|
Non c’è inane attacco censorio al romanzo più noto di Vladimir Nabokov, Lolita (1955), che possa diminuire la statura della sua impresa letteraria ed esistenziale, attraverso due Paesi e in due lingue («Ho imparato a leggere in inglese prima che in russo») abissalmente distanti, abitate entrambe con la naturalezza del nativo.
Non c’è pagina di Parla, ricordo – l’autobiografia dello scrittore nato a San Pietroburgo nel 1899, vissuto a lungo in America e morto a Montreux, in Svizzera, nel 1977 – che non ispiri un sentimento di meraviglia estetica, di piacere profondo e di empatia istantanea; che non offra l’incanto di navigare un mondo fantastico e tragico a un tempo. In un racconto che è, innanzitutto, un atto d’amore profondo per le proprie radici, la «Russia leggendaria dell’infanzia», una ricognizione di un paesaggio storico e personale, lucida e senza sentimentalismi, ma anche puntuale nell’evocazione degli oltraggi e della violenza dei nuovi padroni dell’ordine sociale bolscevico. I Nabokov, parte dei quasi due milioni di fuoriusciti russi, persero beni e cittadinanza, e il padre – avvocato, giornalista e uomo liberale – fu assassinato da banditi fascistoidi nel 1922, a Berlino.
Le radici dello scrittore affondano in una facoltosa e numerosa famiglia, aristocratica e imprenditoriale, i cui antenati furono per quasi tre secoli profondamente legati alla storia militare, culturale e politica della Russia pre-rivoluzionaria. Tra loro, generali, ministri, scrittori, musicisti, esploratori, cercatori d’oro, ingegneri, filantropi e magistrati. La memoria che parla, in Nabokov, non è mai ordinariamente nostalgica, o trasfigurata in mito: «La mia vecchia querelle (risalente al 1917) con la dittatura sovietica non ha niente a che vedere con la questione della proprietà. Il mio disprezzo per l’émigré che “odia i Rossi” perché gli hanno “rubato” soldi e terre è assoluto. La nostalgia che ho serbato nel cuore in tutti questi anni è un senso ipertrofizzato dell’infanzia perduta e non il dolore per le perdute banconote».
In direzione opposta del passato, Nabokov ricostruisce la calda vita dei luoghi e delle case di famiglia e la straordinaria bellezza naturale delle vaste campagne, le estati vissute con la sensibilità del ragazzo attentissimo alle epifanie del paesaggio e alla trama dei sentimenti e delle relazioni. L’immaginario di Nabokov agisce al centro di un sistema dove «si direbbe che esista, nella scala dimensionale del mondo, una sorta di delicato punto d’incontro tra immaginazione e conoscenza, un punto ottenuto rimpicciolendo le cose grandi e ingrandendo quelle piccole, il che è intrinsecamente artistico».
Il lettore assorbe questa materia viva e si chiede meravigliato da dove scaturiscano la speciale robustezza e la precisione assoluta del linguaggio, i diversi registri che compongono una narrazione veramente polifonica. Vi aleggia la consapevolezza, sempre presente in Nabokov, di una coscienza dilatata nell’infinito che fa i conti con la finitudine dell’esistenza. E la riflessione conclusiva assegna il primato alla realtà dell’essere rispetto alla funzione consolante dei sogni e della memoria: «Non è certo allora – non in quei sogni – ma piuttosto quando si è ben desti, nei momenti di gioia intensa e di vera conquista, quando ci si trova sul più alto terrazzo della coscienza, che la caducità ha modo di scrutare oltre i propri limiti, dall’albero di maestra, dal castello del passato, dall’alto della torre. E pur non riuscendo a vedere molto attraverso la foschia, si ha in qualche modo la sensazione beata di guardare nella direzione giusta».
VLADIMIR NABOKOV
Parla, ricordo. Un’autobiografia rivisitata
Milano, Adelphi, 2020, 364, € 13,00.