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I Sette Palazzi Celesti sono un’enorme installazione dell’artista Anselm Kiefer, pittore e scultore tedesco, classe 1945, e si possono ammirare dal 2005 all’Hangar Bicocca di Milano. Si tratta di contenitori in cemento impilati secondo un equilibrio precario. Ciascuno dei Palazzi di sei piani ha un nome – Melancholia, ad esempio –, ed è intarsiato, decorato e disposto secondo un preciso ordine progettuale, a delimitare uno spazio espositivo interno che confina con cinque quadri di grandi dimensioni, realizzati da Kiefer tra il 2009 e il 2013, i quali possiedono significazioni astrali, alchemiche, cabalistiche, filosofiche (La linea tedesca della salvezza) ed ecologiche.
Le stanze sovrapposte, che edificano i Palazzi, sono vuote, salvo pesantissimi cunei e riproduzioni di libri in piombo, e sembrano aver subìto un’implosione e uno sventramento, dopo i quali gli edifici si sarebbero riassestati. Potrebbero crollare o restare così per sempre. Sono rovine – non meri detriti – di una civiltà tardo-industriale che aveva sfidato il cielo. Sono pezzi archeologici che nuove architetture urbane o religiose potrebbero inglobare e riutilizzare. L’arte sopravvive al disastro, potremmo commentare; o, con le parole dell’artista, «l’autodistruzione è sempre stato il fine più intimo, il più sublime dell’arte, la cui vanità diviene così percepibile» (p. 11).
Federico Vercellone, professore di Estetica all’Università di Torino, raccoglie nel volume alcune riflessioni (corredate da 8 fotografie a colori) sul fallimento di quella modernità che presumeva di possedere i criteri per instaurare un progresso storico-culturale lineare, ininterrotto, definitivamente pacificato, una volta relegata la religione nel privato ed esclusa la nozione di Dio dal discorso pubblico. La potenza tecnologica ha purtroppo mostrato un volto ambiguo – due guerre mondiali, il nazismo, la devastazione ambientale – e ha consentito abusi, violenze, sfruttamenti mercantili. L’epidemia di immagini, veicolate dalle grandi autostrade multimediali, pur garantendo una comunicazione più rapida e massiccia, ha sollevato motivi di disorientamento, ansia, depersonalizzazione. Può forse un Dio padre webmaster (p. 32) assegnarci il giusto posto nel mondo? Kiefer rinvia a questa corrosione dell’epoca contemporanea e allude nel contempo all’incerto presagio di un avvento messianico. Una Babele sconfitta, un Tempio distrutto, un Velo squarciato portano a un’ascetica iconoclastia, ma infiammano il pensiero di un nuovo inizio, di una ricreazione, di un «resto», che tornerà fecondo, germogliando ironico e testardo, come erbe selvatiche sopra chiese sconsacrate.
Chi visita i Palazzi s’interroga sulle valenze simboliche di torri disabitate e vulnerate, e tuttavia implausibilmente elevate al cielo, ancora costellate di segni misterici e pervicacemente disponibili a una ricostruzione e a un uso secolarmente liturgico. In effetti, è il deficit di capacità simbolica che ci ferisce, che avvinghia i nostri corpi e impedisce al diluvio di immagini d’incarnarsi in un Dio comune, in un condiviso rito di speranza. «Fede, Speranza, Carità» è il titolo di un’opera di Kiefer (1984-86), in cui un’elica metallica è agganciata su una scabra superficie dipinta con colori sintetici e tecniche miste (Art Gallery of New South Wales). Forse la ruota della salvezza può ancora mettersi in moto, forse c’è ancora una chance per la rugosa terra del disincanto.
FEDERICO VERCELLONE
Simboli della fine
Bologna, il Mulino, 2018, 152, € 12,00.