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Soltanto la grazia di Dio poteva rendere possibile ciò che si è verificato in Irlanda nel Venerdì Santo del 1998: l’Accordo di Belfast (l’«Accordo del Venerdì Santo»). Allo storico patto hanno aderito la maggior parte dei partiti politici dell’Irlanda del Nord, compresi quelli che fungevano da copertura di gruppi terroristici paramilitari, nonché i governi irlandese e britannico: un «compromesso storico», come l’avrebbe definito un celebre comunista italiano.
Quell’accordo ha sancito tre punti:
- Ha stabilito un quadro costituzionale e legislativo entro cui i rappresentanti eletti delle due comunità che vivevano nell’Irlanda del Nord potessero esercitare un potere condiviso.
- Ha istituito un trattato formale tra Gran Bretagna e Irlanda per regolamentare e mantenere la condivisione del potere.
- Ha posto fine a una violenza civile tra le due comunità che durava fin dal 1970, la cosiddetta «Guerra dei trent’anni» irlandese, ossia un conflitto allo stesso tempo culturale, religioso e politico.
E, riconoscendo che una pace solida avrebbe dovuto comportare qualcosa di più che il mero cessare della violenza, ha registrato l’impegno di ciascuna delle due parti a cambiare la propria cultura in una direzione meno identitaria e ostile all’altra, più inclusiva e tollerante. Perché fare la pace ha richiesto così tanto tempo?
Come è iniziata la divisione
La fine del XIX secolo ha visto il fiorire del nazionalismo irlandese, come pure quello di altri nazionalismi europei. In tale contesto nazionalistico, si delineavano due raggruppamenti: i partiti legati a un movimento di massa, democratico e costituzionale, e altri piccoli raggruppamenti clandestini e violenti (gli antenati dell’Ira, la Irish Republican Army).
L’Irlanda faceva parte del Regno Unito: inviava rappresentanti eletti al parlamento di Londra, diversamente da quanto facevano altri Paesi dell’Impero, come il Canada o l’India. Intorno al 1900, quei deputati persuasero il partito liberale britannico a concedere all’Irlanda la Home Rule…