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Desmond Tutu, arcivescovo anglicano emerito di Città del Capo, morto il 26 dicembre 2021, ha rappresentato una pietra miliare nella storia della «lotta della Chiesa» ecumenica contro l’apartheid in Sudafrica. Un’epoca che, iniziata più o meno alla fine degli anni Cinquanta, acquistò slancio negli anni Sessanta, per raggiungere l’apice nelle esaltanti giornate degli anni Ottanta, quando prese forma un’ampia coalizione di associazioni comunitarie, sindacati e organizzazioni religiose che operavano in parallelo con movimenti di liberazione consolidati come l’African National Congress (Anc), il Pan Africanist Congress (Pac) e il South African Communist Party (Sacp). Alla fine quest’azione congiunta costrinse il governo del National Party a negoziare una transizione verso la democrazia, che venne raggiunta nel 1994.
Alcune figure chiave di allora sono ormai scomparse, come Denis Hurley, arcivescovo cattolico di Durban, e il teologo riformato olandese C. F. Beyers Naudé; altri, come il pastore Allan Boesak e il domenicano Albert Nolan, sono ora in pensione o quasi. In particolare, fa ormai parte del passato quella stagione in cui le Chiese cristiane assunsero insieme una posizione comune e di principio, collaborando con persone di tutte le fedi, o agnostiche, e contribuirono a far cadere un cattivo regime per dar vita a uno Stato democratico.
Di questa vicenda Desmond Tutu è stato una delle figure chiave, e vi ha svolto un ruolo fondamentale, perché per molti aspetti le sue convinzioni e la sua personalità hanno varcato i confini confessionali protestanti e cattolici, spaziando fra teologie tradizionali e di liberazione, fra impegno rivoluzionario e spirito riconciliatore. Rivoluzione e riconciliazione erano radicate nella sua teologia (biblica, anglicana, nera e africana), a sua volta incorporata nella spiritualità, che era il frutto della sua vita straordinaria…