
Uno sguardo alla storia ci mostra che il cristianesimo, per molti secoli, ha accettato la schiavitù come una realtà sociale ed economica propria della maggior parte delle società. Il pensiero cristiano ha accettato la schiavitù in determinate circostanze e, quando si è sviluppata la tratta atlantica, lo sforzo dei teologi e giuristi è stato quello di delimitare con esattezza le occasioni di perdita legittima della libertà. Fu il caso, nel secolo XVI, di pensatori come Luis de Molina e Tomás de Mercado. Come scrive papa Francesco, la morale e il diritto stabilivano «chi nasceva libero e chi, invece, nasceva schiavo, nonché in quali condizioni la persona, nata libera, poteva perdere la propria libertà, o riacquistarla. In altri termini, il diritto stesso ammetteva che alcune persone potevano o dovevano essere considerate proprietà di un’altra persona, la quale poteva liberamente disporre di esse»[1].
Nel periodo dell’espansione europea e, in particolare, con l’arrivo in America alla fine del secolo XV, la Chiesa ha difeso la libertà dei popoli amerindi. Ne sono esempio papa Paolo III con la bolla Sublimis Deus, del 1537, e pastori e missionari, come i domenicani Antonio de Montesinos e Bartolomé de Las Casas nell’America spagnola, e i gesuiti
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