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Dietro le più belle e conosciute canzoni italiane c’è la firma di Giulio Rapetti, conosciuto con il nome di Mogol. Nato a Milano il 17 agosto 1936, figlio di Mariano – a sua volta noto con il nome di Calibi –, direttore della «Ricordi Radio Record», che assunse il giovane figlio Giulio appena conclusi gli studi. Con il padre dirigente della «Ricordi», Giulio voleva poter firmare le sue canzoni senza passare per un raccomandato: così mandò alla Società italiana degli autori ed editori (Siae) una lista di 30 pseudonimi. Li bocciarono tutti. Compilò allora un’altra lista con ben 120 altri nomi d’arte, e alla fine scelsero proprio «Mogol».
Ben noto per la sua collaborazione con Lucio Battisti, con il quale «fonderà» i più grandi successi, già prima del loro primo incontro, Mogol si impone a tutti come autore di «Una lacrima sul viso» per Bobby Solo e di altri successi, come «Al di là», vincitore del Festival di Sanremo nel 1961. Hanno inciso canzoni scritte da lui, fra gli altri, Gianni Bella, Caterina Caselli, i Dik Dik, l’Équipe 84, Fausto Leali, The Rokes, Bobby Solo, Little Tony, Mango, Riccardo Cocciante e i New Trolls. Nel settembre 2018 Mogol è stato eletto all’unanimità Presidente del Consiglio di gestione della Siae.
Incontriamo Mogol in un pomeriggio di sole durante la 77a Mostra internazionale d’Arte cinematografica di Venezia[1]. L’intervista è proseguita tempo dopo nella casa di Mogol, presso la sede del Centro europeo di Toscolano (Cet), ad Avigliano Umbro. Una vera scuola di arte e di vita, fondata nel 1992 con lo scopo di valorizzare e qualificare principalmente nuovi professionisti della musica pop, persone sensibilizzate all’importanza della cultura popolare e alle esigenze etiche della comunicazione. Mogol e la moglie Daniela ci hanno accolti, facendoci gustare una conversazione che, in realtà, è continuata per due giorni interi, intervallata dai pasti e da sessioni di ascolto musicale. Una vera immersione.
Qual è per te il rapporto tra la parola e la musica in una canzone? Come lo definiresti?
Sintonia, senz’altro. Le parole devono necessariamente essere l’espressione del senso di una musica particolare, che è quella lì. Non possono non essere strettamente collegate alla musica, rimanendo astratte. Le note si legano ai contenuti, alla storia che viene raccontata nella canzone e in ogni singola frase musicale. È nella melodia che cerco il testo, le parole che vi sono nascoste, il senso che il compositore costruisce con le sue note. Io esprimo a parole l’anima di una musica. La storia che il testo racconta nasce dalla frase musicale principale. Se c’è un crescendo nella storia, deve esserci un crescendo nella musica. Se c’è una frase musicale intima, la parola deve essere intima. Se la frase musicale è aggressiva, il testo deve essere aggressivo. Il disegno della parola e quello della musica si compenetrano. C’è come un flusso biologico tra la parola e la musica. L’espressione musicale deve essere la stessa dell’espressione poetica. La musica mi suggestiona, e la seguo come una foglia che, cadendo, si abbandona al vento, come un fiocco di neve che si posa lieve sul suolo.
Chi conosce i tuoi testi si immerge nella realtà della quotidianità, si immedesima e ci si rispecchia. Perché?
Quando scrivo, attingo alle mie esperienze personali, non invento di sana pianta. Per raccontare una storia devo averla vissuta o devo averla vista vivere. Ma ho bisogno di un’esperienza reale, vissuta. Nella composizione lavoro più di memoria che di fantasia. Sì, è vero che ho inventato storie come Innocenti evasioni, che è una storia che non ho vissuto. È una storia inventata, ma sempre di quelle che avrei potuto vivere o che un essere umano può vivere. A volte mi faccio piccoli film mentali, diciamo così.
Hai venduto 523 milioni di dischi, secondo le statistiche di due anni fa. Come si fa? Come si vive questa cosa?
Non si fa nulla. È un regalo. Non lo avrei mai immaginato. Ma è questa la cifra. È un regalo. E si riferisce a tutti i Paesi del mondo.
Hai scritto per Mina, per Celentano…
Non per loro. Non ho mai scritto per un cantante. Quando scrivo, sono l’autore. Io scrivo come autore.
Hai mai tratto ispirazione da poeti?
No, non ho mai usato un poeta come guida. Ho usato certe forme poetiche un po’ arcaiche, quello sì. Ma poi mi sono accorto che non valeva la pena. Preferisco scrivere nella lingua di oggi, nella lingua quotidiana, normale. Penso che anche la poesia debba esprimersi con parole semplici. La poesia nasce da una storia concreta e dalla lettura della vita. E per esprimerla servono parole concrete, dirette, semplici.
La canzone è poesia?
Non so rispondere, ma certo la canzone è fatta di musica e non solo di parole. E la musica aumenta il valore poetico di un testo. Io scrivo come sento la musica in modo istintivo. Ma faccio una riflessione ulteriore. Il poeta può avere un grande impatto nel suo tempo. Non è detto che questo impatto duri nel tempo col cambiare della sensibilità. Un poeta, se non ti dà più emozioni nel leggerlo, se cessa la sua carica poetica, diventa parte della storia passata. La canzone certamente dà emozione e la musica ha una capacità di comunicazione molto forte. Le canzoni aprono il cuore.
Qual è il tuo poeta preferito?
Sicuramente Leopardi, anche se il suo rancore nei confronti della natura non fa parte del mio mondo.
Tu hai scritto: «Poeta è non solo colui che sa comunicare profonde emozioni, ma anche chi è in grado di riceverle». Ma hai anche scritto: «È raro che due persone parlino la stessa lingua». Ma allora come si fa a capire un testo? Qual è il rapporto, nella comprensione di un testo, fra il testo e la vita (e i ricordi) di chi ascolta? L’ identificazione aiuta a capire, a entrare nel testo?
Parliamo della stessa lunghezza d’onda. Il gesto poetico è anche il gesto critico, di chi legge. Se io scrivo un testo che tu comprendi e «senti», allora c’è dentro il feeling che segue la vita. Ma per questo bisogna parlare la lingua di tutti. Il numero di persone che si aprono alla canzone dipende da chi la scrive.
Le tue parole sono state ascoltate da milioni di persone. In questo senso tu hai una responsabilità. Verrebbe da dire che le tue parole fanno vedere un mondo o un modo di vedere il mondo. Tu la senti questa responsabilità? Che cos’è?
Certo, mi colpisce che ci siano generazioni che sono cresciute cantando le mie canzoni, forse prima ancora di imparare a scrivere, senza nemmeno sapere chi sono. Sì, sento sempre la responsabilità. Quando ho scritto «guidare a fari spenti per vedere se è facile morire», ho capito poi che qualcuno ci ha provato. E questo è grave. Ho capito che dovevo avere maggiore senso di responsabilità. Adesso è insito in me in modo direi automatico. Si è come inserito in me nel momento in cui scrivo.
Tu sei legato al mondo del cinema? L’ anno scorso è uscito «Un’ avventura»…
I fratelli De Angelis hanno fatto un film sul repertorio Battisti-Mogol. Dunque non ho scritto Un’ avventura per il film. Tra l’altro è una canzone che ha partecipato a Sanremo decine di anni fa.
Comporre significa essere creativi e liberi, ma anche rigorosi. Ogni parola deve essere precisa. Tu vivi questa tensione tra la libertà dell’ispirazione e il rigore? Come la risolvi? Hai scritto: «Siamo tutti artisti. C’è chi ci crede e lo scopre e chi no». Che cos’è il talento? Tutti hanno talento o no? Si può imparare? Qual è il rapporto tra talento e sforzo? Come hai coltivato il tuo talento?
Sì, certo: nel comporre c’è una, chiamiamola, «meccanica», c’è la metrica, ci sono le rime…, ma è il senso della musica. Io ormai ce l’ho in automatico. Sono cosciente che si deve fare, ma ormai vado in automatico. Il rigore non è in contrasto con la libertà. L’ispirazione è sempre dettata dal senso della musica, nel mio caso. Però la rima ti può portare a un fatto creativo. Intendo dire che ti può suggerire uno sviluppo della canzone che non avevi previsto. A volte è una cosa davvero eccezionale. Una rima ti porta a fare una cosa che non avevi pensato e che può essere geniale. Una gabbia formale può diventare un fattore di ispirazione. Poi sono convinto che nasciamo con un talento latente e dobbiamo coltivarlo, perché il talento diventi come un automatismo, cioè si esprima liberamente.
Qual è stata la canzone più difficile da scrivere? O più dolorosa, più sofferta…
Emozioni, perché la prima parte l’ho scritta in uno studio in mezz’ora e la seconda parte l’ho scritta su una giardinetta con moglie e due figli. Io guidavo e non potevo scrivere. Tutto a memoria. E ho dovuto ricostruire tutto. Ho impiegato due ore e mezza. E non avevo la penna per scrivere!
Parlando di te e di Battisti, hai detto che eravate diversissimi, perché lui aveva un pensiero verticale e tu un pensiero orizzontale. Che cosa intendevi dire?
Lui era un analitico, analizzava nel profondo qualunque cosa. Io con un’attenzione mobile, disposta a muoversi rapidamente e su cose di tutti i tipi. Lui era chiuso, riservatissimo. Io no. Lui era un matematico, io più attento alla letteratura. Lui analizzava tutto, capiva subito qualunque meccanismo. Io non ne capivo nulla. Lui aveva fatto l’industriale. Ricordo un episodio. Premetto che lui non era uno sportivo. Un giorno arrivò con sua moglie e mi invitarono a mangiare sulla spiaggia. Tirò fuori dalla macchina un surf, lo montò, si mise la tuta e disse: «Guarda che cosa ho imparato a fare». Andò nel mare e lo vidi scomparire, onde gigantesche… si era allenato così tanto… Incredibile. Noi ci integravamo.
Il primo Festival di Sanremo si svolse dal 29 al 31 gennaio 1951 e fu condotto da Nunzio Filogamo. In questo 2021 celebriamo dunque il 70° anniversario. Tu avevi 15 anni, forse eri troppo giovane. Hai qualche ricordo personale?
Ho un ricordo assolutamente preciso. Ero ragazzino, ma l’ho seguito direttamente. Vinse Nilla Pizzi con una bella canzone che aveva anche un bel testo, originale. Il successo di quella edizione diede lustro a Sanremo: il Festival partì bene.
Nella storia del Festival di Sanremo la tua presenza è stata significativa. Ci ricordi le canzoni con le quali hai partecipato?
Nel 1961 vinse il Festival di Sanremo la canzone Al di là, che scrissi insieme a Carlo Donida e che fu interpretata da Luciano Tajoli e Betty Curtis. Poi sono tornato a Sanremo nel 1963 con Uno per tutte, cantata da Tony Renis, che pure vinse il Festival. Nel 1964 fui a Sanremo con Una lacrima sul viso, con la quale Bobby Solo ottenne davvero un grandissimo successo. Lì accadde che Bobby Solo perse la voce e non poteva cantare: era completamente afono. Mio padre chiese il permesso di mandarlo in playback, andando però fuori concorso. E andò così. Paradossalmente questo forse contribuì al successo del brano: l’acustica era perfetta. Quindi Se piangi, se ridi, composto con Gianni Marchetti e Roberto Satti, che fu presentato al Festival nel 1965 e si classificò al 1º posto. Nel 1969 arrivai al Festival con la canzone Un’avventura, cantata da Battisti. Quindi con Senza un briciolo di testa, terza a Sanremo 1986, scritta con Gianni Bella e interpretata da Marcella Bella. Ancora nel 1991 con Se stiamo insieme, cantata da Cocciante, che vinse il Festival. Infine, nel 2005, ho scritto Musica e speranza con Gigi D’Alessio per la partecipazione al Festival di Sanremo di Gigi Finizio. Successivamente, sempre con D’Alessio, ho firmato la canzone presentata a Sanremo da Anna Tatangelo Essere una donna.
Facendo un bilancio del passato e una riflessione sull’oggi, secondo te che cosa dovrebbe essere il Festival oggi, a 70 anni dalla sua nascita?
Oggi si punta a incrementare gli ascolti. Per questo motivo si cercano i nomi più che le canzoni. In realtà sono le canzoni che rimangono, non i nomi. Il Festival dovrebbe scegliere le canzoni più belle, al di là di chi le canta e della sua fama: questo sarebbe il metodo giusto per avere una cultura popolare di grande livello. La qualità artistica deve essere l’unico criterio, che è poi quello che segue la gente. La gente sceglie le cose più belle. Se tu guardi, il successo della musica non è mai stato determinato dai critici, ma dalla gente. Poi bisogna considerare che una volta le canzoni erano scelte dai disk-jockey, che erano professionisti e sapevano valutare, oggi invece questo filtro non c’è più. Questo ha determinato il successo di una musica più di nicchia che popolare ad ampio raggio. Magari prevale la musica più legata al mondo dei giovani e meno quella che segue il gusto degli adulti. C’è stata come una suddivisione dei gusti, penalizzando gli adulti. Sia chiaro: c’è del bello e del brutto in ogni tipo di stile, anche nel rap o nel trap per esempio. Però è un dato di fatto che il pubblico si sia un po’ frammentato. Certo, le sensibilità oggi sono molto diversificate, così come i gusti, ma una canzone molto bella resta una canzone molto bella. Quando una canzone ti dà un’emozione non c’è niente da fare: quello vale.
Tu scrivi aforismi. La comunicazione digitale oggi deve essere breve, appuntita, affilata, precisa. Non credi che la tua comunicazione sia davvero adatta al web? Che rapporto hai col mondo della tecnologia?
Oggi, parlando con voi, mi è venuto in mente un aforisma: «Chi crede di essere arrivato, si è fermato». Questo può essere un tweet, ad esempio. La forza di queste frasi è che non vanno spiegate: arrivano al cuore e alla mente senza mediazioni. Arrivano come pugnalate, sberle o carezze. In questo momento l’aforisma è la poesia che preferisco. Io faccio lezioni di poetica. A volte i miei alunni scrivono tre pagine…, e invece due parole devono essere precise, affilate, raggiungere il cuore. È diverso bere un whisky o bere qualcosa di annacquato. È necessario il potere della sintesi. Il dono lo devi conquistare con lo studio. La comunicazione digitale può avere una virtuosità. L’importante è che la sintesi non sia talmente estrema da annullare il messaggio. Come nel caso delle sigle: i ragazzi usano TVB, ma TVB non è affatto come dire «ti voglio bene».
Preferisci ricevere un TVB o un cuore?
Un cuore. Ma preferisco un «ti voglio bene».
Un tuo aforisma: «Se mi kiami con la k, io tvb stanotte».
Sì, l’ho scritto per prendere in giro. Perde tutto il valore della comunicazione che arriva.
Hai parlato del senso della vita. La musica ha a che fare con il senso della vita… Hai fatto una proposta per la scuola…
Io vorrei che si desse una chitarra a ogni ragazzino. Far sentire le belle canzoni è come imparare la poesia. E se non solo ascolti, ma partecipi attivamente, se suoni, allora sarà splendido. È così, ad esempio, che preservi i giovani dai pericoli: facendoli esprimere in maniera creativa e così ampliare i discorsi, la mente, l’anima. La questione è quella del senso della vita. Ascoltare canzoni e comporne aiuta ad andare più a fondo. Non capisco come nelle scuole si insegni tutto tranne la materia più importante: la vita. È possibile trasferire il succo dell’esperienza di tanti uomini su alcuni princìpi che sono inoppugnabili. Bisognerebbe insegnare sin dalle scuole elementari il senso della vita, il valore dei sentimenti positivi e negativi. Perché non si costruisce una materia nuova, che ci permetta di conoscere e di assorbire il sapere che ci può far vivere meglio e che venga espressa con parole chiare, semplici, con esempi? Certamente c’è l’ora di religione, che è preziosa in questo senso. E la Chiesa, da sempre, si è assunta questo compito, e lo ha svolto con dedizione. Forse è venuto il momento di aiutarla, perché è un dovere di tutti contribuire alla formazione morale dei giovani. Mi riferisco, in particolare, alla capacità di giudizio. Ma anche al discernimento dei sentimenti. Perché non si insegna chiaramente ai bambini – ma anche ai giovani – che l’invidia è un sentimento che porta fatalmente all’infelicità dell’uomo che lo prova? Perché non si insegna che il gioire delle vittorie degli altri è l’unico modo per essere costantemente felici?
Come hai vissuto il Covid-19?
Io l’ho vissuto come tutti quelli che vivono in casa. Ma avendo la fortuna di avere un ettaro di terreno, l’ho vissuto facendo ginnastica, facendo passeggiate e aiutato dalla TV di 85 pollici. Se dovessi scegliere tra un vestito bello, un paio di belle scarpe costose, preferirei una bella TV dove poter vedere film che aprono mondi. Comunque ho vissuto questo tempo con spirito positivo. Metto sempre la mascherina, perché l’ho promesso a mia moglie, che è molto protettiva nei miei confronti.
Hai la percezione della morte?
La gente fugge spesso il pensiero della morte. Io la vedo come un confine, e penso che sia giusto prepararsi a questo momento senza nascondersi. Mi pongo in modo positivo nei suoi confronti. Questo è anche dovuto al fatto che ho sempre vissuto la vita e il creato come qualcosa di rassicurante. Bisogna affrontare la morte come un processo naturale. Come tutte le cose che non conosciamo, la demonizziamo. Se tu ai bambini piccoli dai qualcosa che non conoscono, ti dicono che non gli piace. E noi siamo così. Per questo la morte ci terrorizza. Però ci tocca. Per me la vita è una cosa meravigliosa. Il gusto di mangiare un piatto di pasta asciutta, di prendere il sole… questa carezza calda, il mangiare le ciliegie, dormire quando sei stanco. La vita la riceviamo. Perché allora dobbiamo temere la morte? Sento la morte come conseguente alla logica di quello che abbiamo vissuto. Il nostro sguardo non può abbracciare la totalità, e dobbiamo accettare che non ci è possibile capire, ma solo intuire. Così per la morte. Ne ho parlato in alcune canzoni. Ad esempio, in Dormi amore, una delle canzoni a cui sono più legato in assoluto, che ho dedicato a mia moglie Daniela. È la dichiarazione d’amore di un uomo che si preoccupa di cosa accadrà alla sua donna dopo che lui sarà morto. Nella canzone un uomo in pigiama riflette, affacciato alla finestra, mentre la donna dorme e le promette di non abbandonarla, di rimanere sempre con lei, anche se in forma diversa: Con l’aiuto dei gabbiani disegnerò / Impossibili figure / Che potrai interpretare. / Dormi amore / Non ti svegliare / No, non temere / Con altre mani ti accarezzerò / Io ci sarò. / Ovunque tu sarai / Il mio respiro sentirai.
Nella tua vita hai avuto problemi di salute importanti. In quei momenti hai sentito di aver avuto una fede più forte?
La fede mi ha dato una forza maggiore nell’accettare il mio destino. Nella mia malattia ero sereno. L’accettazione è stata fondamentale. Per me vale come o più di una preghiera: è essa stessa una forma di preghiera, perché è la fede vissuta profondamente. Mi ricordo che durante una coronarografia ho sentito che i medici dicevano: «Non possiamo farlo. La malattia è troppo estesa». Eppure io ero calmo e sono rimasto calmo. Non ero spaventato per nulla. Alla fine però un medico mi ha detto: «Ti operiamo, e andrà tutto bene». Sono andato da mia moglie e le ho detto che avrei dovuto operarmi. Avevo profondamente accettato il mio destino. E questo per me è un atto di fede. Sento che è importante raccontare questa cosa alla gente.
Ma davvero qualunque destino lo avresti accettato?
Sì, e spero di avere la forza di farlo sempre, qualunque situazione io viva: accettare la vita.
È un merito? Una forza?
No. È una capacità. È aver capito qualcosa di molto profondo. Nell’accettazione c’è la forza di accogliere il destino e di farlo sorretti dalla fede. Mi viene l’immagine di un fuscello nel vento. E il fuscello nel vento ondeggia nell’aria, però dolcemente, così come l’uomo che accetta questo destino è disponibile a quello che accade con serenità. L’accettazione è dovuta alla forza di poterla vivere. Certo che ho interpretato questa accettazione profonda come una forza che mi è arrivata dall’esterno. Come se avessi ricevuto un dono rassicurante, una grazia. Non credo di poterlo spiegare meglio.
Da questa esperienza hai avuto ispirazione per qualche tuo testo?
No, almeno non direttamente. Potrebbe esserlo, se ci fosse una musica che coincidesse perfettamente con questa situazione. Per me è la musica che suggerisce il testo, che la guida. Addirittura anche il modo in cui la musica è cantata. Puoi cantarla in diversi modi, e tutte le volte il testo dovrebbe cambiare. È il messaggio emozionale che mi arriva dalla musica e che mi ispira.
Uno dei tuoi aforismi recita: «Senza Dio siamo al centro del nulla». E poi hai scritto nella tua biografia: «Io sento Dio nella mia vita, sento il suo aiuto e la sua protezione… Sento che Dio mi ha assistito in tutto ciò che ho realizzato». Qual è il tuo rapporto con Lui?
La fede per me è davvero una grande consolazione. Penso che sia una ricchezza grande che ci permette di vivere meglio fraternamente: invece che invidiarci e odiarci, dovremmo volerci più bene. Con il passare del tempo il mio rapporto con la religione è diventato più profondo. La mia famiglia è sempre stata credente, anche se non ha mai frequentato assiduamente la chiesa. I miei genitori però pregavano tutti i giorni. Oggi ho una maggiore coscienza del rapporto con Dio rispetto al passato, sì. Mi ci sono voluti anni per maturare questa maggiore comprensione, anche grazie a una persona fondamentale per me: mia moglie Daniela, che mi ha aiutato a riscoprire la dimensione intima e quotidiana della preghiera. Oltre al contributo di Daniela, sono state molto importanti le esperienze in alcuni luoghi sacri.
E com’è la tua preghiera?
Il mio rapporto con Dio comincia quando mi sveglio e prego per circa 20 minuti. Senza la preghiera mi sentirei a disagio. Le mie preghiere sono dedicate ai miei morti, prima di tutto. Poi tutte le persone ammalate che conosco, e sono tante. Poi tutte le persone che sono in pericolo. Prego per i miei figli, i miei nipoti. Ringrazio sempre per tutto quello che ho ricevuto. Ringrazio la Madonna, in particolare. Ringrazio per tutte le situazioni nelle quali mi sono sentito aiutato. Ringrazio per tutte le volte in cui, spinto dal mio spirito di avventura, sono finito in situazioni potenzialmente pericolose, uscendone indenne. La mano di Dio sulla testa me la sento sempre. Sento che non devo dimenticare quel che ho ricevuto. La mia preghiera è una forma di ringraziamento. E questo mi porta ad aiutare la gente che ha bisogno. Anche questo l’ho appreso da mia moglie. E aggiungo: c’è un senso d’ingenuità che deve essere difeso, nella preghiera. È la luce di Dio.
Tu parlavi di luoghi sacri importanti per la tua fede. Quali?
Lourdes in particolare. E poi il Sinai. Nel 1997 la Rai decise di produrre la serie «Viaggio nei luoghi del sacro», e ne affidò la regia a Gjon Kolndrekaj, che mi chiese di collaborare con lui. Lo seguii sul monte Sinai e andammo al monastero ortodosso di Santa Caterina. Un luogo affascinante: solo dune, terre nude, il cielo e l’uomo, per cui il pensiero vola verso le domande esistenziali: da dove veniamo? Dove andiamo? Chi è Dio? Andammo a 60 chilometri dal Sinai, verso il deserto, dove abitava una suora che viveva da sola in una casa circondata da un muretto con un piccolo giardino e un roseto che innaffiava tutti i giorni. All’entrata c’era una tettoia sotto la quale viveva una famiglia beduina. Rimasi molto colpito dall’incontro con questa donna. Le chiesi: «Come mai ha deciso di versare il suo amore nel deserto?». Lei mi rispose: «No, non è stato versato». Non era andato perduto nel nulla, no. Allora le domandai se, secondo lei, Dio avesse bisogno di noi, e lei mi rispose di sì, che Lui aveva bisogno di noi quanto noi di Lui. Questa esperienza mi ha cambiato interiormente.
La fede cambia il rapporto con il mondo?
Io ho capito che noi abbiamo uno scopo principale nel mondo: aiutare gli altri. E per questo abbiamo bisogno di aumentare il senso del soccorso, l’immedesimazione… L’immedesimazione per me è importantissima. La Chiesa dovrebbe insistere di più sulla capacità umana di immedesimarsi con gli altri: salveremmo molte persone! Vorrei poi che la Chiesa, che è la casa del Signore, grazie alla fede potesse svolgere in modo ancora più forte l’aiuto all’educazione dei giovani. Vuoi creare un popolo più caritatevole e sensibile? Allora devi lavorare con i più giovani e aiutarli a capire che hanno la vita davanti a sé per costruirsi. L’atteggiamento più giusto è quello di prestare ascolto alle domande, di alimentare la conversazione e il dialogo a partire dalle domande che ci facciamo, in particolare da quelle dei giovani.
Qual è il rapporto tra la fede e la gioia di vivere, che per te è così importante?
La gioia di vivere è sacra. Non mi riesce di capire come si possa considerare l’autopunizione come forma di amore per Dio. Nel gesto santo leggo un fatto divino che l’uomo può realizzare con slancio, con gioia. Dio ci vuole buoni, comprensivi, generosi, coraggiosi e felici.
Questa vita di fede ha ispirato la tua canzone?
Io adesso sento Dio nella mia vita, sento il suo aiuto e la sua protezione; mi sono sempre sentito protetto, come se avessi una mano sulla testa. Quando scrivo, resto io stesso colpito dalla velocità e dalla facilità con cui mi riesce. Mi sembra che questo abbia a che fare con Dio, che sia un suo dono. Nella mia mente, l’intenzione è il seme, la pianta è il regalo di Dio. Sento che Dio mi ha assistito in tutto ciò che ho realizzato. Più in generale, sono convinto che la musica, come l’arte, è figlia del cielo. La preghiera, d’altra parte, non è nient’altro che una canzone d’amore indirizzata a Dio e anche alla gente. Ad esempio, in Anche per te sento che c’è dentro una preghiera. C’è lì il dispiacere di non poter fare di più. I personaggi sono una beghina, sola, che merita una carezza, una prostituta sfruttata e una ragazza madre. È una canzone molto sentita. Ricordo poi Il patto: è la storia di un uomo disperato, da solo in una casa, che si mette a parlare con Dio: Dove sei, dove sei? / Adesso dove sei? / Mi han detto che tu sei / Ovunque c’è bisogno / Ma se è certo che sei qui / Vicino al mio dolore / Oppure sono io / Che come al solito sogno / Questo mio soffitto adesso è il cielo / Entra in me con tutto il tuo chiarore / Ho bisogno d’amore, ho bisogno d’amore / Ho bisogno d’amore, se tu vuoi che creda in te.
Che cosa pensi di papa Francesco?
Vedo insieme Francesco e Benedetto. Sono due uomini completamente diversi, ma che hanno la stessa missione e la stessa intenzione: portare la Chiesa sempre più vicino a Cristo. Quello che spero che faccia la Chiesa è che prenda più iniziativa e più coraggio. Oggi serve davvero una mentalità che aiuti ad amarci gli uni gli altri. Ed è quello che sta facendo il Papa: aiutarci ad avere questa mentalità. E poi ha distinto tra chi è «ecclesiastico», come dico io, cioè legato a certi modi di fare, alle maniere esteriori, e chi è veramente seguace di Gesù Cristo. Francesco ha avuto la grande intuizione della fraternità degli uomini.
Tu hai dato anche una consulenza per il «Videocatechismo della Chiesa cattolica». Perché lo hai fatto? Che cosa hai trovato di interessante in quest’opera e nel «Catechismo» per un artista come te?
Conosco il regista da 30 anni. E ha prodotto un’opera che dura 25 ore e potrà avere diffusione mondiale, con riflessi positivi nella cultura umanistica. Lui ha fatto un grande sforzo: 800 ore di registrazione. I dati sono incredibili. Girato con la tecnologia del 4K in 70 Paesi nel mondo, il Videocatechismo ha visto la partecipazione di 60.000 persone, in 16.000 differenti luoghi di ripresa. I testi del Catechismo sono stati letti in 37 lingue diverse, mentre 1.200 attori in costume hanno ricostruito in fiction scene dell’Antico e del Nuovo Testamento. L’operazione mi ha colpito, perché ha trasformato la parola in immagine, un testo speculativo in immagini.
Hai fondato il «Centro europeo di Toscolano», una scuola per autori, musicisti e cantanti. Il motto che lo presenta sul sito web è «Formiamo l’uomo per formare l’artista». Che cos’è esattamente? Com’è nato? Qual è il suo obiettivo? Intende formare l’uomo?
Il Centro è fondamentale. Forse è stata una follia bella, di quelle che si fanno quando si viene folgorati da un’idea. Mi sono impegnato in tutti i modi per realizzarla. Per me è un modo di contribuire alla vita culturale del nostro Paese. È per me il luogo della responsabilità. Se non formi l’uomo, l’artista può diventare un mitragliatore pesante. Bisogna formare prima l’uomo. E noi al Cet ragioniamo in questo modo: formiamo le persone. E così si forma l’artista. Non ci vogliono scuole che siano solo professionalizzanti. L’importante è che ci sia una ricchezza umana da condividere e una formazione. Ci sono artisti che sono diventati modelli di vita sbagliata.
Il Cet è diventata università, convenzionandosi con la «Gabriele D’ Annunzio». Hai progetti per il futuro?
In maggio faremo uno spettacolo in tre serate di Rai2, dove presenteremo il meglio della nostra produzione: una decina di canzoni, che saranno cantate sia dagli autori sia da interpreti, verranno eseguite da un quartetto d’archi come se fosse musica sinfonica, e saranno accompagnate da coreografie. La seconda serata saranno eseguite da cantanti famosi, e la terza da personaggi famosi che non hanno mai cantato.
Ma, in definitiva, chi è Mogol?
Forse per capire chi è Mogol bisogna leggere i miei testi. Sono tenace, vitale, incontenibile, talvolta irresponsabile, appassionato, con un grande amore per l’avventura. Ho cercato di cogliere tutte le opportunità. Pochissime volte ho avuto paura, più che altro di fronte al pericolo fisico e le volte in cui mi sono trovato solo di fronte alla natura. So che il vero senso della vita è costruire qualcosa, amare, fare tutto ciò che si può per dare il proprio contributo al mondo. E vivere pienamente e lasciare un segno positivo del proprio passaggio. Non si deve mai smettere di cercare, anche se quello che ci circonda è sconfortante. Tutto quello che ho ottenuto mi ha sorpreso, ma ho sempre dato il mio contributo, mi sono sempre impegnato con fiducia. Scrivere canzoni è per me il modo con il quale porto avanti un discorso, una filosofia di vita.
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INTERVIEW WITH MOGOL. «On the other side»
Behind the most beautiful and well-known Italian songs there is the authorship Giulio Rapetti, known by his pen name Mogol. Our Director and Francesco Sechi – producer and television author – met him for a wide-ranging conversation that touched on the life and career of the composer. They talked about the relationship between words and music, the value of creativity and talent, and his relationship with great musicians. The conversation continued to touch on more personal topics, for example, the meaning of life, the relationship between illness and death, faith in God, prayer, and the importance of education. The 70th anniversary since the Sanremo Festival was founded, was also evoked. The result is a portrait painted with large brushstrokes that reveal the soul of a great protagonist of our time.
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[1]. L’occasione della sua presenza è stata la presentazione della forma di distribuzione digitale del Videocatechismo della Chiesa cattolica, opera multimediale e multilingue della durata di 25 ore, suddivisa in 46 episodi, prodotta da Tania Cammarota e Gjon Kolndrekaj. Si tratta di un’opera artistica unica, realizzata dalla «Società CrossInMedia», con il patrocinio del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, sui testi della Libreria Editrice Vaticana, che aiuta a scoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata, rivolta a tutti gli uomini del nostro tempo.