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Perché il pudore e la nudità sembrano riguardare prevalentemente la donna, considerata in termini di attentato alla moralità? L’autrice, rabbina del Movimento ebraico liberale di Francia, affronta la questione dal versante dell’esegesi rabbinica, mostrando la complessità della problematica, presente fin dai primi due racconti della Genesi.
Secondo lo Zohar, uno dei più importanti libri della mistica ebraica, il versetto «maschio e femmina li creò» andrebbe interpretato letteralmente così: «Un essere umano con un duplice volto e un duplice genere sarebbe stato creato in un solo corpo» (p. 44). Il secondo racconto andrebbe nella medesima linea: estraendo la donna dal fianco – questo è il significato letterale di sela – dell’uomo, Dio separa i due generi e dà origine all’umanità.
La duplicità espone alla «nudità» (beged), un termine che significa anche tradimento: il peccato mostra una trasparenza non più pura, manipolabile. Per questo Dio, prima di scacciare l’uomo e la donna dall’Eden, confeziona tuniche di pelle (cfr Gen 3,21): fornisce una seconda pelle che protegge l’intimo dalle situazioni in cui si mostra.
Da qui le molteplici regole sulla purità dei cicli, dei cibi e degli ambienti. La radice del termine «nudità» (erwah) rimanda al liquido che fuoriesce dall’intimo, rivelando un segreto. Il binomio secrezione-segreto, presente anche in italiano, viene dal latino secretio, che significa separare, fare in modo che il segreto resti nascosto.
Da qui il sorgere del pudore, come protezione dai molteplici rischi di contagio e malattie (l’impuro) causati dalla nudità («abolizione della membrana»): l’incontro con l’altro può cancellare la propria dignità. È significativo che il termine ebraico busah significhi «vergogna», ma anche «separazione», paura di aprirsi all’altro, e insieme desiderio di una fusione impossibile, «della quale dobbiamo rispettare le frontiere» (p. 55). Frontiere che passano per i cinque sensi, anzitutto la vista: da qui l’usanza di coprirsi gli occhi quando si recita lo Shemà («porre una membrana, un filtro tra sé e l’altro», p. 73), o il velo del Santo dei Santi («il pudore dell’infinito: […] nessuno di noi sarebbe in grado di vederlo nudo», p. 78).
Ma perché la «nudità» (erwah) viene attribuita unicamente alla donna? Nell’interpretazione rabbinica, la nudità femminile «costituisce potenzialmente una suggestione sessuale […]. Nel Talmud si qualifica quindi come nudità la voce della donna, la sua capigliatura o certe parti della sua pelle che, se mostrate, possono suscitare il desiderio» (p. 88). Da ogni dettaglio può trasparire la sua interiorità, a differenza dell’uomo, e dunque va coperta.
L’insistenza sulla separazione e copertura del femminile, fino a renderlo invisibile, suggerisce però un’interpretazione paradossale, cioè «che il femminile è per tutti il genere del misterioso e del sacro» da cui l’uomo cerca di proteggersi perché ne avverte il potere inquietante (p. 80).
Il libro mette in rilievo la dimensione prettamente femminile della religiosità ebraica: il popolo eletto ha tratti femminili, è la sposa che cerca lo sposo (cfr Ct 7; Ez 16), e l’infedeltà è associata all’adulterio della sposa infedele. Anche la preghiera dell’ebreo ha caratteristiche femminili: l’orante si avvolge con filatteri e ripete le parole con cui Dio lo fidanza a sé (cfr Os 2,21-22); il rito della circoncisione è scandito da un versetto di Ezechiele rivolto all’amata, e la preghiera sinagogale prevede la svestizione del tessuto che avvolge la Torah.
L’uso di coprirsi, imposto alle donne, ricorda infine il gesto di Mosè sceso dal Sinai: «contaminato» dall’incontro con Dio, dovrà portare per sempre un filtro quando si rivolge al popolo. Da qui l’invito dell’autrice a rileggere senza preclusioni i molteplici significati offerti dalla tradizione, rispettandone la complessità: «Un’eredità che cessa di essere interrogata muore. Interrogare le fonti e i riti, evitando ogni dogmatismo: è questa la vera religione» (p. 140).
DELPHINE HORVILLEUR
Nudità e pudore
Magnano (Bi), Qiqajon, 2021, 154, € 16,00.