
La parola «luce» è molto presente nel linguaggio cristiano. Di solito indica l’illuminazione che giunge dal versante di Dio al nostro. Induce a riflettere sui diversi aspetti che intervengono in tale illuminazione: l’origine della luce, che cosa c’è da illuminare, il tramite per cui avviene l’illuminazione, la prospettiva che la governa, il modo in cui si dà. In effetti, quando leggiamo i documenti del magistero della Chiesa degli ultimi decenni, non troviamo un singolo utilizzo della parola «luce». La incontriamo, piuttosto, in diverse espressioni che possono apportare qualcosa l’una all’altra, pur sovrapponendosi in parte. Tre in particolare sembrano costituire un buon esempio nell’insieme: «luce di Dio», «luce della fede», «luce del Vangelo». Nella prima espressione ci si riferisce alla fonte dell’illuminazione, all’entità che ce la fornisce e comunica. Nella seconda viene indicato il contesto che rende possibile l’illuminazione, il canale attraverso il quale la luce ci arriva. Nella terza si precisa la prospettiva della suddetta illuminazione, la matrice di lettura che va applicata a ciò che dev’essere illuminato. Quanto alle altre espressioni, non sarà difficile ricondurle a una di queste; è il caso di «luce di Cristo», «luce dell’amore, «luce della Parola». Nella nostra riflessione daremo la priorità all’espressione «luce della fede».
Principali linee d’azione della «luce della fede»
Cominciamo con l’enunciare le principali linee che orientano l’azione della «luce della fede». La prima è l’inserimento nelle realtà dell’esistenza umana, pur mantenendone un distanziamento. Si cerca di comprendere queste realtà da vicino, o anche dal di dentro, senza mancare di osservarle con spirito critico. Essere «luce» infatti richiede vicinanza a ciò che si vuole illuminare, per acquisirne conoscenza e mettersi in condizione di intervenire correttamente. Allo stesso tempo, presuppone un’alterità rispetto a ciò che è illuminato, per confrontarsi con esso e potervi aggiungere qualcosa. È l’idea presente nella nota formula giovannea «essere nel mondo» (Gv 17,11) «senza essere del mondo» (Gv 17,14). Qui si presuppone una «doppia fedeltà»: innanzitutto «a Dio, che ci chiama ad adottare nuovi comportamenti di vita»; poi «al mondo, fuori del quale sembra difficile poter manifestare la novità cristiana»[1]. Questo significa che vanno evitate due tendenze di segno opposto. Una è costituita dal «progressismo vuoto», in cui cadiamo in un adattamento conformista al mondo fino al punto di non aggiungervi nulla. L’altra consiste in un «conservatorismo annoiato», in cui non siamo più capaci di affrontare il mondo in modo creativo, perché non riusciamo a trarre forza
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