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Per alcuni questo libro è l’autentico capolavoro di Hermann Broch, più ancora de I sonnambuli o de La morte di Virgilio. Esso rappresenta la storia di un’ascesa, quella di Hitler, che costò il carcere allo scrittore austriaco di famiglia ebraica. La mobilitazione di scrittori e intellettuali permise la scarcerazione di Broch e il suo addio alla patria: egli se ne andrà negli Stati Uniti, dove insegnerà tedesco all’Università di Yale e dove rimarrà fino al 1951, anno della sua morte.
Scritto nel 1936, sempre rivisto e corretto ma mai pubblicato in vita, questo lungo racconto è anche una lunga, sconfinata visione. Non quella devastante espressa nell’interminabile monologo interiore di Virgilio che, di fronte alla realtà del popolo, della politica e della necessità, paventa l’inutilità della sua opera e ne chiede la distruzione, ma quella di una natura, fatta di montagne e boschi, che parla a chi vuole ascoltarla ed emana l’alito del divino.
Soprattutto una donna, l’anziana Gisson – chiamata sempre, e non a caso, «madre» –, sembra essere la sola in grado di decifrare il linguaggio di un Dio che parla attraverso le sue creature: non solo uomini e animali, ma acque, terra, piante, soffio del vento. L’evoluzione è, da questo punto di vista (quello di uno scrittore studioso di matematica, di psicologia e di letteratura che si andava lentamente avvicinando al cristianesimo), considerata come «una progressiva rinascita che aspira a Lui, tentando di fermare la fugace immagine di sogno mediante i riti e l’azione» (p. 285).
In un paese delle Alpi austriache avviene l’incontro tra un medico, che ha abbandonato il potere e la carriera cittadina e rinunciato all’amore dopo la tragica fine della donna amata per accettare una condotta, e uno strano vagabondo, che infila perle di saggezza una dopo l’altra: bisogna tornare alla madre terra, occorre essere casti, ma nel contempo si deve sacrificare un innocente e cacciare tutti coloro che non lavorano la terra e i suoi prodotti. In questo caso, un poveraccio che arriva dalla città e che vende radio fa l’assicuratore e viene visto come un nullafacente, che deve essere mandato via o perseguito: antico ricordo del pharmakos, l’antico capro espiatorio sacrificato nell’antichità in momenti di crisi, come l’assedio o la pestilenza. Ovviamente è un riferimento a Hitler, considerato come fascinatore in una Germania impoverita dal Trattato di Versailles dopo la Grande guerra, con la visione negativa dei banchieri, degli stranieri, di coloro che non fanno parte del Volk – il popolo originario – legato alla terra.
Merito, e genialità, di Broch è di non proporre un’alternativa legata esclusivamente alla città – e alla civilizzazione – dell’Occidente, ma di restare nella dimensione della natura: una natura però come lontana eco di un paradiso dal quale l’uomo si è allontanato e che invia messaggi che solo alcuni possono ascoltare. E non è un caso che sia una donna, la madre autentica del racconto, ad ascoltare e a trasmettere con umane parole i messaggi che vengono da una natura sentita come voce di Dio, alla quale occorre tornare senza false mitologie superomistiche, ma con umiltà e accettazione di tutte le cose, comprese quelle più apparentemente insignificanti.
La graduale fascinazione di Marius, lo straniero vagabondo portatore di un messaggio di rigenerazione fatto di aggressività e sopravvivenza dei più forti, attanaglia tutto il luogo. Solo il medico, l’antica madre e pochi altri riusciranno a restarne indenni e a contrastarla non con un falso razionalismo, ma proprio attraverso la lettura opposta e religiosa del rapporto uomo-natura, sebbene anche Marius abbia una sua religiosità, fatta, proprio come in alcune frange del nazismo, di un ritorno a un paganesimo germanico «liberato» dalla debolezza della compassione.
La sua è una visione davvero avvincente, perché combatte il nemico con le sue stesse armi: il ritorno alla natura divina, alla fede libera da falsi miti e facili illusioni, a una vita come dono per l’altro, come pane non solo materiale per i propri figli. Di lì a poco Broch affronterà il drammatico motivo di una cultura – nel caso di La morte di Virgilio, la letteratura – su cui pende la minaccia di un’inutile compiacenza di sé e in sé, di una vacuità in cui la dimensione unicamente estetica non è in grado di afferrare, anche se solo per un attimo, il senso profondo e religioso della nostra esistenza e della storia stessa.