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Come apparirebbe ai nostri orizzonti, reali e narrativi, il figliol prodigo dell’evangelista Luca? A questa domanda risponde, senza averne apparentemente l’intenzione, l’ultimo romanzo della grande scrittrice americana Marilynne Robinson, Jack.
L’autrice continua la saga di Gilead e dei suoi pastori d’anime, che fanno i conti con figli che non sono come essi vorrebbero. Perché è proprio in quella Chiesa metodista che cresce il figlio che mette drammaticamente in pratica la zona d’ombra del Vangelo, quella che era sempre sfuggita al perbenismo scaturito dalla ricerca del segno della predestinazione. Perché Jack agisce da oscuro, da imperscrutabile, da pietra d’inciampo: compie furtarelli; scantona da quelli che sono ritenuti gli obblighi della comune; se ne va in giro a bighellonare, senza apparente ragione, in un paese degli Usa anni Cinquanta.
Il dubbio corale sul giovanotto scapestrato diviene abissale sgomento e percezione di una trasgressione che va troppo oltre le leggi scritte della rigida separazione razziale. Jack conosce una insegnante di colore, che all’inizio lo scambia per un reverendo e lentamente si lascia affascinare da ciò che non sembra seducente: la libertà del vagabondaggio, la personificazione nascosta del messaggio evangelico liberato dalle incrostazioni del perbenismo e dal desiderio di approvazione, di una casa dignitosa, di un nido per bene agli occhi soprattutto degli altri.
Il luogo in cui queste contraddizioni vengono alla luce per diventare polo d’attrazione e di testimonianza del sé profondo non è estremamente romantico: è il cimitero monumentale riservato ai bianchi di Bellefontaine, a Saint Louis. La tentazione di ricavarne un simbolismo profondo – quello della necessità della morte del proprio «prima», per poter rinascere alla luce aurorale dell’amore in sé e per sé, non influenzato dalle superfetazioni perbeniste… – è ovviamente assai potente, tenendo anche conto del fatto che tutto il ciclo, di cui Jack rappresenta il quarto episodio (gli altri sono Gilead, del 2004; Home, del 2008; e Lila, del 2014), è profondamente intriso di spirito evangelico, contaminato dalla speranza di trovare il segno divino nella realtà di tutti i giorni.
L’amore che nasce tra il vagabondo e la docente di liceo non appartiene alla categoria dei lieto fine neoromantici. È qui che emerge la capacità di Robinson di spiazzare le attese canoniche del lettore e di rimettere in gioco le tradizionali strutture narrative, che la avvicina semmai a Flannery O’Connor o al Philip Roth di Pastorale americana.
Il figlio che se ne va non sa fino in fondo perché. Certo, si manifestano complessi di colpa; storie di paternità attraversate da una sostanziale incapacità di affrontare la realtà comune; oscura espiazione che, invece di portare alla ricerca di perdono, diviene autoesclusione; alcolismo; povertà; commiserazione: l’amore può nascere anche in questa zona dell’essere apparentemente votata al nulla. Eppure, tra la colta signorina di colore e il bianco senza fissa dimora nasce un legame profondo che va oltre qualsiasi progetto precedente, per di più in una America in cui quel rapporto è anatema.
Nell’autrice, predestinazione, rimorso, ricerca del senso più abissale della sequela di Cristo, affetti impensabili vanno oltre i modelli che la critica le attribuisce – Whitman, Thoreau, il trascendentalismo americano – e planano in un universo narrativo in cui il recupero delle origini della fede deve fare i conti con la trasformazione di quella origine lontana in quieto vivere, riti festivi, un po’ di benessere, insomma in quel conformismo contro il quale altri eredi di Emerson, alla fine degli anni Cinquanta, si sarebbero battuti fino alla ricerca di altri paradisi.
MARILYNNE ROBINSON
Jack
Torino, Einaudi, 2021, 328, € 20,00.