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Metz non è solo una città francese sulla Mosella, ma anche il nome di un teologo tedesco che ha acquistato una fama mondiale: Johann Baptist Metz[1]. Il suo nome è associato a espressioni chiave potenti come «la nuova teologia politica», «la teologia dopo Auschwitz», «compassione», «mistica degli occhi aperti», memoria passionis.
Dopo la sua morte, avvenuta il 2 dicembre 2019, il New York Times ha pubblicato un necrologio, in cui il teologo tedesco è stato riconosciuto come «pioniere del dialogo ebraico-cristiano dopo Auschwitz»[2]. Durante la sua vita, i giudizi e le valutazioni su di lui sono stati diametralmente opposti: «Alcuni lo considerano la shooting star, la “stella cadente” di una teologia critica e cosmopolita, altri vedono in lui un agitatore marxista, un nemico della Chiesa»[3].
Il teologo viennese Johann Reikerstorfer, nel periodo tra il 2015 e il 2018, ha curato e pubblicato la raccolta degli scritti di Metz, un’edizione in nove volumi, preservando così l’opera nel tempo[4]. Questo consente di ripercorrerne il lungo cammino accademico[5]. Un esperimento entusiasmante è prendere il volume 8 («Conversazioni, interviste, risposte») e lasciare che il teologo tedesco commenti e interpreti se stesso, cosa che egli ha fatto spesso nelle interviste in modo molto sintetico, quasi stenografico, e che può favorire un primo approccio ai suoi libri e ai suoi articoli.
Teologia e sequela
A Metz non mancavano mai le buone formulazioni: egli interveniva, era convincente. Inevitabili sono stati i conflitti a diversi livelli, perché egli non ha mai fatto teologia dalla famigerata torre d’avorio, rimanendo semplicemente all’interno dell’ambito teologico o ecclesiale. Il suo credo era che la teologia deve essere rilevante nello spazio pubblico. Metz comprendeva e faceva teologia, come diceva, «con lo sguardo sul mondo», per non cadere in una trappola, rappresentata dal «pericolo di una codifica ecclesiologica del discorso su Dio»[6]. Per questo, secondo lui, la teologia dovrebbe essere politica, sempre disposta e in grado di fornire spiegazioni, nello spirito del paradigma della teologia fondamentale: «[Siate] pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15). Mistica e politica, azione e contemplazione sono inscindibili. Ma si tratta – e questo è il punto decisivo – di una «mistica degli occhi aperti»[7].
Per Metz, la teologia ha anche sempre a che fare con la sequela, perché deve servire a coinvolgere le persone: non parlare di sequela, ma seguire, questo è il suo slogan! Per lui, la cristologia è «cristologia della sequela»: «Cristo deve essere sempre pensato in modo tale da non essere mai solo pensato. La cristologia non insegna solo la sequela: esprime essenzialmente una conoscenza pratica. […] La conoscenza cristologica non si forma e trasmette principalmente con il concetto, ma con le storie di sequela; ha quindi un indispensabile carattere narrativo-pratico»[8].
Figlio del cattolicesimo bavarese
Johann Baptist Metz è nato il 5 agosto 1928 a Welluck, nell’Alto Palatinato, oggi inglobata nella città di Auerbach, a circa 35 chilometri a nord-est di Norimberga. Egli stesso parla così delle sue origini: «Vengo da un piccolo paese arcicattolico della campagna bavarese. Io provengo, se lo si deve riportare su un piano biografico, da molto lontano, perché vengo da lì. I cattivi dicono che io provengo dalle frange oscure del Medioevo»[9]. Metz non ha mai negato che le sue origini fossero in un ambiente cattolico chiuso. «Il colore originale dell’antico cattolicesimo bavarese con le sue chiese barocche, i pellegrinaggi e i rosari – ha scritto un suo biografo – modella il pensiero di Metz fin nel suo linguaggio ruvido, sostanzioso e ricco di metafore»[10].
A sedici anni, verso la fine della Seconda guerra mondiale, Johann Baptist viene strappato dalla scuola e costretto a fare il soldato. Egli racconta: «Dopo una accelerata preparazione nelle caserme di Würzburg arrivai al fronte, che si era spostato nel territorio oltre il Reno. La compagnia era costituita soltanto da giovani, oltre cento di numero. Una sera il comandante della compagnia mi mandò con una comunicazione alla sede del comando di battaglione. Vagai per tutta la notte attraverso paesi e casolari distrutti e in fiamme e, quando il mattino seguente ritornai alla mia compagnia, non trovai che morti, soltanto morti, travolti e schiacciati da un attacco combinato di cacciabombardieri e carri armati. Non mi restò che fissare lo sguardo sul volto spento, morto di coloro con i quali nei giorni precedenti avevo condiviso paure infantili e risate giovanili. Non ricordo altro che un grido soffocante. E così mi vedo ancora oggi, e dietro questo ricordo sono caduti tutti i sogni della mia fanciullezza»[11].
Questa traumatica esperienza originaria è rimasta presente nel corso di tutta la sua vita. «Cosa succede – si chiede Metz – quando non si va dallo psicologo, ma in chiesa, e non si riesce a rimuovere da sé questi ricordi inconciliati né con l’aiuto della chiesa né della teologia, ma si vuol credere con essi, e con essi si vuol parlare di Dio?»[12].
Il teologo prosegue dicendo: «Lo sfondo autobiografico, qui accennato, continua a segnare ancor oggi il mio lavoro teologico, in cui la categoria del pericolo vi ha, per esempio, un ruolo centrale e in cui non si vuol rinunciare alle metafore apocalittiche della storia della fede, si diffida di una escatologia dai toni idealistici. E, soprattutto, il mio lavoro teologico attraversa una particolare sensibilità per la teodicea, il problema di Dio di fronte alla storia della sofferenza del mondo, del “suo” mondo. Quella che più tardi si chiamerà “teologia politica” ha qui le sue radici: il discorso su Dio nella conversio ad passionem. Chi parla di Dio nel senso di Gesù deve accettare che le proprie preconcette certezze siano intaccate dalla sventura degli altri»[13].
In questa autopresentazione, Metz esprime anche il centro del suo lavoro teologico. In altri contesti egli ha parlato di due «fratture»[14]: la prima è quella biografica dei compagni coetanei morti; la seconda è la questione di Auschwitz. Lì è l’origine di ciò che il teologo tedesco successivamente indicherà con espressioni chiave come «memoria pericolosa», «teologia politica», «sensibilità per la teodicea», «teologia dopo Auschwitz», «compassione» o memoria passionis.
Per sette mesi Metz è prigioniero di guerra sulla costa orientale degli Stati Uniti. Nel 1948 entra nel seminario dell’arcidiocesi di Bamberga. Un anno dopo viene mandato a studiare a Innsbruck (Tirolo). Professori gesuiti come Josef Andreas Jungmann, Hugo e Karl Rahner attiravano allora studenti da tutto il mondo. Nel 1952 Metz ottiene un dottorato in filosofia con una tesi su Heidegger nel pensiero di Emerich Coreth, e nel 1961 un dottorato in teologia sul pensiero di Tommaso d’Aquino. Il suo relatore di dottorato, Karl Rahner, contribuisce alla sua tesi (pubblicata con il titolo «Antropocentrismo cristiano») con un saggio introduttivo.
Ordinato sacerdote nel 1954, Metz dal 1958 al 1961 è cappellano nella sua diocesi di origine. Sollevato dagli impegni in diocesi dal 1961 al 1963 per preparare l’abilitazione a Monaco, viene nominato professore di teologia fondamentale a Münster nel 1963, prima ancora di aver terminato l’abilitazione. Nel semestre estivo del 1963, Joseph Ratzinger viene traferito da Bonn a Münster; un anno dopo arriva anche Walter Kasper; e nel 1972 viene chiamato a Münster, da Lucerna (Svizzera), Herbert Vorgrimler. Ratzinger e Kasper andranno poi a Tubinga, rispettivamente nel 1966 e nel 1970.
Nel 1965 Metz è uno dei cofondatori della rivista internazionale Concilium. Dal 1968 al 1973 è consultore del Segretariato pontificio per i non credenti, istituito dopo il Concilio Vaticano II e guidato dall’arcivescovo di Vienna, il card. Franz König. È membro anche dell’associazione Paulusgesellschaft («Società di san Paolo»), che promuove il dialogo tra cristiani e marxisti. Dal 1971 al 1975 è consultore del Sinodo congiunto delle diocesi della Repubblica Federale Tedesca, ed è l’autore principale del testo sinodale «La nostra speranza»[15], che vale la pena leggere ancora oggi. Viene apprezzato come consigliere in molti comitati. Per conferenze e lezioni tenute come docente ospite egli si reca in varie parti del mondo e riceve diversi dottorati honoris causa.
Alla scuola di Karl Rahner
Assieme a Vorgrimler (1929-2014) e a Karl Lehmann (1936-2018), Metz è stato collega di Karl Rahner (1904-84). E con la morte di questi tre teologi colleghi di Rahner si è spenta l’intera generazione che dopo il Concilio Vaticano II ha plasmato la teologia di lingua tedesca, e non solo quella.
Metz è andato a Innsbruck nel 1949 a motivo di Rahner, ed è diventato presto uno dei suoi più stretti collaboratori. Nel 1957 Rahner gli affida la seconda edizione rivista di Geist in Welt («Spirito nel mondo») e nel 1963 di Hörer des Wortes («Uditori della parola»): due opere che, con la crescente fama internazionale acquisita dal loro autore, venivano sempre più lette, mentre in precedenza, a causa della guerra, erano state poco conosciute.
Nel 1956 Metz rende omaggio per la prima volta al suo maestro con «Rundgang durch sein Arbeitsfeld» («Percorso attraverso i suoi ambiti di lavoro»), e nel 1964 fa parte del collettivo editoriale della monumentale pubblicazione commemorativa di Rahner in due volumi Gott in Welt («Dio nel mondo»). In occasione del 70° e dell’80° compleanno di Rahner (1974, 1984) e per le nuove pubblicazioni delle sue opere, interviene con alcuni scritti. Dal 1995 è anche uno degli editori della pubblicazione integrale in 32 volumi e 40 tomi delle Opere complete di Rahner, terminata nel 2018[16].
Nonostante alcune differenze, Metz ha sempre affermato di aver ricevuto dal suo «grande maestro e amico Karl Rahner l’impronta teologica di fondo». Per lui, Rahner non era solo «il maestro della mia teologia, ma il padre della mia fede, entrambi insieme»[17]. «Non ho mai percepito Karl Rahner – afferma Metz – solo come un grande studioso, come una specie di maestro di pensiero teologico, come molti lo considerano, e cosa che per lui sarebbe insopportabile. Per me e per molti, egli era ed è un teologo esperto di Dio e cercatore di Dio. […] Da lui abbiamo imparato questo: l’esperienza di Dio che è in gioco qui e che Karl Rahner nella sua teologia ha spiegato a noi – e talvolta ha imparato con noi – non è un fatto di mistica elitaria, ma è espressione di una mistica popolare; non è esoterica, ma quotidiana. È la mistica che in realtà viene chiesta a tutti e di cui tutti sono capaci»[18].
Metz non si stancava mai di ricordare la sottovalutata «sottile presenza di Rahner nella teologia contemporanea»[19]. Questi, a sua volta, si è schierato con Metz e l’ha difeso pubblicamente con una lettera aperta di sfida – «Ich protestiere» («Io protesto»)[20] – quando è sfumata una sua chiamata a Monaco per succedere a Heinrich Fries[21]. I due teologi hanno anche scritto diverse opere insieme e partecipato a memorandum, appelli e dichiarazioni. Quando Rahner, il 30 marzo 1984, due settimane prima di morire, dall’ospedale scrisse una lettera al cardinale peruviano Juan Landázuri Ricketts per difendere il teologo della liberazione Gustavo Gutiérrez, fu Metz a fornirgli gli argomenti decisivi in una nota[22].
Per quanto abbia sempre espresso apprezzamento per Rahner, Metz tuttavia ha anche preso le distanze dal suo maestro: «Nonostante tutta la profonda stima per la sua teologia, nonostante la mia ammirazione per la sua persona, sono dell’opinione che il suo concetto trascendentale sia in definitiva privo di storia o almeno troppo lontano dalla storia»[23]. Metz non riusciva a capire perché Auschwitz non fosse un punto di riferimento per il suo maestro: «Ho cominciato a sollevare domande e muovere obiezioni – ha sintetizzato – principalmente in riferimento ai fondamenti filosofici della sua “svolta antropologica” del discorso cristiano di Dio. A mio avviso, questo non può essere fatto puramente in termini filosofici, cioè su un piano “trascendentale”. Piuttosto, dovrebbe procedere a partire dalla prospettiva delle persone nella storia e nella società, cioè “in modo dialettico”. In questo senso, io poi ho parlato di “teologia politica” come metodo della teologia fondamentale»[24]. Rahner avrebbe «esplicitamente riconosciuto di considerare le obiezioni della teologia politica, come io le ho formulate, molto seriamente e come unica critica autorevole alla sua teologia»[25].
La «teologia politica»
La «teologia politica» sviluppata da Metz ha incontrato molte opposizioni. In termini di approccio, essa voleva essere «un correttivo critico delle teologie personaliste, esistenzialiste e trascendentali degli anni Cinquanta e Sessanta. […] Fu proprio a questa teologia antropologico-esistenzialista e antropologico-trascendentale che la teologia politica mosse la critica di voler acquistare la propria rilevanza nella modernità attraverso la privatizzazione. La critica della teologia politica divenne così una critica all’assimilazione di Heidegger nella teologia»[26]. Non si è mai trattato di una teologia «che si occupa in modo particolare dell’ambito della politica, ma piuttosto di una teologia che ha compreso che le persone, nei loro sforzi di vivere e di credere, sono sempre inserite in contesti sociali e storici»[27].
In un’intervista alla Radio Vaticana condotta da Aldo Parmeggiani, Metz ha manifestato così le sue idee: «La teologia politica come io la intendo e la rappresento e come oggi viene discussa come “nuova teologia politica” è soprattutto una cosa: vale a dire, teologia. Ma una teologia che non vuole ingannare se stessa e gli altri è sempre un tentativo di parlare di Dio. In questo senso, la teologia politica è il tentativo di parlare di Dio con lo sguardo sul mondo»[28]. Se Metz si oppone all’oblio e riflette sulla sofferenza, qui non si tratta né di «tattica» né di «strategia», come sospetta Parmeggiani. «Un’apologia del cristianesimo propriamente intesa – afferma il teologo tedesco – non è una strategia per evitare le crisi; piuttosto agisce secondo la massima: “le crisi fondamentali richiedono rassicurazioni fondamentali”. Ovunque il cristianesimo si renda fondamentale in questo senso, ha a che fare con ciò che io chiamo “compassione”»[29].
Metz non era contento del termine straniero compassion. Ma percepiva la parola «pietà» (in tedesco Mitleid) come troppo debole e abusata da Nietzsche. «La sensibilità per le sofferenza degli altri, fin’anche per quella dei propri nemici – diceva – caratterizza, per così dire, il nuovo stile di vita di Gesù. Non è una sorta di autoindulgenza, non è un culto infelice della sofferenza, ma l’espressione, priva di ogni sentimentalismo, dell’amore di cui parlava Gesù quando – in continuità con la sua eredità ebraica – insisteva sull’unità inseparabile dell’amore per Dio e dell’amore per il prossimo. Ai miei occhi questa compassione è la dote biblica emblematica per l’Europa, per il mondo di oggi»[30]. L’incapacità di compassione era per Metz il segno distintivo di una religione borghese.
Un tomo (3/2) dell’opera del teologo tedesco raccoglie in 290 pagine la maggior parte delle sue pubblicazioni sulla «nuova teologia politica». Egli ne presentò per la prima volta il concetto di fondo nell’aprile 1966, in un simposio internazionale a Chicago, e lo perfezionò nell’agosto 1967, in un congresso teologico internazionale a Toronto. È del 2011 il suo breve testo «Sul concetto di politico nella nuova teologia politica»[31]. Qualche contributo del 1969, 1992 e 1999 mette in risalto alcune sfumature[32]. «Essere devoti non basta», era il titolo delle sue «Tesi per una teologia politica», pubblicate su una rivista studentesca e poi confluite in Zur Theologie der Welt (1968; in it. Sulla teologia del mondo, 1969). Metz era consapevole che il termine era «ambiguo» e «storicamente carico», e lui doveva e voleva rompere con la «vecchia» teologia politica di Carl Schmitt: «Comprendo la teologia politica come un correttivo critico a una marcata tendenza della teologia attuale alla privatizzazione. Allo stesso tempo, la vedo in senso positivo come un tentativo di formulare il messaggio escatologico alla luce della richiesta della nostra società di oggi»[33]. Anche la teologia politica ha sviluppato un proprio stile: «Tratto distintivo è non irretire, ma convincere; non pretendere, ma offrire, e quindi anche sempre informare, non con un dialogo emotivo, ma con una chiara disputa sulla verità. In termini di contenuto, la de-privatizzazione mira a una nuova oggettivazione, non in senso metafisico, ma in senso socio-politico»[34].
Metz forse all’inizio non poteva prevedere che sarebbe diventato un punto di riferimento e un punto di partenza per la Teologia della liberazione latinoamericana. Ma che ne diventasse l’ispiratore e l’interlocutore è in definitiva una conseguenza logica, dal momento che egli ha insistito sull’«autorità dei sofferenti» e rivendicato la continua responsabilità della Chiesa e del mondo nel preservare la memoria passionis, senza dimenticare o livellare le tante storie di sofferenza nel mondo attraverso la storia della sofferenza di Gesù.
La teologia dopo Auschwitz
«Auschwitz riguarda noi tutti»[35]: le esperienze di guerra, il Movimento studentesco degli anni Sessanta e la teoria sociologica critica della Scuola di Francoforte hanno permesso a Metz di formulare e di sviluppare il suo discorso su Dio come «teologia dopo Auschwitz». Egli dichiara: «Appartengo a quella generazione di tedeschi che lentamente ha imparato a considerarsi la generazione del “dopo Auschwitz”». E aggiunge: «E ho cercato di tenerne conto nel mio modo di fare teologia»[36]. In uno dei suoi discorsi più significativi – «Cristiani ed ebrei dopo Auschwitz», tenuto al Katholikentag («Giornata cattolica») di Friburgo nel 1978 – affermava: «Noi cristiani non torneremo mai più indietro ad Auschwitz; a ben vedere, però, oltre Auschwitz non andremo mai più da soli, ma solo con le vittime di Auschwitz. Secondo me, questa è la radice dell’ecumenismo giudaico-cristiano»[37]. Poco prima aveva ricordato la sua risposta alla domanda posta da Milan Machoveč – basata sull’interrogativo di Adorno se si potessero ancora scrivere poesie dopo Auschwitz – se i cristiani potessero ancora pregare dopo Auschwitz: «Possiamo pregare dopo Auschwitz perché anche ad Auschwitz si è pregato»[38].
In pratica, questo per Metz significava che i cristiani dovevano «finalmente passare dal proselitismo al dialogo». Egli affermava: «Non siamo noi ad avere la prima parola, ad aprire questo dialogo. Alle vittime non si dà alcuna possibilità di dialogare. S’incomincia a dialogare soltanto se sono le vittime per prime a prendere la parola. E allora il nostro primo compito di cristiani sarà quello di prestare finalmente ascolto a ciò che gli ebrei hanno da dire di se stessi e su se stessi»[39]. Quanto sono attuali queste parole rispetto a nuovi dibattiti sulla missione agli ebrei! «Non ci sono schemi predefiniti per il dialogo tra ebrei e cristiani che possano essere mutuati dal repertorio conosciuto dell’ecumenismo all’interno del cristianesimo»[40]. Metz sognava «una sorta di coalizione di fiducia messianica tra gli ebrei e i cristiani di fronte all’apoteosi della banalità e dell’odio che regnano nel nostro mondo»[41]. Era consapevole che non si trattava soltanto di retorica della colpa e della responsabilità: «Ciò che è accaduto nella Shoah non richiede solo una revisione del rapporto storico tra cristiani ed ebrei, ma anche una revisione della teologia cristiana»[42].
Queste osservazioni rimandano alle visite dei papi Giovanni Paolo II (giugno 1979), Benedetto XVI (maggio 2006) e Francesco (luglio 2016) ad Auschwitz, e all’accento che ciascuno di loro vi ha posto. Karol Wojtyła è cresciuto a Wadowice, a 35 chilometri da Auschwitz/Oświęcim. Joseph Ratzinger è stato arruolato nella Wehrmacht da giovane. A differenza dei suoi due predecessori, Jorge Mario Bergoglio non ha tenuto nessun discorso ad Auschwitz. Metz era convinto di questo: «Per me Auschwitz ha segnalato un orrore al di là di ogni teologia conosciuta, un orrore che ha fatto apparire vuoto e cieco ogni discorso decontestualizzato su Dio. Esiste, mi sono chiesto, un Dio che si possa adorare voltando le spalle a una simile catastrofe?»[43].
Negli ultimi 20 anni della sua vita, Metz si è impegnato in maniera sempre più appassionata per «una cristologia del Sabato Santo»[44]. In una intervista ha detto: «Abbiamo bisogno di una maggiore atmosfera del Sabato Santo nel nostro discorso su Dio e sul suo Cristo. Anche nella nostra liturgia e nel nostro lavoro pastorale»[45]. Già anni prima aveva affermato: «Nella cristologia […] abbiamo smarrito la strada tra il Venerdì Santo e la domenica di Pasqua. Abbiamo troppa cristologia della domenica di Pasqua. Penso che l’atmosfera del Sabato Santo debba essere raccontata all’interno della cristologia stessa. Il terzo giorno dopo il Venerdì Santo è ben lungi dall’essere di nuovo la domenica di Pasqua per tutti. […] Quello che voglio dire è che alla cristologia appartiene una storia del cammino, appartengono esperienze del Sabato Santo, e quindi una sorta di linguaggio del Sabato Santo della nostra cristologia, che non è, come nel mito, un puro linguaggio di vittoria»[46].
Che cosa resta?
Nei suoi scritti Metz annuncia Dio. Annuncia una teologia sensibile alla sofferenza. Annuncia la pericolosa memoria di Gesù. Per questo argomento egli è entrato in relazione con molti. Ha discusso, ha contestato, ha lottato. Tra i suoi interlocutori – come, ad esempio, Jürgen Habermas – ha avuto anche filosofi marxisti. Raramente il suo prendere la parola era accomodante. Tuttavia, «a differenza di Küng, Metz non ha mai avuto problemi dogmatici fondamentali con la sua Chiesa, ma etico-pratici»[47].
Per lui, «la teologia del mondo» non poteva che essere «teologia politica». La conseguenza è stata una sfida socio-politica. «Ricordo» e «narrazione» erano «categorie salvifiche», ed egli ha sviluppato la teologia politica come teodicea a partire dalla categoria fondamentale della memoria passionis. Per lui, il «trauma contingente di “Auschwitz”»[48] non aveva una data di scadenza. Egli si domandava: «[La teologia attuale] nel suo discorso su Dio ha accolto quel trauma che le proibisce – almeno dopo Auschwitz – qualsiasi idealismo teologico e qualsiasi comprensione della teologia come metafisica della salvezza decontestualizzata e senza memoria?»[49].
«Quale teologo della speranza per il qui e l’ora – così Johannes Röser lo ricorda in una laudatio per il suo 90° compleanno –, ma anche per ciò che riceviamo come promessa divina, Johann Baptist Metz ha scritto la storia, una storia di speranza»[50]. Il suo gesto è stato quello di chi chiama; quindi, la sua opera profetica «voleva risvegliare i cristiani – e le Chiese –, per richiamare i resti del cristianesimo a un promettente futuro»[51].
In un’intervista rilasciata nel 2008, alla domanda se la questione della giustizia dovesse essere approfondita nella costituzione della Chiesa secondo il diritto pubblico, cioè nel diritto canonico, Metz rispose: «Si potrebbe dire così, anche se i cristiani sono certamente non soltanto praticanti ma anche mistici di tale giustizia: ma mistici con “gli occhi aperti”, mistici di una compassione, di una capacità di compatire che, secondo me, ancora oggi è una parola chiave importante nella sequela di Gesù. Questa mistica della giustizia non è una mistica della sofferenza senza volto, come nelle forme principali della mistica nell’Asia orientale: invece, è una “mistica alla ricerca di un volto” (Benedetto XVI), porta all’incontro con i volti di chi soffre»[52]. Questo non lo direbbe forse oggi anche papa Francesco?
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AUSCHWITZ, THE CONTINGENT TRAUMA. The Work of Johann Baptist Metz (1928-2019)
The German theologian, Johann Baptist Metz (1928-2019), has acquired a worldwide reputation. For decades he made significant contributions to theology and the Church. His name is associated with key expressions such as «new political theology», «sensitivity for theodicy», «theology after Auschwitz», «compassion», «open-eyed mysticism» and memoria passionis. Today, his most important texts have been collected into a single eight-volume edition.
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[1]. Libri di Metz più volte riediti e tradotti in diverse lingue – come Armut im Geiste. Passion und Passionen (1962; in it. Povertà nello spirito. Passione e passioni, 2007), Zur Theologie der Welt (1968; in it. Sulla teologia del mondo, 1974), Glaube in Geschichte und Gesellschaft (1977; in it. La fede, nella storia e nella società, 1985), Zeit der Orden? (1977; in it. Tempo di religiosi?, 1978) o Jenseits bürgerlicher Religion. Reden über der Zukunft des Christentums (1980, in it. Al di là della religione borghese. Discorsi sul futuro del cristianesimo, 1981), per citare solo alcuni titoli, sono stati ampiamente letti nel mondo.
[2]. E. Diaz, «Johann Baptist Metz, Theologian of Compassion, Dies at 91» («Johann Baptist Metz, il teologo della compassione, muore a 91 anni»), in The New York Times, 10 dicembre 2019.
[3]. N. Reck – J. B. Metz, «Die neue Politische Theologie» («La nuova teologia politica»), in H. Brosseder (ed.), Denker im Glauben. Theologischer Wegbereiter für das 21. Jahrhundert («Pensatore religioso. Un teologo pioniere per il XXI secolo»), München, Topos, 2001, 86.
[4]. Cfr J. B. Metz, Gesammelte Schriften («Opere complete»), voll. 9, Freiburg Herder, 2015‒2018. In questo articolo l’opera verrà citata con la sigla JBMGS, seguita dal numero del volume e l’indicazione della pagina.
[5]. Il volume 9 contiene l’indice dei contenuti dei volumi dall’1 all’8, un indice delle persone e degli argomenti, nonché la bibliografia in ordine cronologico dal 1951 al 2018, che consta di oltre 100 pagine.
[6]. J. B. Metz, «Mit dem Gesicht zur Welt. Eine theologisch-biographische Auskunft» («Con lo sguardo sul mondo. Un’informazione teologico-biografica»), 2007, in JBMGS 1, 268.
[7]. Con questo titolo sono stati pubblicati, nel volume 7 della raccolta, testi scritti dal 1957 al 2012.
[8] . J. B. Metz, «Zeit der Orden? Zur Mystik und Politik der Nachfolge», in JBMGS 7, 172.
[9] . Id., «Welches Christentum hat Zukunft? Dorothee Sölle und Johann Baptist Metz im Gespräch» (1990; «Quale futuro per il cristianesimo? Dorothee Sölle e Johann Baptist Metz in dialogo»), in JBMGS 8, 139.
[10]. H. G. Pöhlmann, «Johann Baptist Metz», in Id., Gottesdenker. Prägende evangelische und katholische Theologen der Gegenwart. 12 Porträts («Pensatori religiosi. Teologi protestanti e cattolici rilevanti di oggi. 12 ritratti»), Reinbek bei Hamburg, Rowohlt, 1984, 268 s.
[11]. J. B. Metz, Sul concetto della nuova teologia politica, Brescia, Queriniana, 1998, 225 s.
[12]. Ivi, 226.
[13]. Ivi.
[14]. Id., Welches Christentum hat Zukunft?…, cit., 139.
[15]. Cfr J. B. Metz, «Vorgeschichte, Text, Anmerkungen zu Anlage und Eigenart» («Genesi, testo, annotazioni al testo e particolarità»), in JBMGS 6/2, 21-70.
[16]. Cfr A. R. Batlogg, «L’edizione delle “Opere complete” di Karl Rahner», in Civ. Catt. 2020 IV 604-611.
[17]. J. B. Metz, «Den Glauben lernen und lehren. Dank an Karl Rahner» («Imparare e insegnare la fede. Grazie a Karl Rahner») (1984), in JBMGS 6/1, 337.
[18]. Ivi.
[19]. Id., «Wer steht für die unschuldigen Opfer ein?» («Chi difende le vittime innocenti?»), ivi, 240.
[20]. K. Rahner, «Ich protestiere. Offener Brief an Kultusminister Hans Maier und Kardinal Joseph Ratzinger. Eine Wortmeldung zur Ablehnung von Johann Baptist Metz» («Io protesto. Lettera aperta al ministro della cultura Hans Maier e al card. Joseph Ratzinger. Dichiarazione in merito al rifiuto nei confronti di Johann Baptist Metz»), in Id., Sämtliche Werke, vol. 31, Freiburg, Herder, 2007, 464-475.
[21]. Cfr P. Seewald, Benedikt XVI. Ein Leben, München, Droemer Knaur, 2020, 618-620 (in it. Benedetto XVI. Una vita, 2020).
[22]. Cfr K. Rahner, «Christentum in Gesellschaft. Schriften zur Pastoral, zur Jugend und zur christlichen Weltgestaltung» («Cristianesimo nella società. Scritti sulla pastorale, i giovani e la formazione cristiana del mondo»), in Id., Sämtliche Werke, vol. 28, Freiburg, Herder, 2010, 336 s.
[23]. J. B. Metz, «Trotzdem hoffen» («Sperare nonostante tutto») (1993), in JBMGS 8, 23.
[24]. Id., «Mit dem Gesicht zur Welt» («Con lo sguardo sul mondo»), ivi, 268.
[25]. Id., «Trotzdem hoffen», cit., 23.
[26]. Ivi, 30.
[27]. N. Reck – J. B. Metz, «Die neue Politische Theologie», cit., 90.
[28]. J. B. Metz, «In der Gotteskrise: Kirche der Compassion. Interview mit Radio Vatikan» («Nella crisi di Dio: Chiesa della compassione. Intervista alla Radio Vaticana») (2003), in JBMGS 8, 205.
[29]. Ivi.
[30]. Ivi, 205 s.
[31]. Cfr JBMGS 3/2, 208-211.
[32]. Cfr ivi, 255-272.
[33]. Id., «Kirche und Welt im Lichte einer “Politischen Theologie”» («Chiesa e mondo alla luce di una teologia politica»), in Zur Theologie der Welt, in JBMGS 1, 111.
[34]. Id., «Evangelium als Information? Theologische Aspekte des gesellschaftsbezogenen Wortes» («Vangelo come informazione? Aspetti teologici delle parole con riferimento sociale»), ivi, 119 s.
[35]. Id., «Jenseits bürgerlicher Religion. Reden über die Zukunft des Christentums» (in it. Al di là della religione borghese. Discorsi sul futuro del cristianesimo, 1981), in JBMGS 1, 167.
[36]. Id., «Theodizee-empfindliche Gottesrede» («Discorso su Dio sensibile alla teodicea»), in Id. (ed.), Landschaft aus Schreien. Zur Dramatik der Theodizeefrage («Paesaggio di urla. Sul dramma della questione teodicea»), Mainz, Matthias-Grünewald, 1995, 81. Cfr JBMGS 4, 19-39 e JBMGS 6/2, 121-159.
[37]. Id., «Jenseits bürgerlicher Religion…», cit., 168.
[38]. Ivi.
[39]. Ivi, 170.
[40]. Ivi.
[41]. Ivi, 180.
[42]. Id., «Trotzdem hoffen», cit., 20.
[43]. Id., «Theodizee-empfindliche Gottesrede», cit., 81.
[44]. Ivi, 85.
[45]. Id., «In der Gotteskrise: Kirche der Compassion…», cit., 208.
[46]. Id., «Trotzdem hoffen», cit., 20.
[47]. H. G. Pöhlmann, «Johann Baptist Metz», cit., 269.
[48]. J. B. Metz, «Memoria passionis. Ein provozierendes Gedächtnis in pluralistischer Gesellschaft» («“Memoria passionis”. Un ricordo provocatorio in una società pluralista»), in JBMGS 4, 53.
[49]. Id., «Gott und Zeit. Theologie und Metaphysik an den Grenzen der Moderne» («Dio e il tempo. Teologia e metafisica ai limiti della modernità») (2000), in JBMGS 4, 51.
[50]. J. Röser, «Erschütterungstheologie für eine Hoffnungszeit» («Una teologia scioccante per un tempo di speranza»), in Christ in der Gegenwart 70 (2018) 336.
[51]. Ivi, 335.
[52]. J. B. Metz, «Wer steht für die unschuldigen Opfer ein?», cit., 247.