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Il libro dei Giudici presenta la storia d’Israele dalla morte di Giosuè, che aveva condotto il popolo alla conquista della terra promessa, fino alle soglie dell’avvento della monarchia. Israele risiede nella terra che il Signore gli ha donato, ma a Canaan abitano ancora altri popoli, che rappresentano per Israele una spina nel fianco. In particolare, la parte centrale del libro è organizzata secondo una struttura che si ripete ciclicamente: quando Israele abbandona il Signore per servire altre divinità, Dio lo mette nelle mani dei nemici, che lo opprimono; allora Israele grida al Signore, che fa sorgere un giudice per salvare il suo popolo e stabilire un tempo di pace. I giudici guidavano Israele in nome e per conto del Signore.
Con la giudicatura di Gedeone (cfr Gdc 6–9) abbiamo i primi segni di un declino di tale istituzione. Se è vero che Gedeone rinuncia a essere re nonostante gli Israeliti glielo chiedano (cfr Gdc 8,22-23), egli mostra evidenti limiti. Infatti, agisce per vendetta personale, uccidendo sia coloro che non l’hanno aiutato sia chi ha causato la morte dei propri fratelli (cfr Gdc 8,13-21). In seguito, fa costruire un idolo con una parte del bottino ottenuto dalla vittoria contro i Madianiti (cfr Gdc 8,24-27), in un contesto che richiama il peccato del vitello d’oro (cfr Es 32). Infine, sposa molte donne, e da questo harem quasi regale nascono numerosissimi figli, ponendo le premesse di una lotta fratricida dopo la sua morte (cfr Gdc 8,30-31).
Il delitto di Abimelech
Abimelech, il cui nome significa «mio padre è re», è figlio di Gedeone e di una concubina. Alla morte del padre, egli si reca a Sichem, presso gli zii e la famiglia della madre, per cercare sostegno alle proprie pretese di «successione» nel governo d’Israele, nonostante la giudicatura non sia ereditaria, ma solo Dio abbia il potere di suscitare un giudice a servizio del suo popolo.
«Riferite agli orecchi di tutti i signori di Sichem: “Che cosa è meglio per voi: che vi governino settanta uomini, tutti i figli di Ierub-Baal[1], o che vi governi un solo uomo? Ricordatevi che io sono vostro osso e vostra carne”. I fratelli di sua madre riferirono su di lui a tutti i signori di Sichem tutte quelle parole, e il cuor loro si piegò a favore di Abimelech, perché avevano detto: “Egli è nostro fratello”» (Gdc 9,2-3).
Con abilità oratoria e astuzia politica Abimelech delinea un futuro migliore per il popolo attraverso il governo di un solo uomo. Al tempo stesso, per mezzo del legame di sangue, costruisce alleanze a partire dal suo clan. Pertanto, i suoi familiari lo sponsorizzano davanti ai leader di Sichem e li convincono, facendo leva sulla mozione degli affetti: «Egli è nostro fratello». Così Abimelech crea consenso attorno a sé e raccoglie finanziamenti con le offerte fatte a Baal, cioè a un idolo (cfr Gdc 8,33). In questo modo assolda sfaccendati e avventurieri (cfr Gdc 9,4), per portare a termine il suo drammatico disegno.
«Venne alla casa di suo padre, a Ofra, e uccise sopra un’unica pietra i suoi fratelli, figli di Ierub-Baal, settanta uomini. Ma Iotam, figlio minore di Ierub-Baal, rimase, perché si era nascosto. Tutti i signori di Sichem e tutta Bet-Millo si radunarono e andarono a proclamare re Abimelech presso il terebinto della Stele che è a Sichem» (Gdc 9,5-6).
La conquista del potere da parte di Abimelech passa attraverso la cruenta uccisione dei propri fratelli, ma uno di essi, il più piccolo, riesce a scappare. La prima investitura reale nella storia d’Israele è macchiata dal sangue: vengono trucidati 70 figli di Gedeone. Il numero è simbolico: infatti, 70 sono i componenti di tutta la famiglia del patriarca Giacobbe, che rappresentano la totalità del popolo d’Israele (cfr Gen 46,27; Es 1,5; Dt 10,22).
Abimelech, primo re, esprime il dramma della monarchia, che si trasforma in abuso di potere. Eppure, per il momento solo Sichem e Bet-Millo sono annoverate tra coloro che si affidano al novello re. Pertanto, parrebbe non esserci unità del popolo d’Israele attorno all’istituzione monarchica. Ironicamente, ma non troppo, Abimelech viene proclamato re dopo aver ucciso i propri fratelli, cioè al prezzo della loro vita, mentre il libro del Deuteronomio affermava una forma di regalità al servizio dei fratelli: «Costituirai sopra di te come re uno dei tuoi fratelli […]; il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi fratelli» (Dt 17,15.20). Inoltre, Abimelech è fatto re, ma non c’è nessuna iniziativa o investitura divina come per i giudici (cfr Gdc 3,7-9; 3,12-15; 4,1-4; 6,11-16; 11,29; 13,1-25). Infatti, in questa circostanza l’iniziativa appartiene esclusivamente agli uomini e alla loro arroganza.
La parabola di Iotam
In tutto questo Iotam, l’unico sopravvissuto tra i figli di Gedeone, riveste il ruolo di guastafeste. Mentre si sta svolgendo la funesta incoronazione, egli rappresenta l’unica voce che è ancora in grado di dire che il re è nudo. Dalla cima del monte Garizim pronuncia un māšal[2], cioè una parabola, che, avendo gli alberi quali protagonisti, si configura come una forte critica alla monarchia e come un ammonimento profetico che pone i signori di Sichem di fronte alle tragiche conseguenze della loro azione. L’olivo, il fico, la vite, il rovo e i cedri del Libano sono i protagonisti del celebre apologo.
«Gli alberi si misero in cammino per ungere un re su di essi. Dissero all’ulivo: Regna su di noi. Disse loro l’ulivo: Dovrei forse rinunciare al mio olio con il quale si onorano dèi e uomini, e andrò a ondeggiare sugli alberi? Dissero gli alberi al fico: Vieni tu, regna su di noi. Disse loro il fico: Dovrei forse rinunciare alla mia dolcezza e al mio buon frutto, e andrò a ondeggiare sugli alberi? Dissero gli alberi alla vite: Vieni tu, regna su di noi. Disse loro la vite: Dovrei forse rinunciare al mio mosto che rallegra dèi e uomini, e andrò a ondeggiare sugli alberi? Dissero tutti gli alberi al rovo: Vieni tu, regna su di noi. Disse il rovo agli alberi: Se in verità voi ungete me come re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano» (Gdc 9,8-15).
I frutti dell’olivo, del fico e della vite sono preziosi in tutto il Vicino Oriente antico e nell’area mediterranea. Pertanto, per tali alberi mettersi a regnare vuol dire perdere i propri frutti, cioè diventare sterili, agitandosi inutilmente a capo delle altre piante. Così alla fine sarà il rovo, una pianta non solo inutile e improduttiva[3], ma anche dannosa per le altre, a cui sottrae risorse vitali, che accetterà di essere re di tutti gli alberi per offrire sarcasticamente un’ombra tra le sue pungenti spine. Chiunque si ribellerà a esso verrà bruciato da questa pianta facilmente infiammabile, anche se fosse un albero possente come il cedro del Libano. La parabola di Iotam non solo parla della monarchia come istituzione deprecabile e nociva, ma anche della pericolosa e letale figura di Abimelech, il quale, oltre ad aver ucciso i propri fratelli, combatterà altre battaglie, bruciando vivi i suoi parenti sichemiti, quando si trasformeranno nei suoi nuovi nemici (cfr Gdc 9,46-49).
Successivamente Iotam spiega questa parabola, accusando i signori di Sichem di slealtà verso Gedeone/Ierub-Baal, da cui hanno ricevuto il bene, e verso la sua casa[4]. Abimelech non è presentato da Iotam come proprio fratello, ma denigrato come figlio della schiava di Gedeone[5], fratello dei Sichemiti e traditore del proprio sangue. Pertanto, l’aver supportato Abimelech e tradito la memoria di Gedeone sarà per Sichem causa di rovina. In aggiunta, il lettore sa già che Gedeone non solo ha rifiutato di regnare, ma ha anche espresso contrarietà rispetto al fatto che lo facciano i propri figli (cfr Gdc 8,23).
Il monito di Iotam è potente. Egli pronuncia una parola profetica su Abimelech e sui suoi alleati: «Esca da Abimelech un fuoco e divori i signori di Sichem e Bet-Millo ed esca dai signori di Sichem e da Bet-Millo un fuoco e divori Abimelech!» (Gdc 9,20).
Abimelech e i Sichemiti hanno davanti a sé un futuro di inimicizia, che li condurrà a un conflitto mortale. I signori di Sichem hanno riconosciuto il novello re come fratello (cfr Gdc 9,3 e 9,18), ma presto si divoreranno a vicenda, cruentemente violando ogni patto. In effetti, all’interno del racconto, l’apologo di Iotam anticipa la ribellione degli zii contro Abimelech e la cruenta distruzione di Sichem, che sarà rasa al suolo e cosparsa di sale (cfr Gdc 9,45). Il rovo Abimelech ha iniziato a bruciare gli alberi. Egli aveva cominciato dai propri fratelli, figli di suo padre, e continuerà ad appiccare il fuoco anche con gli zii e i parenti da parte di madre. Nell’epoca dei giudici, l’istituzione monarchica appena introdotta è già circondata da un’aura negativa a causa dei danni che arreca al popolo, a cominciare dai legami familiari che vengono recisi. Sichem era il luogo dell’alleanza tra Israele e il Signore dopo la conquista di Canaan (cfr Gs 24); Israele aveva scelto di servire il Signore che gli aveva donato la terra, abbandonando la tentazione dell’idolatria. Adesso i Sichemiti, scegliendosi un re, rigettano anche il Signore, affinché non sia più lui a regnare su di loro (cfr 1 Sam 8,7). Dopo aver pronunciato il suo discorso, Iotam scappa e si rifugia lontano da suo fratello (cfr Gdc 9,21).
I semi della discordia
Il regno di Abimelech sul popolo è di breve durata. Anch’egli, infatti, come il rovo si brucia rapidamente. «Abimelech dominò su Israele tre anni. Poi Dio mandò un cattivo spirito fra Abimelech e i signori di Sichem e i signori di Sichem tradirono Abimelech affinché venisse ripagata la violenza fatta ai settanta figli di Ierub-Baal e il loro sangue ricadesse su Abimelech loro fratello, che li aveva uccisi, e sui signori di Sichem, che avevano sostenuto la sua mano per uccidere i suoi fratelli» (Gdc 9,22-24).
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Nella narrazione biblica sono presenti due generi di causalità: quella divina e quella umana[6]. Pertanto, gli eventi sono il risultato sia dell’azione di Dio, in quanto Signore della storia, sia della libera iniziativa umana. Difatti, sono le azioni cruente messe in atto da Abimelech e dai padroni di Sichem che li conducono al disastro, ma, al tempo stesso, la Bibbia ci dice che Dio è presente e interviene inviando uno spirito cattivo (rûăḥ rā‘â) – segno che il Signore guida la storia –, che semina discordia tra gli alleati, portando alla caduta di Abimelech[7]. La doppia causalità implica un delicato equilibrio narrativo tra il coinvolgimento diretto o mediato di Dio e la libertà dell’uomo. Questa volta non è presente lo spirito che investe il giudice designato da Dio (si veda, ad esempio, Gdc 3,10; 6,34; 11,29), ma c’è un cattivo spirito inviato per seminare dissidi tra alleati.
Il tradimento e l’uccisione dei consanguinei perseguiteranno Abimelech e condurranno alla disfatta sia lui sia i Sichemiti. Il sangue versato è la causa del conflitto tra Abimelech e i signori di Sichem, e più avanti sarà il motivo della rovina definitiva del primo re (cfr Gdc 9,56), in una sorta di giustizia poetica[8] per l’uccisione dei propri fratelli.
A questo sommario segue il racconto di una serie di tradimenti, doppi giochi e complotti, che conducono tutti al disastro.
I signori sichemiti sono i primi a tradire Abimelech, tendendogli agguati (cfr Gdc 9,25) e poi maledicendolo (cfr Gdc 9,27). Successivamente Zebul, governatore della città, adirato con Gaal perché è stato offeso da lui, tradisce Gaal e i suoi fratelli, suoi alleati, consegnandoli con inganno ad Abimelech, che li sconfigge in battaglia assieme ai Sichemiti (cfr Gdc 9,30-41). Infine, a breve distanza di tempo, sarà la stessa città di Sichem a essere distrutta da Abimelech. L’epilogo è drammatico. I signori di Sichem si rifugiano nella cripta del tempio di El-Berit, dal quale avevano in precedenza sottratto denaro per finanziare le ambizioni di Abimelech (cfr Gdc 9,4), e ironicamente vengono bruciati vivi proprio dal figlio della concubina di Gedeone: «Tutti tagliarono ciascuno un ramo e seguirono Abimelech; li posero contro la cripta e appiccarono il fuoco alla cripta sopra di loro. Così morirono tutti gli uomini della torre di Sichem, circa mille persone, uomini e donne» (Gdc 9,49).
La fine del primo re
Le battaglie di Abimelech non terminano con la distruzione di Sichem, ma il racconto riprende con l’assedio di Tebes:«Abimelech giunse alla torre e l’attaccò e si avvicinò all’ingresso della torre per bruciarla con il fuoco. Ma una donna gettò giù il pezzo superiore di una macina sulla testa di Abimelech e spaccò il suo cranio. Egli chiamò in fretta il servo che portava le sue armi e gli disse: “Tira fuori la spada e uccidimi, perché non si dica di me: L’ha ucciso una donna!”. Il suo servo lo trafisse ed egli morì» (Gdc 9,52-54).
Anche in questa occasione Abimelech, come un rovo pungente, intende utilizzare il fuoco per uccidere i suoi nemici asserragliati nella torre, ma dall’alto una donna getta la parte superiore della macina da mulino sul capo del re, che viene gravemente ferito. Il Deuteronomio indica questa parte della macina come un oggetto non pignorabile, perché sarebbe come prendere in pegno la vita stessa di qualcuno, condannandolo alla fame (cfr Dt 24,6)[9]. Adesso, invece, la parte superiore della macina da mulino diventa strumento di morte per Gedeone e di vita per coloro che si erano rifugiati nella torre. Inoltre, come su una sola pietra erano stati uccisi i figli di Gedeone, ora da una sola pietra viene mortalmente colpito Abimelech.
A questo punto, il re chiede al suo scudiero di essere ucciso da lui per non dover morire ignominiosamente per mano di una donna[10]. Ironia della sorte, quest’ultimo desiderio di Abimelech resterà frustrato, perché nel racconto biblico egli sarà ricordato e menzionato dal re Davide proprio per essere stato ucciso da una donna[11].
A conclusione della storia del primo re, il narratore afferma: «Dio fece ricadere sopra Abimelech il male che egli aveva fatto contro suo padre, uccidendo settanta suoi fratelli. Tutto il male degli uomini di Sichem Dio fece ricadere sul loro capo. Venne su di loro la maledizione di Iotam, figlio di Ierub-Baal» (Gdc 9,56-57).
La parola profetica pronunciata da Iotam si realizza. Dio non lascia impunito il male commesso da Abimelech contro l’eredità paterna con l’uccisione di 70 fratelli. Il male causato dal re e dai Sichemiti si rivolta contro loro stessi, in un’ennesima lotta fratricida, perché i signori di Sichem avevano riconosciuto in Abimelech proprio un loro fratello (cfr Gdc 9,3.18). Non a caso il termine «fratello» risulta essere la parola chiave di tutta la narrazione, ricorrendo per ben 12 volte[12]. Si tratta, dunque, del racconto di una fraternità che si perverte e si trasforma drammaticamente in fratricidio, tutti contro tutti.
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Nella storia di Abimelech il male si autodistrugge. Il narratore è attento a indicare Dio come la causa che accompagna tutto il processo che inesorabilmente conduce il primo re d’Israele alla disfatta finale. Al tempo stesso, il Signore non offre alcuna investitura mediante il suo spirito, a differenza di quanto aveva fatto altrove nel libro dei Giudici. Eppure, il racconto ci mostra ugualmente come il male divori sé stesso e sia responsabile della propria rovina. Come il fuoco che esce dal rovo brucia nel medesimo tempo la sterpaia e gli altri alberi, così il male si autodistrugge. Abimelech consuma drammaticamente sé stesso e chi gli sta intorno. Per acquisire potere e diventare re, egli prima uccide i fratelli di sangue, e poi, per consolidare il proprio dominio, elimina coloro che si consideravano suoi fratelli, cioè i fratelli di sua madre, suoi alleati. Abimelech non è designato da Dio come giudice per liberare il popolo d’Israele, ma si fa proclamare re dai suoi complici. La conquista del potere diventa così un male all’ennesima potenza, perché uccide ogni fraternità possibile.
La Bibbia non ha paura di mostrare il male e le sue drammatiche conseguenze, per immunizzare il lettore, in modo che l’orrore in lui suscitato lo allontani dal seguire i passi scellerati di Abimelech che conducono alla morte. Il potere e una corona non valgono il prezzo del sacrificio della fraternità.
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[1]. Altro nome per indicare Gedeone.
[2]. La parola māšal è utilizzata per indicare dei detti in ambito sapienziale e potrebbe essere tradotta letteralmente con «confronto, paragone, proverbio o parabola».
[3]. Come afferma Gesù: «Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi?» (Mt 7,16; cfr Lc 6,44).
[4]. Questa grave accusa di Iotam trova conferma nelle parole del narratore affidabile e onnisciente, il quale, nel parlare del peccato del popolo, aveva utilizzato la stessa terminologia, sottolineando l’ingratitudine del popolo verso Gedeone e la sua famiglia: «[Gli Israeliti] non dimostrarono gratitudine alla casa di Ierub-Baal, cioè di Gedeone, per tutto il bene che egli aveva fatto a Israele» (Gdc 8,35).
[5]. Abimelech, che era stato presentato come figlio della concubina di Gedeone (cfr Gdc 8,31), adesso è retoricamente e provocatoriamente definito da Iotam «figlio della schiava». Come afferma Tammi J. Schneider: «È una svolta ironica, poiché Abimelech, il cui nome significa “mio padre è re”, era, secondo suo fratello, figlio di una schiava» (T. J. Schneider, Berit Olam: Judges, Collegeville, Liturgical Press, 2000, 143).
[6]. Su questo tema, cfr Y. Amit, «The Dual Causality Principle and its Effects on Biblical Literature», in Vetus Testamentum 37 (1987) 385-400; Id., «Dual Causality: An Additional Aspect», in Id. (ed.), In Praise of Editing in the Hebrew Bible. Collected Essays in Retrospect, Sheffield, Sheffield Phoenix Press, 2012, 105-121.
[7]. La Scrittura tiene conto del problema delle forze malvagie presenti nell’uomo e tra gli uomini: «[Lo spirito malvagio (rûăḥ rā‘â) sarebbe] una “mentalità” (“un atteggiamento mentale”), non un demone malvagio e neanche la rûăḥ di Dio. La causa efficiente divina, espressa col verbo “inviare”, […] illustra semplicemente un principio teologico generale: Dio guida le azioni dell’uomo, così che la loro opera malvagia ricada su di loro» (S. Tengström, «rûăḥ», in Grande Lessico dell’Antico Testamento, VIII, 290).
[8]. Per «giustizia poetica» si intende una convenzione narrativa per cui il giusto è ricompensato, mentre il malvagio è punito. Sulla presenza di questo fenomeno nel racconto biblico, cfr L. Ryken – J. C. Wilhoit – T. Longman III (edd.), Le immagini bibliche. Simboli, figure retoriche e temi letterari della Bibbia, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2008, 673-675.
[9] . Cfr T. J. Schneider, Berit Olam: Judges, cit., 148.
[10]. Come era già accaduto a Sisara, ucciso per mano di Giaele (cfr Gdc 4,21).
[11]. «Chi ha ucciso Abimelech figlio di Ierub-Baal? Non fu forse una donna che gettò su di lui il pezzo superiore di una macina dalle mura, così che egli morì a Tebes?» (2 Sam 11,21).
[12]. Cfr Gdc 9,1.3.5.18.21.24.26.31.41.56.