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Il sottotitolo di questo libro, scritto da Sergio Tanzarella, professore di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, fa riferimento a don Peppino Diana «affamato di quella vita che gli otto anni di Seminario minore avevano negato» (p. 6), e che poi egli ha donato a piene mani nel ministero pastorale. Secondo l’A., «manca una ricerca storica sistematica d’insieme» (p. 18) sulla testimonianza e sulla morte di don Peppino, ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, e a tale mancanza egli intende rispondere con questo volume.
All’inizio vengono chiariti dall’A. alcuni obiettivi specifici in relazione a eventi riguardanti la memoria di don Peppino, e susseguenti alla sua uccisione. In primo luogo, egli si dedica accuratamente a smontare le «cancellazioni della memoria di don Peppino» con calunnie e accuse pretestuose da parte di organizzazioni criminali, stampa locale prezzolata, magistrati superficiali, istituzioni amministrative locali indifferenti. In secondo luogo, Tanzarella analizza criticamente, con solide argomentazioni, la fiction televisiva trasmessa dalla Rai nel 2014, a vent’anni dall’omicidio, Per amore del mio popolo. In terzo luogo, per supplire a una mancanza della fiction televisiva, dedica un capitolo a esaminare ampiamente il contesto di quegli anni, caratterizzato dall’economia del terremoto, con una ricostruzione infinita e che sperperava ingenti somme di denaro pubblico, in parte controllata da clan delle organizzazioni criminali. È una storia di ordinaria corruzione, con «il clima politico complessivo fondato su una mentalità camorristica e su un sistema di collateralismo monolitico».
Viene ricordato il contesto nel quale don Peppino visse per 12 anni la sua missione sacerdotale: «Una società dove la camorra esercitava una quasi incontrastata egemonia lo espose ad altissimi rischi». Il suo impegno si fondava sugli studi teologici, in particolare su quelli biblici, che gli avevano permesso di comprendere che non sarebbe mai diventato un funzionario del sacro, un asettico distributore di sacramenti e di certificati, un prete incaricato di celebrare funerali di persone ammazzate dalla mafia; e che non avrebbe accettato di tollerare le intimidazioni e la paura che la camorra imponeva a Casal di Principe, e non solo.
La ricerca prosegue con una documentazione del periodo della formazione di don Peppino con gli studi teologici a Napoli, che avrebbero influenzato profondamente la sua attività pastorale come viceparroco e parroco e con gli scout, non lasciandolo indifferente di fronte alle sofferenze del suo popolo. Annunciando il Vangelo in una terra di oppressione, don Peppino ha mostrato non l’eroismo dei superuomini, ma la testimonianza di un semplice parroco che non ha trovato giustificazioni per tacere e ha cercato di capire cosa si doveva fare in quel luogo e in quel momento per la liberazione del popolo.
Il suo omicidio nella sacrestia della sua chiesa, mentre indossava i paramenti per celebrare la Messa, ricorda altri omicidi di preti all’altare, in particolare quello di mons. Romero, che egli venerava per la sua testimonianza; e può essere ricollegato a quelli di don Puglisi e del magistrato Livatino. Superando un certo necessario «localismo», la memoria di don Peppino va inserita in un più ampio orizzonte, quello della Chiesa italiana, e soprattutto delle popolazioni meridionali.
L’A. ha già curato corsi e interventi su personaggi significativi del clero nella storia della Chiesa in Italia, a cui ora si aggiunge questa ricerca storica su don Peppino. La lettura di questo volume ci rende questo sacerdote vicino, come uno dei martiri delle nostre terre meridionali, che ha offerto una testimonianza che interroga – in condizioni e contesti diversi – anche i sacerdoti di oggi, mettendoli in guardia dalla tentazione del cerchio mediatico che rischia di rendere sodali dei governanti di turno.