
Dal 1948 a questa parte, le due parole «ebreo» e «arabo», se pronunciate nella stessa frase, evocano poli opposti: suggeriscono reciproca sfiducia e inimicizia, guerra e violenza, segnalano un presunto abisso incolmabile. È il momento di ricordare che non è sempre stato così.
La storia degli ebrei nelle terre arabe, a ben vedere, mostra che c’è stato un tempo prima che gli ebrei fossero contro gli arabi, e prima che gli arabi fossero contro gli ebrei; un tempo in cui un ebreo poteva anche essere un arabo. Gli ebrei nei Paesi arabi non solo parlavano arabo, ma erano parte integrante della civiltà araba e vi hanno dato il loro specifico contributo.
Prima del 1948, infatti, circa un milione di ebrei di lingua araba erano di casa nei Paesi che si estendevano dal Marocco all’Iraq. C’erano importanti centri ebraici a Casablanca, Tunisi, Tripoli, Il Cairo, Alessandria, Sana’a, Beirut, Damasco, Aleppo e Baghdad, non meno che a Gerusalemme, Ebron, Giaffa e Tiberiade.
Quando, poco tempo fa, coloni ebrei hanno devastato la città di Huwara, vicino a Nablus nella Palestina occupata da Israele, come vendetta per l’assassinio di due israeliani in quella zona, è successo qualcosa di sorprendente: tra i membri della coalizione di governo, c’erano più voci che giustificavano quella crudeltà contro i palestinesi di quante ce ne fossero a condannarla.
Tra coloro che hanno condannato l’orrore c’erano però diversi membri del partito religioso ebraico Shas, un segmento affascinante della mappa politica israeliana. Recentemente nominato ministro dell’Interno e della Sanità, il rabbino Moshe Arbel, attivo nello Shas fin dalla giovinezza, è stato inequivocabile nel condannare la violenza, sfidando i suoi colleghi di coalizione che hanno appoggiato l’azione dei coloni.
Nel 1999, all’apice del suo successo elettorale, Shas ottenne 17 seggi su 120 (14%) alla Knesset; nell’attuale coalizione di governo ha 11 seggi…