Dal 1948 a questa parte, le due parole «ebreo» e «arabo», se pronunciate nella stessa frase, evocano poli opposti: suggeriscono reciproca sfiducia e inimicizia, guerra e violenza, segnalano un presunto abisso incolmabile. È il momento di ricordare che non è sempre stato così. La storia degli ebrei nelle terre arabe, a ben vedere, mostra che c’è stato un tempo prima che gli ebrei fossero contro gli arabi, e prima che gli arabi fossero contro gli ebrei; un tempo in cui un ebreo poteva anche essere un arabo. Gli ebrei nei Paesi arabi non solo parlavano arabo, ma erano parte integrante della civiltà araba e vi hanno dato il loro specifico contributo. Prima del 1948, infatti, circa un milione di ebrei di lingua araba erano di casa nei Paesi che si estendevano dal Marocco all’Iraq. C’erano importanti centri ebraici a Casablanca, Tunisi, Tripoli, Il Cairo, Alessandria, Sana’a, Beirut, Damasco, Aleppo e Baghdad, non meno che a Gerusalemme, Ebron, Giaffa e Tiberiade.
Quando, poco tempo fa, coloni ebrei hanno devastato la città di Huwara, vicino a Nablus nella Palestina occupata da Israele, come vendetta per l’assassinio di due israeliani in quella zona, è successo qualcosa di sorprendente: tra i membri della coalizione di governo, c’erano più voci che giustificavano quella crudeltà contro i palestinesi di quante ce ne fossero a condannarla. Tra coloro che hanno condannato l’orrore c’erano però diversi membri del partito religioso ebraico Shas, un segmento affascinante della mappa politica israeliana. Recentemente nominato ministro dell’Interno e della Sanità, il rabbino Moshe Arbel, attivo nello Shas fin dalla giovinezza, è stato inequivocabile nel condannare la violenza, sfidando i suoi colleghi di coalizione che hanno appoggiato l’azione dei coloni. Nel 1999, all’apice del suo successo elettorale, Shas ottenne 17 seggi su 120 (14%) alla Knesset; nell’attuale coalizione di governo ha 11 seggi. Nonostante questo partito negli ultimi anni abbia mostrato abitualmente di essere allineato al nazionalismo ebraico di destra, i suoi membri hanno talvolta sorpreso gli osservatori politici per la moderazione e l’apertura al dialogo con gli arabi in generale e con i palestinesi in particolare. Shas, acronimo di Shomrei Sefarad (Guardiani sefarditi), è stato fondato nel 1984 per protestare contro l’impari rappresentanza nei partiti politici degli ebrei orientali (mizrahim), spesso chiamati sefarditi[1], ovvero quelli originari del mondo musulmano: infatti la guida delle formazioni politiche è in mano, per lo più, a ebrei originari dell’Europa orientale e centrale (i cosiddetti «ashkenaziti»).
Prima che gli ebrei fossero contro gli arabi, e viceversa, c’è stato un tempo in cui un ebreo poteva anche essere un arabo.
Uno dei rabbini ortodossi orientali più noti in Israele, Ovadia Yosef, è stato fino alla sua morte la forza trainante del partito. Nato nel 1920 in Iraq, a Baghdad, da una famiglia di ebrei di lingua araba, gli era stato dato il nome di Abdallah, versione araba del nome ebraico Ovadia, che significa «servo di Dio». Quando aveva quattro anni si trasferì con i genitori a Gerusalemme e a suo tempo fu iscritto a una scuola ultra-ortodossa. Poiché eccelleva negli studi religiosi e la sua fama si era diffusa, fu promosso rabbino all’età di vent’anni. Poco dopo, nel 1947, fu inviato al Cairo per dirigere la comunità ebraica nella più grande città del mondo arabo. Tornò appena due anni dopo, per ritrovarsi cittadino del nuovo Stato di Israele. Yosef si fece strada nella gerarchia rabbinica, che nel 1921 era stata scissa in due dagli inglesi: una parte guidata da un rabbino capo ashkenazita e l’altra da uno sefardita. Mentre l’élite politica, sociale ed economica del Paese era composta prevalentemente da ashkenaziti, la migrazione di centinaia di migliaia di mizrahim in Israele, per lo più di lingua araba e provenienti dalle terre tra il Marocco e l’Iraq, cambiò la composizione della popolazione ebraica. Dopo aver prestato servizio come giudice religioso in diverse località, Yosef divenne rabbino capo sefardita di Tel Aviv nel 1968 e cinque anni dopo fu nominato rabbino capo sefardita di Israele, carica che ha ricoperto per dieci anni.
Una volta cessato il ruolo di rabbino capo, nel 1983, si è maggiormente coinvolto nell’arena politica, fondando Shas. Gli ebrei orientali gli apparivano svantaggiati, esclusi dai centri di potere, discriminati, spesso umiliati per via della loro cultura mediorientale non europea. Shas è stato fondato in parte come espressione del disaccordo con l’establishment politico ashkenazita, ma anche per contrastare l’atteggiamento delle troppe persone secondo cui gli ebrei di lingua araba erano in qualche modo inferiori agli ebrei ashkenaziti. Yosef ha cercato di restituire a questi ebrei la loro dignità perduta. Insisteva sul fatto che gli ebrei di lingua araba avevano un passato non meno glorioso degli ebrei d’Europa, ed era orgoglioso della cultura araba di cui lui stesso era espressione. Se ne è vista un’affascinante dimostrazione nel luglio 2019, quando un elenco dei canti preferiti del rabbi Ovadia Yosef in arabo, scritto di suo pugno, è stato venduto all’asta per oltre 6.000 dollari. Chi legge quella lista può constatare come il rabbino amasse soprattutto la musica di Muhammad Abd al-Wahab (1902-1991), grande compositore e cantante egiziano del Novecento, famoso per i suoi inni romantici e patriottici.
Gli ebrei orientali potevano vantare epoche d’oro della simbiosi arabo-ebraica in regioni come l’Iraq, l’Egitto, il Marocco e l’Andalusia. Quella cultura aveva prodotto alcune delle più grandi menti della storia ebraica, come Saadya Gaon (Sa’d ben Yossef al-Fayumi), egiziano del X secolo, traduttore, filosofo, teologo e liturgista, e come Mosè Maimonide (Musa ben Maimon), andaluso del XII secolo, medico, filosofo, giurista e commentatore, per citare solo due geni tra una miriade di luminari. Gli ebrei orientali in Medio Oriente non erano migranti, ma piuttosto indigeni, integrati nel mondo a maggioranza musulmana insieme ai cristiani di lingua araba. Incarnavano il retaggio secolare di un giudaismo che si esprimeva tranquillamente in arabo.
Quel retaggio arabo-ebraico risale agli albori della civiltà araba. Troviamo tracce di ebrei di lingua araba anche prima dell’ascesa dell’islam nel VII secolo. Alcuni ebrei dello Yemen hanno fatto risalire la loro presenza nella penisola arabica ai tempi del Primo Tempio. Una dinastia araba di ebrei convertiti, gli himyariti, stabilì un regno in Arabia nel V secolo. Il profeta dell’islam, Maometto, aveva relazioni complesse con le tribù ebraiche in Arabia, oscillanti tra l’amicizia e l’ostilità. La traduzione in arabo delle Scritture ebraiche a opera di Saadia Gaon nel IX secolo fu un capolavoro, successivamente adottato (con modifiche teologiche) dalla Chiesa copta. Il suo manuale di grammatica araba era studiato in tutto il mondo arabo. Nel XII secolo Maimonide, che Tommaso d’Aquino cita nelle sue opere, fu uno dei più importanti esponenti della scuola filosofica razionalista che si sviluppò allora nel mondo arabo musulmano.
Come molti altri, questi intellettuali nei loro scritti usavano tre lingue: l’ebraico (per la complessità della legge e della pratica ebraica), l’arabo (per le opere teologiche e filosofiche rivolte a tutto il mondo arabo) e il giudeo-arabo (per le opere popolari destinate alla comunità ebraica). Il giudeo-arabo, una versione dell’arabo trascritta secondo l’alfabeto ebraico, è a sua volta un tesoro dimenticato di questa eredità. Si pone in parallelo con la più nota scrittura ebraica del tedesco, che usa le stesse lettere, nota come yiddish e usata nell’Europa orientale, e con il ladino, il giudeo-spagnolo ebraico, usato dagli ebrei originari dell’Andalusia. Gli ebrei continuarono a usare il giudeo-arabo fino al XX secolo e molti volumi di filosofia, teologia, scienza, poesia, canto e comunicazioni della comunità attestano la ricchezza di questa forma ebraica dell’arabo.
Solo dopo la caduta dell’Impero ottomano, nel 1918, si è configurata la maggior parte dei Paesi arabi del Medio Oriente contemporaneo. Gli ebrei hanno preso parte alla vita politica, sociale, culturale ed economica di quelle società in via di sviluppo insieme ai loro compatrioti musulmani e cristiani. Gli ebrei di lingua araba spiccavano in vari ceti sociali e qui dobbiamo accontentarci di qualche esempio tratto dalla politica e dalla cultura popolare:
- Eskell Sassoon (1860-1932), ministro delle Finanze iracheno e membro del Parlamento iracheno fino alla sua morte.
- Youssef Qattawi (1861-1942), ministro egiziano delle Finanze e poi dei Trasporti.
- David Samra (1878-1960), vicepresidente della Corte suprema irachena.
- Henri Curiel (1914-1978), fondatore del Partito comunista egiziano, assassinato a Parigi.
- Abraham Serfaty (1926-2010), leader dell’opposizione marocchina al re Hassan II, che ha trascorso più di due decenni in prigione come detenuto politico.
- André Azoulay (nato nel 1941), intimo consigliere dei re Hassan II e Muhammad VI in Marocco.
- Huda Ezra Nonoo (nata nel 1964), ambasciatrice del Bahrein negli Stati Uniti.
- Daoud Hosni (1870-1937), compositrice egiziana.
- Habiba Msika (1893-1930), cantante tunisina.
- Fayruz al-Halabiya (Rachel Smuha) (1895-1955), cantante siriana di Aleppo, che ispirò la rinomata cantante libanese Nouhad Haddad, nota anche come Fayruz.
- Togo Mizrahi (1901-1986), regista e attore egiziano.
- Zohra al-Fassiya (1905-1994), cantante marocchina alla corte del re Muhammad V.
- Salih (1908-1986) e Daud al-Kuwaiti (1910-1976), musicisti di spicco e fondatori della prima orchestra radiofonica irachena.
- Salima Mourad (1912-1974), popolare cantante irachena.
- Cheikh Raymond (Raymond Leyris) (1912-1961), maestro algerino della musica andalusa, suonatore di oud e cantante, assassinato durante la guerra civile algerina.
Forse più presente alla memoria nel mondo arabo oggi è Leila Mourad (1918-1995), attrice e cantante egiziana, che ha recitato in molti film romantici del suo Paese e si è convertita all’islam quando ha sposato il noto regista egiziano Anwar Wagdi.
L’istituzione dello Stato di Israele ha destabilizzato il mondo arabo di cui gli ebrei orientali erano membri a pieno titolo. Come per tutte le minoranze, epoche d’oro di tolleranza, convivenza e creatività si sono alternate ad altre di disagio, emarginazione e oppressione. Nel XX secolo gli emissari del movimento sionista dominato dagli ashkenaziti, politico e prevalentemente laico, esercitarono forti pressioni sugli ebrei orientali, invitandoli a ridefinire la loro identità, a immedesimarsi nel nazionalismo ebraico e nell’idea che la loro vera patria era la Palestina/Israele. L’appello a migrare in Palestina/Israele era spesso inquadrato in termini messianico-religiosi che trovavano eco presso molti ebrei orientali, i quali mantenevano uno stile di vita ebraico tradizionale e speravano in una riunione del popolo ebraico a Sion (Gerusalemme) alla fine dei tempi. Il discorso politico sionista, fondato sulla necessità di reagire all’antisemitismo europeo del XIX e del XX secolo, culminato nell’Olocausto, assimilò l’esperienza degli ebrei orientali a quella degli ebrei europei. La storia ebraica era vista come una lunga e tragica vicenda di vittimizzazione e anche gli ebrei orientali venivano invitati, a loro volta, a vedere la propria come una triste storia di persecuzione endemica. Rafforzando questa tendenza, negli anni Quaranta alcuni leader arabi, mossi principalmente da una reazione a quello che percepivano come un colonialismo sionista in Palestina, iniziarono a identificare quegli ebrei orientali indigeni come simpatizzanti del sionismo. In alcuni luoghi del Medio Oriente vi furono esplosioni di violenza contro gli ebrei, tra le quali i massacri contro gli ebrei indigeni a Hebron, in Palestina, nel 1929 e a Baghdad nel 1941. Intrappolati tra il sionismo europeo e il nazionalismo arabo, centinaia di migliaia di ebrei orientali fecero i bagagli e lasciarono le loro antiche patrie.
Molti di coloro che arrivarono in Israele alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta rimasero sconvolti dalla società prevalentemente laica ed europea che vi trovarono. Spesso venivano trasportati in campi di transito improvvisati, registrati con nuovi nomi ebraici per liberarli da quelli arabi, e venivano trattati come se non fossero completamente ebrei, tantomeno del tutto civilizzati, a causa della loro tradizionale pratica ebraico-araba e della loro cultura araba. L’umiliazione che subirono costituì un trauma, e molti incolparono l’élite laica socialista ashkenazita che governò Israele dal 1948 al 1977.
Quando i socialisti furono sconfitti nel 1977, molti ebrei orientali, che all’epoca costituivano più della metà della popolazione ebraica in Israele, non solo contribuirono alla sconfitta con il loro voto, ma abbracciarono inoltre l’ideologia della destra israeliana guidata da Menachem Begin. Prese campo un nazionalismo più acceso, che tra l’altro rifiutava di scendere a compromessi con i palestinesi ed era animato da un atteggiamento di sfida nei confronti del mondo arabo in generale. Tuttavia, tra gli ebrei orientali questo diffuso sentimento anti-arabo era accompagnato da non poca ambivalenza, dato che dopotutto erano culturalmente radicati nel mondo arabo. Non solo si erano trovati a loro agio nel mondo arabo, che ora vedevano con inimicizia e disprezzo, ma si sentivano anche discriminati a causa delle proprie radici culturali arabe. Sebbene riluttanti ad essere identificati come arabi, nemici di Israele per definizione, stavano anche progressivamente riscoprendo l’orgoglio per la loro particolare eredità religiosa, sociale, culturale e culinaria ebraico-araba.
Il rabbino Ovadia Yosef e i suoi giovani protetti di Shas hanno spesso rivelato questa ambivalenza, manifestata in un continuo alternarsi di sfoghi di beffardo disprezzo – in particolare dopo gli attacchi arabi agli ebrei o le diatribe estremiste musulmane contro l’ebraismo – e la promozione del dialogo e della pace con il mondo arabo. Da un lato, per esempio, nel 2001 Yosef dichiarò a proposito degli arabi: «È proibito essere misericordiosi con loro. Bisogna annientarli a colpi di missili. Sono malvagi ed esecrabili» (The Telegraph, 10 aprile 2001); allo stesso modo, nel 2009, commentò a proposito dei musulmani che «la loro religione è brutta quanto loro» (Maariv, 14 dicembre 2009). E nel 2010 disse dei palestinesi: «Tutta questa gente malvagia dovrebbe scomparire da questo mondo. Dio dovrebbe colpirli con un castigo» (al-Jazeera, 29 agosto 2010).
Dall’altro lato, nonostante queste dichiarazioni al vetriolo, è stato lo stesso Yosef che nel 1989 ha approvato una sentenza legale religiosa tramite la quale consentiva di rinunciare a parti della Terra d’Israele, compresi gli insediamenti ebraici, quando erano in gioco delle vite umane. Su questa base ha sostenuto il governo Rabin, che ha firmato gli accordi di pace di Oslo con i palestinesi secondo il principio dei «due Stati per due popoli». Yosef e il suo discepolo Aryeh Deri, attuale capo di Shas, si recarono in Egitto nel 1990 per discutere iniziative di pace con il presidente Hosni Mubarak. Destò stupore, in particolare, che i leader israeliani dialogassero con quelli arabi regionali in arabo, lingua madre degli uni e degli altri. Si dava con ciò un’immagine molto diversa di israeliano, solitamente percepito dagli arabi come un colonialista europeo. Poco dopo Yosef ordinò a Shas di unirsi al governo di coalizione di Rabin, che stava negoziando con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), sfidando molti dei rabbini ashkenaziti di Israele. Yosef si offrì di incontrare personalmente il capo dell’Olp Yasser Arafat, e i suoi incontri con il capo della polizia palestinese Nasser Yusuf hanno probabilmente salvato vite su entrambi i fronti del conflitto. Successivamente, sfidando ancora una volta la destra religiosa, Yosef biasimò i coloni israeliani che si erano impadroniti delle abitazioni palestinesi a Gerusalemme est e minacciò di far cadere il governo se il primo ministro Netanyahu non avesse ridistribuito le truppe nei territori occupati, come era stato concordato a Oslo.
Le sfuriate emotive e reattive di Yosef si sono intrecciate con il linguaggio del dialogo con il mondo arabo musulmano, incomprensibile a molti analisti politici. Tre settimane dopo le dichiarazioni ostili sui palestinesi che aveva pronunciato nel 2010, ribadì il suo sostegno al processo di pace. Nel suo messaggio, scrisse al presidente dell’Egitto: «Sostengo i vostri sforzi e lodo tutti i leader e i popoli – egiziani, giordani e palestinesi – che vi si associano. Auguro il successo di questo importante processo volto a raggiungere la pace nella nostra regione e a prevenire spargimenti di sangue. Dio vi conceda la longevità e che possiate riuscire nei vostri sforzi per la pace e che nella nostra regione ci sia pace»[2].
Di recente, nel gennaio 2023, in una conferenza di ebrei israeliani religiosi che sostengono il processo di pace con i palestinesi, la figlia di Yosef, Adina bar-Shalom, si è rivolta ai presenti con queste parole: «Contrariamente a quanto molti hanno affermato, mio padre non ha mai cambiato posizione […]. Dichiarazioni estreme, il sostegno a politiche discriminatorie e il razzismo hanno alzato la testa e si sono trasformati in uno spettacolo comune […]. Insisto sul fatto che questa non è la via della Torah, e non è la via del mondo ultra-ortodosso […]. Non è così che siamo stati educati»[3]. Quando Yosef è morto, nel 2013, il suo funerale è stato ritenuto il più imponente a cui Israele avesse mai assistito. In quell’occasione, il partito radicale sciita libanese Hezbollah, tramite il suo organo di informazione al-Manar, sottolineò pesantemente l’attrito tra l’educazione di Yosef come ebreo di lingua araba e la sua presunta ostilità verso gli arabi: «La morte del rabbino Ovadia Yosef: l’arabo sionista che odiava gli arabi».
Il 29 settembre 2019, all’età di 89 anni, è venuto a mancare un altro ebreo di Baghdad, Shimon Ballas, prolifico scrittore israeliano e docente di letteratura araba all’Università di Haifa. Come Yosef, anche lui era nato nella capitale irachena, e nel 1951 era approdato da giovane in Israele. A differenza di Yosef, Ballas era un intellettuale laico e, in gioventù, si identificò con il Partito comunista. Per tutta la vita, Ballas si è definito un arabo ebreo. Nella sua autobiografia, First Person Singular, pubblicata in ebraico nel 2009, ha descritto in modo toccante come, circa un decennio dopo essere arrivato nel suo Paese di adozione, aveva costretto sé stesso ad abbandonare la sua lingua madre, l’arabo, e aveva iniziato a scrivere in ebraico, la lingua ebraica dello Stato di Israele: «Mi dedicai alla lettura sistematica della Bibbia in ebraico e della Mishnah [compendio rabbinico del III secolo, nda]. Un’altra decisione che mi preoccupai di adottare fu smettere di leggere qualsiasi libro o giornale in arabo. Evitavo persino di ascoltare le trasmissioni radiofoniche in arabo. Decisi infatti di separarmi dall’arabo, anche di dimenticarlo, per fare dell’ebraico la mia prima lingua. Questo processo durò circa due anni. Una sera, prima di andare a letto, presi un libro di Taha Hussein [eminente scrittore egiziano del XX secolo] per verificare qualcosa. Dopo aver spento le luci, fui assalito da un impetuoso torrente di parole, di frasi, di versi poetici, tutti in arabo, come da una diga scoppiata all’improvviso. Il sonno venne esiliato dai miei occhi fino alle prime ore del mattino. Avevo sperimentato in me la rivincita dell’arabo, così me lo spiegai: una giusta punizione per aver voltato le spalle alla mia amata e calda lingua madre»[4].
Uno dei personaggi letterari più sorprendenti di Shimon Ballas è Ahmad (Harun) Shushan, protagonista del suo romanzo He is Different, pubblicato nel 1991. Il libro apparve ai tempi della prima guerra del Golfo. È la storia di un ebreo iracheno che, invece di abbandonare la sua amata patria, l’Iraq, insieme alle masse di ebrei che se ne andarono all’inizio degli anni Cinquanta decise di convertirsi all’islam e in seguito entrò nel partito Baathi iracheno al potere. Una volta Ballas ha spiegato che Ahmad/Harun era il suo alter ego, la persona che lui avrebbe potuto essere se fosse rimasto in Iraq. In un’intervista a un giornale locale di Gerusalemme, nel marzo 1991, nel bel mezzo dei bombardamenti alleati su Baghdad, Ballas dichiarò commosso: «Non ho mai rinnegato le mie origini arabe o la lingua araba […]. L’identità araba è sempre stata una parte di me. E ho detto e dico: io sono un arabo che ha assunto un’identità israeliana, ma non sono meno arabo di qualsiasi altro arabo. Questo è un dato di fatto e non ho nulla di cui vergognarmi. […] Ci sono ebrei arabi così come ci sono ebrei francesi. Come mai un cristiano può essere arabo e un ebreo no?»[5]. Nei suoi scritti, Ballas ricorda che il Medio Oriente non era e non dev’essere una zona di guerra perpetua.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
Per il Medio Oriente la guerra in Palestina del 1948 ha avuto due conseguenze tragiche. Innanzitutto è stata la genesi della crisi dei rifugiati arabi palestinesi, allorché centinaia di migliaia di persone vennero cacciate via dalle loro case e non fu loro permesso di tornarci. In secondo luogo, provocò la rapida e quasi totale estinzione delle comunità arabe ebraiche in Iraq, Siria, Libano, Yemen, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria e Marocco, quando i loro componenti lasciarono le loro case nel decennio successivo alla costituzione dello Stato di Israele. Per quanto la catastrofe del popolo palestinese sia nota a molti, ben pochi invece sono consapevoli della tragedia degli ebrei nel mondo arabo. La collusione tra i sionisti prevalentemente ashkenaziti e i regimi arabi negli anni Quaranta e Cinquanta ha promosso il trasferimento di molti di quegli ebrei in Israele, sebbene molti altri si siano invece stabiliti nell’Europa occidentale, nel Nordamerica e altrove. La maggior parte dei regimi arabi non ha fatto nulla per incoraggiare i propri cittadini ebrei a restare, anzi a volte ha fatto di tutto per affrettarne la partenza, confiscandone le proprietà e annullandone la cittadinanza. La millenaria civiltà arabo-ebraica, un tempo fiorente, è quasi completamente scomparsa.
Questi due dislocamenti, che fanno parte della tragica storia del Medio Oriente alla metà del XX secolo, non dovrebbero essere evocati come se si annullassero reciprocamente. Gli ebrei di lingua araba che si sono trasferiti in Israele hanno per la maggior parte trovato una nuova casa, mentre gli arabi palestinesi rimangono dispersi in una diaspora remota o vivono sotto un regime di occupazione e/o discriminazione.
Oggi gli unici Paesi arabi dotati di consistenti comunità ebraiche sono il Marocco e la Tunisia; altrove invece sussiste un piccolo numero di ebrei, spesso celato agli occhi della pubblica vista. Tuttavia, anche coloro che sono emigrati in Israele non hanno sempre avuto vita facile. Nel 1959, dopo la massiccia immigrazione di ebrei orientali in Israele, scoppiarono proteste nel quartiere Wadi Salib di Haifa, che si estesero ad altre città dove pure c’erano forti concentrazioni di ebrei di lingua araba. Le contestazioni riguardavano la diffusa discriminazione e il razzismo che costoro incontravano in un Paese dominato dalle élite ashkenazite. Nel 1971 a Musrara, un quartiere povero di Gerusalemme, si formò un movimento di protesta di ebrei orientali, per lo più provenienti dal Marocco, chiamato Black Panthers, in ricordo del movimento contestatore dei neri americani che lottavano per la parità di diritti negli anni Sessanta. I manifestanti scesi in piazza chiedevano alle autorità israeliane di porre fine alla discriminazione contro gli ebrei orientali. Shas ha proseguito questa lotta, anche se non ha certo abbracciato il laicismo che ha caratterizzato i manifestanti nei decenni passati. È interessante notare che il recupero delle proprie tradizioni religiose ebraiche orientali avvicina i suoi seguaci a molti arabi musulmani in Palestina e in tutto il mondo arabo, aprendo la possibilità del dialogo e della cooperazione.
Ella Shohat, importante studiosa della cultura, dell’identità e della storia degli ebrei nelle terre arabe, a sua volta figlia di ebrei iracheni, ha scritto: «Spogliati della nostra storia, siamo stati costretti dalla nostra situazione senza uscita a reprimere la nostra nostalgia collettiva, almeno nella sfera pubblica. La nozione pervasiva di “un solo popolo” riunito nell’antica patria agisce incessantemente per rimuovere ogni dolce ricordo della vita prima di Israele. Non ci è mai stato permesso di piangere un trauma che, davanti alle immagini della distruzione dell’Iraq, in alcuni di noi si è intensificato e cristallizzato. La nostra creatività culturale in arabo, ebraico e aramaico è poco studiata nelle scuole israeliane, e sta diventando difficile convincere i nostri figli che esistevamo davvero laggiù e che alcuni di noi sono ancora lì in Iraq, in Marocco e nello Yemen»[6].
Negli ultimi anni, alcuni discendenti degli ebrei provenienti dal mondo arabo in Israele stanno recuperando le proprie radici sociali, culturali e religiose nel mondo arabo. C’è un risveglio di interesse soprattutto per le tradizioni musicali, religiose e culinarie di un mondo ebraico che per secoli è stato parte integrante del Medio Oriente arabo. Un nuovo impegno verso le proprie radici culturali muove alcuni a cercare un dialogo più profondo con i loro vicini palestinesi e arabi.
Concludendo un suo studio sulla cultura levantina, After Jews and Arabs, il critico letterario Ammiel Alcalay afferma: «Idealizzare e romanticizzare questa memoria sembra un tentativo altrettanto futile e fallimentare di quanto sia quello di appropriarsene e pervertirla. Ma non setacciare le sue particolarissime qualità, fino a tracciare una mappa basata sulla conoscenza contraddittoria che si può dedurre dal flusso degli eventi, è una totale abdicazione di responsabilità. […] Da qualche parte tra le visioni fondate sulle antiche profezie e il bisogno di una nuova alleanza, tra le porte chiuse e le strade piene, la magia dei vecchi luoghi e le serrature delle stanze senza canto, rimane uno spazio, uno spazio per una poetica e una politica del possibile»[7].
Ricordare gli ebrei del mondo arabo e la loro storia ridefinisce in modi dimenticati le parole «ebreo» e «arabo», aprendo nuovi orizzonti verso un futuro non soffocato dalle attuali realtà di conflitto e di spoliazione. Il presente ristagna, in bilico su un abisso incolmabile tra i due mondi, ma rievocando un tempo antecedente agli ebrei contro gli arabi, la memoria degli ebrei come parte integrante del mondo arabo e della sua lingua, e si offre la prospettiva di un futuro in cui gli ebrei potrebbero vivere accanto agli arabi in una pace giusta e in un’uguaglianza riconciliata.
***
Copyright © La Civiltà Cattolica 2023
Riproduzione riservata
***
[1]. Il termine «sefardita» si riferisce agli ebrei che fanno risalire le loro origini alla Spagna e al Portogallo al tempo delle espulsioni dei giudei da quei territori, tra il XIV secolo e l’inizio del XVI. Molti emigrarono in Nord Africa e in Medio Oriente, dove esistevano già comunità di ebrei indigeni di lingua araba e berbera, meglio identificati come mizrahim (ebrei orientali).
[2]. Y. Ettinger, «Ovadia Yosef Atones to Mubarak After Declaring Palestinians Should Die», in Haaretz, 16 settembre 2010.
[3]. Y. Abraham, «A Coming out Party Israel’s Religious Jewish Left», in +972 Magazine, 24 gennaio 2023.
[4]. S. Ballas, First Person Singular, Bnei Brak/Tel Aviv, Hakibbutz Hameuchad, 2009, 75.
[5]. Intervista nel settimanale locale Kol Ha’ir, 15 marzo 1991.
[6]. E. Shohat, On the Arab-Jew, Palestine and Other Displacements, London, Pluto Press, 2017, 80.
[7]. A. Alcalay, After Jews and Arabs, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1993, 284.