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Insieme al pregevole L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, che, dato alle stampe nel 1983, contiene numerose e acute riflessioni sul «modo di vedere» maggiormente diffuso nel nostro Paese in quanto sistema di prescrizioni e proibizioni, gli scritti di Giulio Bollati (1924-96) riuniti in questa silloge costituiscono il cuore del suo lavoro critico. Un’attività che egli, intellettuale raffinato e poliedrico, ha dedicato principalmente all’analisi dell’Italia che si andava affacciando alla modernità: nel lasso di tempo, cioè, che va dal 1750 al 1860 e arriva, dunque, alle soglie dell’Unità nazionale. Attività che lo studioso ha svolto prendendo in esame alcune opere di autori di fondamentale importanza, come Leopardi, Manzoni, Verri, Cuoco, Cattaneo e Alfieri – considerati peraltro più in qualità di filosofi militanti e ideologi che di artisti –, i cui testi gli hanno consentito di gettare lo sguardo su un periodo storico determinante, in quanto capace di plasmare il nostro approccio al mondo moderno.
Va tuttavia messo in rilievo come Bollati, in questa sua indagine, delinei la storia di una sconfitta: il rovescio subìto dal pensiero illuminista in un Paese che si è rivelato incapace di emanciparsi dall’antico ed è quindi giunto impreparato ad affrontare le sfide alle quali veniva chiamato dall’avvento dei tempi nuovi. Un’incapacità che avrebbe dato luogo a conseguenze nefaste e di lunga durata.
L’analisi dello studioso, che rilegge i nostri grandi autori del Settecento e dell’Ottocento per arrivare a definire quell’«identità nazionale e storica» che si è contrapposta alla modernità europea, sembra non aver perso nulla in attualità e acutezza. Nata tra Illuminismo e lotta risorgimentale, l’ideologia relativa a tale identità si lascia riassumere nella sintesi di una «doppia coscienza» paralizzante: coscienza critica della decadenza-arretratezza, e orgogliosa coscienza di un passato culturale glorioso, nonché di un «primato morale e civile» da conservare e riconquistare.
Per il resto, l’inadeguatezza della nostra classe dirigente è ancora palese. Scrive al riguardo, nella sua lucida e documentata Prefazione, Alfonso Berardinelli: «L’insistenza precoce e tenace sulla “diversità” e la “specificità” italiane ha impedito alla nostra cultura di entrare nella modernità senza remore e senza pregiudizi. Le Rivoluzioni, quella industriale inglese e quella politica francese, furono accolte come una minaccia all’identità di una tradizione italiana sentita come sublimità estetica e morale» (p. XIV).
In altri termini, secondo il saggista, gli intellettuali italiani non sono stati in grado di comprendere la modernità sociale e politica; il loro culto dello stile – definito dall’A. il «demone della forma» – ha offuscato il dovere della conoscenza scientifica; il loro moralismo neoclassico e antimoderno li ha portati a giudicare negativamente tutto quanto non fosse eticamente inappuntabile; la loro concezione della storia li ha indotti a vederla alla stregua di un coacervo caotico e privo di senso. I nostri scrittori non sono riusciti, di conseguenza, a fornire un contributo volto ad accrescere la capacità dei ceti dirigenti di governare lo sviluppo economico e i conflitti sociali.
Sono temi, quelli sui quali ha riflettuto Bollati, che appaiono meritevoli di attenzione ancora oggi. Come sembra stimolante e rigoroso il suo pensiero, scorrevole e incisiva la sua prosa, ricco il suo lessico, lento e costante il ritmo del suo periodare, ragguardevole la forza delle sue argomentazioni.