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Di recente in Africa e in altre parti del mondo si è levato un nuovo vento di riconciliazione. Nell’aprile del 2019, per esempio, papa Francesco ha compiuto un gesto che i mezzi di comunicazione hanno diffuso fino a renderlo virale. Prima che si concludesse il ritiro «ecumenico e diplomatico» dei capi politici del Sud Sudan in Vaticano, egli si è inginocchiato e ha baciato i piedi del presidente Salva Kiir Mayardit, del leader dell’opposizione Riek Machar e di altri presenti.
In precedenza, il 9 marzo 2018, il Kenya aveva tirato un sospiro di sollievo davanti a quella che è passata alla storia come «la stretta di mano», l’accordo che ha posto fine a una lunga disputa post-elettorale tra i due principali contendenti politici: il presidente Uhuru Kenyatta e il leader dell’opposizione Raila Odinga. Sebbene il contenuto del patto che ha portato alla stretta di mano rimanga misterioso per molti keniani, quel gesto ha prodotto in Kenya una sorta di tregua nella contrapposizione politica dovuta a motivi etnici.
Il 9 luglio 2018, firmando una dichiarazione di pace e amicizia, l’Etiopia e l’Eritrea hanno percorso la via della riconciliazione e avviato un processo di guarigione delle ferite che si erano inferte a vicenda dal 1998 al 2000 nel corso di un conflitto nel quale hanno perso la vita circa 80.000 persone e al quale sono seguiti altri 20 anni di ostilità. Dopo l’accordo di pace, i confini tra i due Paesi sono stati riaperti, e le famiglie divise tra i due versanti della frontiera hanno assaporato la gioia di potersi ricongiungere.
Guardando oltre il continente africano, osserviamo come la Corea del Sud e quella del Nord abbiano recentemente dimostrato il sincero desiderio di calare il sipario su decenni di conflitto latente e di sospetti reciproci, scambiandosi gesti di amicizia e di benevolenza.
Ma l’ottimismo suscitato da questi passi verso la riconciliazione è offuscato dalla concreta possibilità che tali accordi di pace possano crollare sotto il peso di «narrazioni inconciliabili»[1], che potrebbero riportare le varie comunità allo status quo. Per esempio, ci sono seri motivi per temere che la stretta di mano tra Kenyatta e Odinga possa essere messa a dura prova nella corsa alle elezioni del 2022.
In Sud Sudan il processo di riconciliazione è ancora in una fase fragile e provvisoria, segnata da reciproca diffidenza tra le due parti antagoniste, anche dopo il ritiro in Vaticano[2].
Parimenti, le speranze suscitate dall’incontro tra i governanti degli Stati Uniti e della Corea del Nord a Singapore nel 2018 hanno subìto un duro colpo con il fallito Summit di Hanoi fra gli stessi leader nel febbraio del 2019.
A nostro avviso – e questo è il tema del presente articolo –, il successo o il fallimento di un accordo di pace non dipendono in primo luogo dalle capacità negoziali dei mediatori o dalla completezza delle clausole che compongono l’accordo. Piuttosto, l’effettivo successo di un accordo di pace è condizionato da una trasformazione della narrazione ideologica. Infatti, finché le parti contrapposte resteranno prigioniere delle proprie narrazioni, nelle quali spesso l’altro viene descritto come il nemico e l’usurpatore del bene comune, i tentativi di riconciliazione saranno destinati a fallire. Perché si dia una riconciliazione autentica e duratura, occorre creare nuove narrazioni, che vadano a sostituire quella che il poeta nordirlandese John Hewitt definisce «coscienza ottenebrata da sogni oscuri», che impedisce qualsiasi prospettiva di un’umanità unita.
Riconciliazione come poetica
Nella sua esortazione ai corinzi sul ministero della riconciliazione (cfr 2 Cor 5,16-20), Paolo descrive la riconciliazione come un’impresa poetica. Già da un punto di vista letterario egli si avvale di un procedimento poetico, ripetendo il termine «riconciliazione» (come verbo o sostantivo) per ben cinque volte nei cinque versetti. Diversamente da ciò che accade nella prosa, dove la variazione del registro lessicale viene considerata un segno di finezza letteraria, la poesia usa la ripetizione come un modo per sottolineare un elemento particolare.
Tuttavia, al di là di queste convenzioni letterarie, occorre ritornare all’origine greca del termine «poesia» (da poieō, produrre, fare, abbellire, costruire) per comprendere che Paolo intende la riconciliazione come uno sforzo «poetico». In questo passo, egli parla della riconciliazione come di un evento creativo, che consiste nel forgiare una nuova narrazione non più ottenebrata dalle prospettive limitate della carne: «Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (v. 16).
La riconciliazione richiede la disponibilità a vedere l’altro attraverso lenti nuove. Essere in Cristo significa abbandonare la vecchia narrazione e consentire che dalle ceneri del pregiudizio e dell’antagonismo sorga una storia nuova: «Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (v. 17).
Dio ha riconciliato gli esseri umani con sé, lasciandosi alle spalle i peccati commessi da loro contro di lui e consentendo al seme della novità di germogliare dal terreno del perdono, irrigato dal sangue di Cristo. È così che Dio scrive la poetica di riconciliazione: superando l’ostilità con l’amicizia, il vecchio con il nuovo[3].
Da un punto di vista cristiano, il cammino della riconciliazione può essere scandito in cinque fasi: memoria, lamento, speranza, patrocinio e intimità[4].
La memoria rinvia al ricordo di un racconto onnicomprensivo che esisteva all’inizio, prima che una narrazione divisiva intaccasse l’equilibrio del cosmo. Per esempio, confutando i farisei sulla validità del divorzio, Gesù risale all’origine delle cose, quando Dio creò l’uomo e la donna perché vivessero uniti per tutta la vita (cfr Mt 19,1-6). La genealogia di Gesù (cfr Lc 3,23-38; Mt 1,1-17) sottolinea l’unità di tutta l’umanità. Il ricordo dell’ordine originario delle cose aiuta a risvegliare le comunità dal torpore dell’amnesia sociale, che impedisce alle persone di vedere oltre la propria famiglia, tribù o etnia.
Tuttavia la memoria del passato non è un mero recupero di eventi trascorsi, ma piuttosto è un dinamico re-immaginare il passato davanti alle sfide presenti e alla speranza per il futuro[5]. Secondo un antico detto, questo tipo di memoria è la memoria futuri, il ricordo di cose ancora da venire. Come dice Lionel Chircop, «una memoria dinamica assomiglia a gettare uno sguardo indietro per procedere in avanti senza rischi»[6].
Il lamento «riguarda l’imparare a vedere chiaramente, a chiamare le cose con il giusto nome, a poggiare i piedi sulla terra del dolore senza cedere alla disperazione o a facili consolazioni»[7]. Lamentarsi vuol dire riconoscere il dolore causato dai conflitti o dalla divisione.
Il coraggio di nominare l’angoscia attuale porta al desiderio di trasformare uno status quo sconvolto in una situazione migliore. Il desiderio di una tale trasformazione si chiama speranza. Questa si fonda sulla consapevolezza che Dio continua a spargere nel mondo semi di novità. Speranza «è l’impegno a vivere non soltanto nel realismo di ciò che è possibile ora, ma nella follia dei sogni attinti da un futuro ancora da vedere»[8].
Connesso con il lamento è il patrocinio, ossia l’atto di parlare a favore di coloro che soffrono, o di intercedere per loro. Per la sua visione altruistica, esso è un antidoto all’interesse personale delle menti ristrette che caratterizza molti negoziati di pace. Nel patrocinio non si guarda al proprio interesse, ma piuttosto all’interesse degli altri, in particolare dei deboli e degli oppressi su entrambi i lati della divisione. Nelle situazioni di conflitto, molti innocenti – uomini, donne e bambini – vengono sacrificati e privati della loro dignità e del dono della vita. Il processo di riconciliazione richiede che gli obiettivi si spostino dal tavolo delle trattative al volto delle persone inermi, devastate dal conflitto.
Infine, il percorso della riconciliazione può essere intrapreso soltanto se si coltiva l’intimità con Dio. Prima ancora che una strategia, la riconciliazione è un modo di stare con Dio e con gli altri.
In quanto spiritualità, essa implica almeno tre cose: la creazione di un rapporto con Dio nel quale la propria storia viene unita a quella di Cristo, in particolare alla sua passione, morte e risurrezione; la creazione di comunità capaci di memoria, per vedere oltre i limiti del presente; e la creazione di comunità dotate di speranza, che si sforzino di costruire un futuro migliore insieme, sfuggendo in tal modo a trappole narrative che le imprigionano nel carcere del settarismo[9].
Immagini bibliche della poetica di riconciliazione
Le pagine del testo sacro sono piene di storie di riconciliazione che possono ispirare oggi gli sforzi di pace. Consideriamo, ad esempio, l’incontro tra il figliol prodigo e il padre nel momento del ritorno del figlio (cfr Lc 15,11-31). Mentre il figlio rimane bloccato nel rievocare le proprie mancanze nei confronti del padre, quest’ultimo, misericordioso, non vuole rivangare le «cose vecchie» del peccato del figlio, ma piuttosto ordina di far festa per il suo ritorno.
Come afferma Rick Warren, «la riconciliazione si concentra sul rapporto, mentre la soluzione [del conflitto] guarda al problema. Quando ci concentriamo sulla riconciliazione, il problema perde significato e spesso diventa irrilevante»[10]. Il padre dà vita a un nuovo rapporto con il figlio: «Perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 24). La veste più bella, i sandali e l’anello conferiscono al figlio una nuova dignità e lo ristabiliscono nella sua condizione di erede.
Possiamo immaginare l’aspetto positivo delle parole scambiate a tavola in quella occasione, perché il padre era felice per la salvezza del figlio ritornato: nessuna parola di rancore, nessun ricordo amaro e nessun volto risentito avevano il diritto di sporcare quelle tovaglie pulite che adornavano la mensa di comunione. Il vecchio ordine delle cose aveva lasciato il posto alla nuova creazione di un rinnovato rapporto tra padre e figlio.
La storia dell’incontro di Giuseppe con i suoi fratelli in Egitto (cfr Gen 50,15-21) è un secondo esempio della poetica di riconciliazione. Temendo la possibile vendetta di Giuseppe – che avevano venduto ai mercanti stranieri –, i suoi fratelli gli si avvicinano per chiedergli perdono. Ma Giuseppe, invece di riandare al crimine commesso contro di lui, intesse una nuova narrazione, che presenta il delitto commesso a suo tempo dai fratelli come parte del mistero della provvidenza di Dio: «Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso» (v. 20).
Giuseppe avrebbe potuto scegliere di seguire la via della colpevolizzazione, rievocando in modo dettagliato le disgrazie da lui subite a causa della decisione dei fratelli di venderlo agli stranieri. Se l’avesse fatto, avrebbe riesumato le dure emozioni di rabbia e di vendetta che di solito prova chiunque abbia ricevuto un torto.
Un altro episodio della poetica di riconciliazione si trova in Gen 32–33, dove si racconta la rappacificazione di Giacobbe con il fratello Esaù. Dopo aver «rubato» la benedizione a Esaù, Giacobbe si era rifugiato presso lo zio Labano, a Carran, per sottrarsi alla vendetta del fratello. Dopo molti anni, però, desidera riconciliarsi con lui. Prima di incontrarlo di persona, gli manda dei messaggeri, che gli recano doni e gli riferiscono le sue parole di riconciliazione. Inoltre Giacobbe trascorre in preghiera un’intera notte, durante la quale lotta con Dio e ottiene da lui la benedizione. Quando infine i due fratelli s’incontrano, non c’è tempo per quei lunghi discorsi che di solito caratterizzano le trattative per risolvere i conflitti. Al contrario, essi si gettano l’uno nelle braccia dell’altro e piangono insieme, quasi per voler purificare il loro sguardo, in modo da potersi vedere con occhi nuovi.
Queste storie mettono in risalto, da un lato, l’importanza della volontà del colpevole di riconoscere il danno causato a chi è stato da lui oltraggiato e, dall’altro, la magnanimità di chi è stato offeso, che si concentra sulla relazione piuttosto che sul problema da risolvere. La parte lesa deve superare la «mentalità da assedio» – il complesso di essere oppresso – o la retorica vittimistica[11], per garantire al colpevole una nuova prospettiva di libertà che conduce a volontarie relazioni amichevoli.
Il ruolo della «leadership di servizio» nella poetica di riconciliazione
In quanto creazione di un nuovo ordine di cose, il compito della riconciliazione richiede uno specifico stile di leadership, chiamato «leadership di servizio». Questa è stata elaborata negli anni Settanta del secolo scorso da Robert K. Greenleaf. Per lui, il «leader servo» è colui che guida assumendo una posizione di servizio[12]. Un leader di questo genere si impegna per migliorare il benessere, la libertà e l’autonomia degli altri. Tra le qualità del «leader servo» spiccano l’ascolto empatico, la capacità di risanare, la persuasione, l’amministrazione e la costruzione della comunità[13].
Un «leader servo» è quello che ascolta gli altri con grande empatia, cioè con la volontà di mettersi nei loro panni. L’ ascolto empatico va oltre le parole ascoltate, per cogliere i segnali critici comunicati attraverso il linguaggio non verbale. Nel cammino di riconciliazione, esso consente agli interlocutori di esprimersi senza il timore di essere giudicati o ricattati. L’ascolto empatico può anche aiutare le parti avverse a rivisitare i propri ricordi e a trasformarli alla luce di nuove prospettive vivificanti. Quando si sa di essere apprezzati e ascoltati, l’amarezza può lasciare il posto alla tenerezza.
Un «leader servo» risana le relazioni interrotte. Se una persona è coinvolta in un conflitto – specialmente se è la parte lesa –, il «leader servo» prende l’iniziativa di avvicinarsi all’altra parte, munito del balsamo della riconciliazione. Se il leader è mediatore di una relazione interrotta, il suo compito principale è quello di apportare la guarigione, piuttosto che attribuire colpe o stabilire sanzioni.
La persuasione è uno dei requisiti di qualsiasi situazione di leadership efficace. Questo significa convincere altri ad adottare un particolare modo di vedere e di agire. L’ascolto empatico non vuol dire necessariamente lasciare che le persone restino legate alla loro narrazione – spesso limitata –, ma piuttosto creare un ambiente dove esse si sentano libere di abbandonare le proprie esperienze passate per abbracciare storie più ampie e inclusive. Così un «leader servo» guida le persone verso narrazioni di riconciliazione.
Amministrare significa prendersi cura dei beni di qualcun altro. Un «leader servo» è consapevole del fatto che i popoli sotto la sua guida gli sono stati affidati da un’autorità superiore, ossia da Dio. Come tali, gli esseri umani non possono essere manipolati o utilizzati per trarne profitti egoistici. Un «leader servo», per esempio, non può far appello al tribalismo per mobilitare il sostegno per i propri interessi politici; non può trarre vantaggio dalla disoccupazione per fomentare la violenza contro un rivale politico; non può utilizzare le risorse della comunità per finanziare una guerra contro altre comunità. Amministrare vuol dire essere consapevoli che le risorse, sia umane sia materiali, sono destinate a promuovere il bene comune piuttosto che a difendere o favorire gli interessi di una parte.
Un’ultima cosa, ma non meno importante: un «leader servo» costruisce la comunità. Crea una visione che funge da forza centripeta, verso la quale gravitano le persone. Mette anche in atto rituali e compie gesti che uniscono le persone e le spingono a perseguire obiettivi che superano l’etica dell’egoismo. Un esempio di un gesto del genere ci viene dal Sud Sudan. Alcuni anni fa il vescovo Paride Taban fondò l’Holy Trinity Peace Village, che riunisce persone provenienti da diverse tribù e religioni. In questo villaggio le persone scoprono la loro comune umanità al di là delle affiliazioni tribali o religiose[14]. Le interazioni che avvengono nel villaggio stanno creando nuove narrazioni, che possono essere sfruttate per unire la più ampia comunità del Sud Sudan.
Conclusione
Oggi ci sono segni che lo Spirito Santo aleggia sulla faccia della Terra, riempiendo di desideri di riconciliazione i cuori degli esseri umani. Tuttavia, la prospettiva dominante che intende la riappacificazione come strategia piuttosto che come spiritualità può spegnere lo spirito di riconciliazione. In quanto impresa poetica, la riconciliazione ha bisogno di trascendere le narrazioni restrittive e di creare racconti nuovi, che includano le origini e il futuro della famiglia umana. Questa visione della riconciliazione implica la capacità di re-immaginare il passato e la volontà di sognare un futuro che non sia tenuto in ostaggio dai vincoli del momento presente.
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LEADERSHIP AND POETICS OF RECONCILIATION
The social landscape is dotted with broken relationships, be it broken families, polarized political groups, or divided trading partners. Although efforts towards reconciliation have borne commendable fruit, in many cases conflict resolution initiatives have not been successful. One reason for the frequent failure of such projects is that they tend to focus on the «problem» rather than the «relationship». Moreover, they do not aim to change the narratives by which the parties in the conflict define themselves and address the situation. This article argues that genuine and lasting reconciliation can only take place if the opposing parties agree to transform their narratives, to address the conflict situation from a more authentic and open position.
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[1]. Cfr F. Abdel-Nour, «Irreconcilable Narratives and Overlapping Consensus: The Jewish State and the Palestinian Right of Return», in Political Research Quarterly 68 (2015) 117-127.
[2]. Cfr S. Mednick, «South Sudan: Mutual mistrust stalls peace deal for a further six months», in The East African, 19 maggio 2019.
[3]. Cfr E. Katongole, The Journey of Reconciliation: Groaning for a New Creation in Africa, New York, Orbis, 2017, 7.
[4]. Cfr ivi, 11 s.
[5]. Cfr R. J. Schreiter, The Ministry of Reconciliation: Spirituality & Strategies, New York, Orbis, 1998, 20.
[6]. L. Chircop, «Re-membering the Future», in A. D. Falconer – J. Liechty (eds), Reconciling Memories, Dublin, Columba, 1998.
[7]. E. Katongole, The Journey of Reconciliation…, cit., 11.
[8]. Ivi.
[9]. Cfr R. J. Schreiter, The Ministry of Reconciliation…, cit., 16.
[10]. R. Warren, The Purpose Driven Life: What on Earth Am I Here For?, Grand Rapid (Mi), Oasis International, 2002, 158.
[11]. Cfr A. D. Falconer, «Remembering», in A. D. Falconer – J. Liechty (eds), Reconciling Memories, Dublin, Columba, 1998, 11.
[12]. Cfr R. K. Greenleaf, The servant as leader, Cambridge (Ma), Center for Applied Studies, 1970.
[13]. Cfr L. C. Spears, «The Understanding and Practice of Servant-Leadership», Virginia, School of Leadership Studies, agosto 2005: cfr www.regent.edu/acad/global/publications/sl_proceedings/2005/spears_practice.pdf
[14]. Cfr E. Katongole, The Journey of Reconciliation…, cit., 52.