|
Questo è un libro fondamentale e del tutto originale. Le antologie, per quanto vaste ed erudite, sollevano spesso dubbi su quale causa esse corteggino, quale ideologia ne guidi la redazione, spesso a detrimento della completezza, dell’equanimità e qualità delle scelte operate, che sono invece, per natura, discrete e discriminanti.
Nel caso di Versi a Dio, viene invece offerto al lettore un repertorio immenso, che serve egregiamente la causa essenziale della grande poesia, non meno delle domande e delle ragioni del divino e della fede: ambiti che hanno avuto frequentemente, nei millenni della storia umana, un corso collimante. Ce lo ricorda p. Antonio Spadaro: «Preghiera e poesia costituiscono un binomio che ha accompagnato costantemente la storia dell’esperienza religiosa. Spesso la poesia raggiunge un tempo già reso “poetico”, per così dire, dalle devozioni e dai rituali che in esso si celebrano. La sua funzione è quella dell’accompagnamento, dell’evocazione e dell’approfondimento orante e meditativo» (p. 10).
Pare poi evidente che, per quanto robusto sia il dovere compilativo dei curatori – nella varietà, vastità e completezza, storica e geografica, delle tradizioni e delle fonti da cui arrivano alla nostra frantumata e disattenta coscienza contemporanea gli echi del numinoso –, per fortuna abbia prevalso uno spirito autenticamente creativo, una ricerca ispirata dei testi e delle infinite epifanie che essi rappresentano e simboleggiano.
Ma ci sono anche i segni del dubbio, del limite, della disperazione e della ricerca dell’inconseguibile Alterità divina. Queste correnti emergono, carsicamente, dai testi dei miti cosmogonici dei primordi – una parte molto bella della raccolta – fino al diamantino interrogarsi di Emily Dickinson.
Selezionando il meglio della poesia nata nel crogiolo di tutte le grandi religioni e movimenti spirituali e nelle notti luminose della civiltà (i cieli africani, le steppe mongole, le pratiche sciamaniche, le invocazioni agli dèi egiziani), quando gli aedi cantavano senza che ancora vi fosse alcun movimento o religione costituita, così come i vertici lirici dei singoli vagabondi dello spirito, dei non affiliati, dei non profetici e non convertiti, la raccolta è, essenzialmente, la prova dell’universalità e della consustanzialità alla nostra specie di due caratteri pressoché indistinguibili: non c’è anelito verso l’Altro, il divino, il mistero che non abbia trovato sublime calco nelle forme, negli stili del linguaggio; e non c’è idioma che non abbia esplorato e manifestato il divino, o la sua nemesi, la sua formidabile assenza.
Papa Francesco, nella sua lettera ai poeti – un vero manifesto rivolto ai poeti e un appello al loro dovere creativo prima ancora che etico –, sottolinea: «La parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La poesia è aperta, ti butta da un’altra parte» (p. 7).
Quell’altra parte non è necessariamente il paradiso terrestre, o quello dei cieli, ma è, molto spesso, lo stesso Cristo fatto carne: anche nel grido dell’abbandono, anche nello sconcerto dello smarrimento in un qualche deserto dell’assenza di Dio; è l’invito a non dimenticare mai quello che ci fa esseri umani, davvero al vertice del creato, e non per speciosa gerarchia tassonomica, affinché non solo abbiamo coscienza del dolore, ma lo tramutiamo in conoscenza, e quindi in poesia, verità e bellezza, che sono poi la stessa cosa.
Che lo si esamini intellettualmente o spiritualmente nudi, o invece indossando uno qualunque dei nostri inani abiti mentali (ateo, agnostico, fedele ecc.), questo libro è un atto d’amore per tutti.