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C’è mai stato, in terra araba, un periodo storico nel corso del quale i musulmani e gli ebrei siano arrivati a convivere in maniera serena? Un’era, nel complesso felice, durante la quale le numerose comunità israelite presenti nel mondo arabo abbiano goduto di uno status contraddistinto da una situazione dignitosa? Una sorta di epoca d’oro, caratterizzata da un clima di tolleranza e rispetto nei confronti della minoranza ebraica? Un numero considerevole di storici, cronisti e testimoni hanno risposto a queste domande in maniera affermativa, contribuendo così al formarsi di una concezione del passato irenica e rassicurante.
Georges Bensoussan, lo studioso francese già autore di una lucida e stimolante Storia della Shoah (2007), ha messo invece in dubbio la fondatezza di una simile ricostruzione, chiedendosi inoltre se il tema non dovesse essere finalmente approfondito. Egli di conseguenza ha preso in esame un’enorme quantità di cronache, documenti di archivio e testimonianze provenienti da fonti diplomatiche o militari di origine araba, occidentale ed ebraica e, grazie a un’analisi lucida e circostanziata, è arrivato a definire l’idea di una convivenza armoniosa alla stregua di una vera e propria «costruzione dell’immaginario» (p. 67). Egli sostiene dunque che, per secoli, «il mondo arabo è stato per la condizione degli ebrei una terra di dhimma, […] cioè, nel linguaggio e nella realtà del tempo, una terra di sottomissione» (p. 9). In altri termini – malgrado gli episodici attestati di stima e ammirazione –, gli israeliti sarebbero stati pur sempre una minoranza assoggettata e bersaglio di costante disprezzo.
Le testimonianze riportate al riguardo dallo storico transalpino sono davvero numerose: attraversano i secoli e accomunano tante regioni del mondo arabo, dalla Tunisia alla Siria, dal Marocco all’odierno Iraq. Ancora agli inizi del Novecento, a proposito della situazione esistente nello Yemen, un dirigente dell’Alliance israélite universelle di Parigi scrisse: «L’ebreo è la bestia che si picchia in ogni occasione, per niente, per calmare i propri nervi, per smaltire la collera» (p. 23).
Come spiegare, del resto, la migrazione che ebbe luogo dall’Oriente arabo nel breve volgere di una generazione e riguardò circa 900.000 persone? Un esodo che, dal 1945 al 1970, pose sostanzialmente fine a una civiltà bimillenaria, anteriore alla nascita dell’islam e alle conquiste territoriali conseguite dai Mori. La fondazione dello Stato di Israele nel 1948, che, secondo molti storici arabi, sarebbe la causa principale della fine di una convivenza pressoché edenica e della conseguente partenza delle comunità ebraiche, non sembra essere affatto un evento capace di dare origine a un fenomeno del genere. Alla cui radice l’autore individua tutt’altri fattori: in primo luogo, la crescita culturale degli israeliti, i quali, dopo aver acquisito un’istruzione e aver subìto la benefica influenza dell’Illuminismo, cercarono di emanciparsi lasciando quel mondo in cui erano stati costretti a sopportare per secoli una condizione di marcato asservimento. Una volta diventati «soggetto», essi avrebbero trovato intollerabile la dominazione che era stata loro imposta per tanto tempo dall’islam arabo. Un mutamento, ribadisce al riguardo l’autore, iniziato quando, «attraverso l’alfabetizzazione e un timido processo di occidentalizzazione, le società ebraiche si sono messe a scavare un divario tra sé e le società arabe» (p. 66).
Possiamo notare, infine, come la quasi totale scomparsa della presenza ebraica nel mondo musulmano abbia sollevato una questione di grande importanza: quella relativa al confronto tra l’universo islamico e la modernità dei Lumi. Il rigetto della tradizione sembra però aver provocato non un avvicinamento dei musulmani alla razionalità occidentale, ma un ritorno ai salaf, cioè ai «pii avi».
GEORGES BENSOUSSAN
Gli ebrei del mondo arabo. L’argomento proibito
Firenze, Giuntina, 2018, 180, € 15,00.