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Immaginare l’inimmaginabile. Tornare indietro di circa duemila anni, srotolare il pensiero come una pellicola e fermarsi sui fotogrammi che raccontano i tre giorni più lunghi e importanti della storia. Illuminare con lo sguardo quelli che ritraggono il vissuto di una donna prescelta, chiamata Maria, e farne il baricentro di una narrazione paradigmatica che da allora attraversa il tempo e lo spazio con la sua identità di Madre.
In questo libro che, seppure con la consapevolezza dei propri limiti letterari e linguistici, ha l’ambizione di parlare del «silenzio», Mariantonia Avati sceglie di «esplorare», attraverso l’immaginazione e una scrittura diluita tra sospensione e pathos, la dimensione più emotiva della figura di Maria, madre del «Giusto». Soprattutto in quei tre giorni durante i quali la donna accompagna il Figlio nel compimento del mistero della sua morte e risurrezione. E ripensa a tutto ciò che è avvenuto, mentre nel ricordo «si mischiano le sensazioni del suo essere stata prima bambina, poi giovane e sposa, con in grembo la gioia più grande» (p. 31).
Un mistero, un’incognita, che Maria accoglie – quasi inconsapevole – fin dal primo momento e che, già bambina, sente come forza impetuosa che la spinge – felice – verso il «sì». «Si convinse che Dio aveva scelto realmente lei come madre del Salvatore, e che non le avrebbe fatto sconti, né offerto scorciatoie per aggirare il dolore più acuto, perché solo gli occhi di una donna che somigliava a tutte le altre avrebbero convinto il mondo ad accettare qualcosa di eccezionale» (pp. 33 s).
Una donna che somigliava a tutte le altre. Ecco, questo è il mistero nel Mistero. Quello che – come sottolinea l’autrice – «sono le donne a saper accettare. Per questo viene chiesto loro di farsene carico e di tramutarlo in qualcosa di comprensibile a coloro che vivono di fatti certi, di denaro e materia, di azioni e conquiste. Sono le donne che immaginano e raccontano, che rendono possibile credere alle cose più difficili e lontane».
Come poteva credere Maria che – senza conoscere uomo, ancora solo promessa sposa di quel Giuseppe chiamato anch’egli a un atto di fede più grande di lui – avrebbe dato alla luce un uomo destinato a mutare le sorti di tutti gli altri uomini? Come poteva credere poi a quel figlio che «le aveva chiesto di rinunciare a essere madre di uno per diventarlo di tutti, degli estranei, degli indifferenti, dei peggiori…» (p. 80).
Un gomitolo aggrovigliato di pensieri, un ribollire dell’animo, un turbinio di voci e sentimenti scuotono la «fragile, timorosa, insicura» Maria nel momento più buio: quello in cui deve dire addio al Figlio che porta a compimento la missione del Padre. «Il cielo era enorme come il senso di solitudine immenso che lei provava da quando si era fidata di lui e di Dio. Credere alla sostanza unica di quel figlio l’aveva allontanata da tutto» (p. 17). È in questo momento che una voce si fa più forte delle altre, per convincerla che è stato tutto uno sbaglio. Per consolarla nel momento in cui la tentazione di disperare è più forte. Ma così non sarà. Così non è. «Il Giusto l’aveva messa in guardia dalla melodia che promette consolazione mentre intanto incatena a sé» (p. 42).
E Maria quella melodia la lascia scemare, per far posto al silenzio. «Lei sapeva che “silenzio” significa “non far rumore”, non confondere con parole quello che i fatti avrebbero reso comprensibile poi. Il silenzio non è “vuoto”. Il silenzio arricchisce l’attesa, perché serbare nella propria testa la domanda, resistendo alla tentazione presuntuosa di trovare la risposta, nutre tempo e pensieri, e manifesta la fiducia che si ha nei confronti della vita» (p. 20).
A questa fiducia Maria si aggrappa. «Nonostante la volontà più robusta, l’intelligenza più acuta, e la lungimiranza più saggia, la vita ha comunque una propria forza, eterna e indomabile, e che ad essa ci si deve affidare per non commettere errori. È lei che indica la strada, la sola giusta da percorrere» (pp. 72 s). Questa fiducia che già da bambina l’aveva fatta correre e ridere, «certa che la sua vita sarebbe stata bellissima» (p. 194); la fiducia accresciuta che l’ha condotta fin lì, a quel «silenzio del sabato», e l’ha fatta tornare a ridere, senza vergogna, «perché non farlo sarebbe stata ingratitudine a Dio e a quella vita meravigliosa che le aveva dato» (p. 187).