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La complessità «dei gesti viventi», pur nella loro apparente semplicità, è il centro focale di questo libro dell’antropologo e gesuita francese Marcel Jousse (1886-1961). Nato da una famiglia praticamente analfabeta, l’autore ha fatto esperienza diretta degli atti concreti e simbolici di contadini che, se osservati bene e al di là degli stereotipi intellettualistici, rivelavano una sorta di memoria ancestrale, una vera e propria cultura.
Perché una delle teorie dell’autore – che si era recato a studiare le tribù amerinde, alcuni popoli africani e la cultura arcaica palestinese, specie quella coeva a Gesù – è che i movimenti del cullare e dell’abbracciare, il soffiare e l’articolare le parole rispecchiano i movimenti del cosmo intero. Ipotesi affascinante, che però è stata messa in discussione da gran parte della cultura occidentale, perché sospettata di essere irrazionale e priva di fondamenti.
Fatto sta che scrittori come Joyce hanno attinto al magistero dell’autore, frequentando le sue lezioni alla Sorbona: è quanto accadeva in quegli stessi anni a un altro pensatore, Henri Bergson, uno degli artefici della reazione al materialismo deterministico, tra l’altro assai citato in questo testo.
Il libro rivaluta la cultura orale contadina, quella che si basa su schemi ritmici e formulari che, come notava l’autore ascoltando da bambino i canti popolari e le ninne nanne, sono carichi di una quantità impressionante di informazioni, religiose, civili, legate al ciclo reale della natura.
Questa rivalutazione della saggezza contadina porta Jousse verso i tempi e i luoghi della predicazione di Gesù, di quel Rabbi Yhoshũa che mostra, con il suo stesso sacrificio, una sorta di ripetizione sacra «dell’organismo bilaterale di quell’essere che, a colpi di martelli e di chiodi, è stato bilateralizzato sulla croce romana» (p. 329).
La figura di Cristo è vista qui come compendio esemplare di una cultura che era un tutt’uno con i ritmi della natura. La vita di Gesù, scrive l’autore, «è un’immensità contadina ancora intatta e che si dilata man mano che la si maneggia con mani degne» (p. 331). L’insegnamento di Cristo è ripercorso alla luce dell’oralità sapiente, poi ricondotta a schemi più scolastici nelle trascrizioni e nelle interpretazioni derivanti dalle «letture» greco-romane.
Risalire alle origini aramaiche del Maestro è entrare in contatto con le formulazioni a ritmo ternario che l’autore ravvisa nella tradizione orale, lo stesso arcaico dondolamento che egli legge in Omero, prima dell’invenzione della scrittura.
Da questo punto di vista, ecco un ulteriore elemento di differenziazione rispetto alle scuole etnologiche e antropologiche che ponevano rigidi steccati tra culture semitiche e indoeuropee: un’antica mimesi – un «ri-gioco», come lo chiama l’autore – è alla base non solo della cultura, ma anche della stessa bergsoniana durata, fatta di oralità e di tradizione, di dialogo e rispetto per la diversità apparente di quegli illetterati figli della terra che sono in realtà i suoi custodi e che, nei loro stessi movimenti «bilaterali», sono cantori non retorici né letterati della sua bellezza e del suo senso.
La parola chiave per capire questa idea, che oggi molti chiamerebbero «olistica», è il neologismo joussiano «intussuscepzione», che proviene dal latino intus («dentro»), e suscipere («cogliere»): come noi assimiliamo il cibo, così immettiamo dentro di noi, attraverso i gesti, l’intero movimento dell’universo.
Leggendo le opere di Joyce, quel fluire di monologhi interminabili che mimano il succedersi disordinato del pensiero in libertà, presente nello stream of consciousness («flusso di coscienza») di Virginia Woolf, osservando alcune testimonianze artistiche astratte o futuriste, o legate ad alcune correnti delle avanguardie tra fine Ottocento e Novecento, ci rendiamo conto che quello di Jousse è certamente parte dello spirito del tempo, e che però va oltre, per attingere alle basi comuni in cui anthropos e natura rivelano un’antica, divina comunione.
MARCEL JOUSSE
L’antropologia del gesto
Milano, Mimesis, 2022, 428, € 32,00.