza, ma anche la difesa contro il pericolo rappresentato dai furti di automobili.
Il film alterna immagini a colori e immagini in bianco e nero. «Non ho voluto mostrare Israele come una cartolina — dice la regista —. Dove arriva il muro svaniscono i colori. Accanto al muro non c’è più bellezza. Non parlo soltanto dell’elemento fisico. I muri dentro sono i più dolorosi. Il muro dovrebbe servire a chiudere i palestinesi dentro una prigione. In realtà chiude ancora una volta gli ebrei in un ghetto. È il sintomo di una malattia del popolo israeliano, troppe volte segregato, che questa volta si rinchiude da solo». La parte finale del documentario è dedicata a coloro che, vivendo nelle vicinanze del muro, trovano il modo di attraversarlo a dispetto dei sensori elettrici, delle torrette di guardia e delle ronde dell’esercito israeliano. L’ultima immagine rappresenta una donna palestinese con la mano appoggiata al muro, in un atteggiamento che assomiglia a quello degli ebrei quando si avvicinano al «muro del pianto», mentre nella colonna sonora una voce intona la melodia di un antico canto: «Se mi dimentico di te, Gerusalemme…».