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Cogliendo l’invito di Stendhal, contenuto nell’esergo di apertura de Il Rosso e il Nero, che riporta la sintetica affermazione di Danton: «La verità, l’aspra verità», come sintesi della sua poetica che fa del romanzo uno strumento di ricerca della verità, ci lasciamo ispirare dalla domanda: come può essere raccontato il Novecento? Evidentemente ci sono e si danno innumerevoli forme.
Nel 1868 lo scrittore statunitense John William De Forest, in un saggio pubblicato sulla rivista The Nation, coniò un’espressione che nei decenni successivi ebbe notevole fortuna come logo letterario. Egli infatti fu il primo a parlare di «Grande Romanzo Americano», chiedendosi quale potesse essere l’opera capace di esprimere il carattere nazionale del popolo statunitense.
La formula inventata, e poi abbreviata da Henry James nell’acronimo Gan (ovvero Great American Novel), venne più volte utilizzata, come sorta di pietra miliare o contenitore, per esprimere un giudizio rispetto a romanzi e opere.
Tra le opere che ambiscono a questo titolo ne sono state individuate varie, da L’ ultimo dei Mohicani, di James Fenimore Cooper, alla Lettera scarlatta, di Nathaniel Hawthorne, a Moby Dick, di Melville, La capanna dello zio Tom, di Harriet Beecher Stowe, Le avventure di Huckleberry Finn, di Mark Twain, Furore, di John Steinbeck, Il Giovane Holden, di J. D. Salinger, Il buio oltre la siepe, di Harper Lee, Amatissima, di Toni Morrison, e ai più recenti Infinite Jest, di David Foster Wallace, e Libertà, di Jonathan Franzen[1]. Secondo alcuni, anche l’opera complessiva di Kurt Vonnegut può essere letta nel suo insieme come il tentativo di produrre un esemplare di Gan del suo tempo.
Declinato pure in altri contesti nazionali, il possibile sottotitolo di «Grande Romanzo Italiano» come un fantasma è apparso di tanto in tanto anche nel perimetro della critica letteraria italiana, ed è stato usato di volta in volta come criterio evocativo delle intenzioni degli autori o dei risultati conseguiti. Alcuni titoli che sono stati citati sono Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Petrolio, di Pier Paolo Pasolini, e Il giardino dei Finzi-Contini, di Giorgio Bassani[2].
Più volte è stata denunciata l’insufficienza o la scivolosità di questo acronimo, esploso e indagato ogni suo termine, ci si è chiesti come possa essere utilizzato nella tradizione italiana, che nel genere letterario del romanzo sembra non riuscire a dare il meglio di sé. Inoltre, come intendere i due aggettivi «grande» e «italiano»? «Grande» per voluminosità? Per ampiezza dell’arco cronologico coperto o per capacità di introspezione? La stessa definizione di «italiano» appare niente affatto scontata, considerando la molteplicità prismatica delle tradizioni letterarie locali e dei caratteri regionali.
A fronte di questo e senza alcun tipo di intento canonistico, ma solo lasciandoci ispirare dalla natura teorica e al tempo stesso sufficientemente ambigua dell’acronimo da avere un valore euristico, proponiamo la lettura di tre romanzi italiani degli ultimi 10 anni, che presentano una lettura del Novecento, in modo particolare due di essi, dal secondo dopoguerra. Si tratta di La vita in tempo di pace, di Francesco Pecoraro, del 2013; Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, di Remo Rapino, del 2019, e Prima di noi, di Giorgio Fontana, del 2020. Ci sembra che la lettura sinottica di questi tre romanzi valorizzi lo sguardo, il tono e l’approccio che caratterizza ciascuno di essi nel racconto della storia italiana degli ultimi decenni, in particolare nel tempo trascorso dalla Seconda guerra mondiale, con le sue evoluzioni democratiche ed economiche, a volte contradditorie, a volte violente, nelle agitazioni, negli slanci ideali nazionali ed europei, nelle involuzioni materialistiche, nei ripiegamenti privatistici. Ne emerge una tensione etica, estetica e spirituale che apre una finestra sul futuro, che possiamo anche chiamare «speranza». I tre romanzi giungono fino al tempo del Covid-19, che socialmente e storicamente costituisce una faglia di interruzione ineludibile.
«La vita in tempo di pace»
La prima opera che prendiamo in considerazione è del 2013. Francesco Pecoraro, architetto, classe 1945, diviene noto con questo romanzo, il primo scritto da lui[3]. Il libro, romanzo-saggio, è costruito intrecciando, a capitoli alterni, due linee temporali. La prima svolge l’arco dell’ultimo giorno di vita del suo protagonista, Ivo Brandani. Sono le sezioni più riflessive e filosofiche del libro e forniscono le chiavi di lettura dei capitoli più ampi, nei quali si compone per vasti affreschi successivi la seconda linea temporale, che consiste nel racconto di momenti salienti della sua vita. La memoria sale a ritroso il corso del tempo e narra la vicenda biografica dell’ingegnere filosofo, che attende l’aereo nell’aeroporto di Sharm el-Sheikh per tornare a Roma. Lo scarto dei punti di vista, nello spazio dello stesso capitolo, dalla prima alla terza persona singolare, passando a volte per la seconda nelle parti in cui Brandani parla con sé stesso, dà profondità e dinamicità al flusso del racconto, catturando anche nelle sezioni più riflessive l’attenzione del lettore, che si trova al centro di questa rete panottica e tridimensionale di sguardi.
Lo sguardo ricapitolativo sulla vita personale e sulla storia collettiva, che dal secondo dopoguerra si dipana pagina dopo pagina, in questo romanzo è cupo, a tratti lucidamente disperato. Il protagonista è un uomo che è arrivato all’anzianità colmo di rabbia e di livore, ferito dal ricordo di una figura paterna con cui non è riuscito a far pace, disilluso e, infine, dopo tante relazioni affettive, solo. È lo sfacelo che evoca catastrofe e laicissima palingenesi.
«Ivo Brandani era perseguitato dal senso della catastrofe. La vedeva in ogni iniziativa di trasformazione della realtà, in ogni edificio (che può crollare), in un aereo in volo (che può precipitare), in un’automobile in corsa (che può sbandare), in una presa di corrente (che può andare in corto), in una pentola sui fornelli (rischio di incendio), in un bicchiere d’acqua (che può rovesciarsi), in un uovo fresco (che può rompersi): tutto ciò che funziona può smettere di farlo»[4].
Com’è la vita in tempo di pace? Avendo alle spalle il fantasma della Seconda guerra mondiale, per Ivo la vita è stata una lotta continua. «Mai una pace così lunga. Sì, certo, nel mio tempo si fecero un’infinità di guerre, ma sempre fuori confine, con un coinvolgimento più che altro politico, quindi simbolico, oppure militare, ma limitato»[5]. Per questo motivo, con amarezza riconosce di non essere stato all’altezza di sé stesso. Se è possibile dirlo, è un uomo paradossalmente ferito dal tempo della pace: «Quelli come me sono organismi del tempo di Pace, creature specifiche, con speciali adattamenti, come quegli insetti che si trovano nelle grotte, ciechi senza sapere di esserlo, bianchi per mancanza di luce, eppure convinti che il mondo sia tutto lì»[6].
Il «tempo di pace», il Novecento del dopoguerra, si è rivelato solo una guerra silenziosa. «La Pace è guerra di tutti contro tutti: poca la violenza fisica, ma la lotta è maligna e crudele, nel doversi fare spazio, nel lottare per ottenere una parte anche piccola delle risorse disponibili, o un po’ di potere, per quelli a cui interessa […]. Una guerra senza eroi, combattuta a botte di cocaina, di alcol, di anti-depressivi, di ansiolitici, di sigarette strafumate […]. Pochi gli eroi ufficiali, pochi i monumenti, tutti volutamente anti-retorici, quindi quasi tutti bruttissimi»[7].
Ateo, Brandani ambisce all’Apocalisse, perché avverte un deficit di futuro: «Nessuno aveva previsto che i computer sarebbero serviti a tutti noi per scrivere, comunicare, telefonare, giocare, produrre e riprodurre immagini, disegnare […]. Allora li pensavamo immensi, come il Multivac di Asimov, e parlanti, interrogabili come oracoli, computer grandi come pianeti eccetera […]. Dov’è tutta la fantascienza che ho letto da bambino? Dov’è finito quel futuro? Dove sono le automobili volanti, le strade pensili tra grattacieli alti chilometri?»[8]. Il tempo che Brandani sente di essere chiamato a vivere non è tuttavia quello dell’apocalisse puntuale e risolutrice dell’improvviso cataclisma che spazza e dissolve, ma un tempo intermedio di decadenza.
Percorrendo la struttura del romanzo, il primo quadro è dedicato agli anni più recenti, in occasione di un’esondazione del Tevere, apocalittica descrizione della città oppressa dalla pioggia e dall’incuria, dalla strisciante corruzione, dalla deresponsabilizzazione nei confronti della cosa pubblica. È una denuncia forte di tutto quel che viene compiuto, ma soprattutto omesso, nella gestione della città. È la descrizione dell’Italia male amministrata e socialmente disinteressata.
Poi c’è il racconto di Ivo cinquantenne, negli anni Novanta, in vacanza su un’isola greca senza nome. È l’occasione per Ivo di fare il bilancio di vita nel passaggio dei suoi 52 anni, in una serata d’estate, mentre gli amici sono a cena. Seduto da solo sul pontile nel piccolo porto, considera come il tempo sia passato e vi sia stata una profonda trasformazione dell’isola e del mare, del paesaggio e dei costumi della comunità di pescatori, specchio di quel cambiamento della sua vita e del mutamento delle sue priorità. «A quei tempi pensavi che non ci fosse niente di più bello, le sostanze che ancora circolavano nel tuo sangue ti spingevano a fare cose che oggi non hanno più significato: manomettere, modificare, catturare, uccidere, penetrare, costruire & distruggere. Era il fare, sempre e comunque. Nessun rapporto con questo paesaggio e soprattutto col mare e le creature d’acqua, poteva avere senso senza intrusione & manomissione, senza lasciare segni di alcun tipo… Strana la violenza che ci abita, prima da ragazzini e poi da giovani, strano poi che diventi incomprensibile, com’è oggi per me: il gusto della predazione è finito»[9].
Segue l’affresco di Ivo trentenne, alla fine degli anni Settanta, in pieno slancio carrieristico, sposato con Clara. È la sezione più lunga e per certi versi più calda e interessante. Inserendo un romanzo nel romanzo, Pecoraro esprime la corruzione degli ideali e dello slancio rivoluzionario e di apertura che i venti della fine degli anni Sessanta avevano agitato. Nel confronto tra Ivo Brandani e Nico De Klerk si dà il dramma di una generazione che nel benessere capitalistico affogherà i sogni di qualche anno prima.
Lo sguardo del quasi settantenne che si volge indietro, allenato al cinismo, non può fare a meno di scorgere lì l’inizio di un cambiamento: «Erano tempi in cui bisognava fare i conti con ciò che si era stati, il prezzo richiesto per l’inizio di una traiettoria vitale e professionale era alto e consisteva nell’abbandono, talvolta fino alla negazione e al tradimento, della spinta alla trasformazione del mondo di cui ci si credeva profondamente intrisi fino a pochi anni prima»[10]. Il cedimento avviene rapidissimo: «Io non sono come loro, non mi avranno. E invece era bastata una prima dubbia ambigua mano tesa e già il mondo, quello vero, si era comprato il trentenne Ivo Brandani, reduce sessantottaro, precoce transfuga filosofico, tecnico anomalo, creatura smarrita, bel ragazzo. Era bastato incontrare un esempio reale di tutto ciò contro cui gli pareva di aver lottato, il contrario di tutto ciò che gli pareva di essere, per restarne affascinato»[11]. Ciò che da questa esperienza traumatica Ivo lascerà sul campo è tantissimo: il lavoro nell’azienda multinazionale, la sicurezza economica, il matrimonio, la fiducia, il desiderio di costruirsi una famiglia.
Poi, sempre guardando indietro, la memoria va agli anni dell’università. Ivo inizia con gli studi di filosofia. Dopo l’esperienza traumatica degli scontri alla «Sapienza» nel 1968, con la contestazione, i collettivi studenteschi, le appassionate ma anche logoranti assemblee, gli scontri e i pestaggi con fascisti e carabinieri, il lancio dei sanpietrini, il sangue e le grida, Ivo si ritira. Durante un viaggio estivo in Scozia, in vacanza con Clara, matura la decisione di passare a ingegneria. La visione di un ponte sospeso tra le rive di un fiume[12] è esperienza mistica che gli rivela la portata filosofica dell’azione semplice del «costruire ponti e aprire porte». Gli ultimi due quadri raccontano l’Ivo ragazzo e bambino. È la descrizione dei turbamenti amorosi adolescenziali, la scoperta dei riti di seduzione e della sessualità.
È anche l’occasione per dare spazio a una descrizione fosca e appassionata di Roma, nel linguaggio tecnico della geologia e dell’urbanistica, dell’arte e della politica. Roma è una città che mangia sé stessa e i suoi abitanti, che si espande e consuma territorio, prigioniera del suo passato e del suo statuto di città di Dio. Ivo scopre la necessità di imparare a difendersi nell’ambiente niente affatto ospitale della scuola media, del campetto di calcio della parrocchia, delle vie del quartiere. Sono anche gli anni della scoperta dolorosa della inesorabilità della figura paterna, violenta, aggressiva, tormentata e distruttiva.
La grandiosa metafora dell’assedio di Costantinopoli, con cui si apre il romanzo, giunge a conclusione nel finale.
«Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio»
Il secondo romanzo che prendiamo in considerazione è Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, di Remo Rapino[13]. Anche in questo caso si tratta di un’opera di maturità. Rapino infatti è nato nel 1951 e pubblica il romanzo a 68 anni. Più breve rispetto al romanzo di Pecoraro, questo se ne distacca nettamente per tono, poetica e scelta linguistica; vi si avvicina per l’intento ermeneutico di 70 anni di storia italiana. Il romanzo è la storia di Liborio Bonfiglio, dalla nascita fino alla morte. Liborio è un «semplice», bambino, ragazzo, poi uomo dal cuore buono e dalla mente «balenga», schiacciato dalle prove della vita, i «segni neri» che si accumulano nella sua biografia. Attraverso il suo sguardo, il lettore è incantato ed è reso testimone di ciò che accade intorno a lui, prima nel piccolo paese del Centro Italia e poi nelle grandi città del Nord. La particolarità che rende unico questo romanzo è l’uso della lingua. Si tratta di un diario scritto poco prima di morire, per raccogliere, con «quaderno e bic», le memorie di una vita. È un lungo e ininterrotto monologo, composto di frasi che riproducono l’andamento del parlato semidialettale. Rapino costruisce in modo raffinatissimo una lingua popolare, non alta, quella dei poveri e degli ultimi: con una scelta linguistica dal sapore evangelico, più che estetica, Rapino compie un’operazione etica e spirituale. Il lettore viene infatti empaticamente collocato all’altezza di Liborio, il «piccolo», nella sua visuale, nella sua comprensione. Si entra così nella Storia dei piccoli, coinvolti, più spesso travolti e condizionati dalle scelte di altri che si impongono loro. «Pure io lo so, e sempre ci penso, notte e giorno, d’inverno e d’estate, ogni giorno che il Padreterno fa nascere e morire, con la luce e con lo scuro, ci penso, che c’ho sempre pensato per vedere di capire come mai sta coccia mia da quasi normale s’è fatta na cocciamatte, tutta na matassa sgarbugliata fuori di cervello»[14].
Liborio è un ragazzo di una famiglia poverissima. Nasce in casa, accolto dalla madre e dal nonno, da subito orfano di padre. Dopo le scuole elementari, è costretto ad abbandonare gli studi per aiutare la madre. Prima il nonno e poi la madre muoiono, lasciandolo solo appena quattordicenne. «E fuori la porta ci stavano un po’ di donne del quartiere che non mi volevano fare entrare e mi abbracciavano e qualcuna piangeva col fazzoletto sporco tra le mani e io non ci capivo niente, ma poi sono entrato e mia madre stava sul letto con una faccia normale che sembrava che dormiva ma invece non dormiva che io pensavo mica questa è l’ora di dormire e mia madre infatti non dormiva, cioè dormiva ma era per sempre perché per sempre si era morta»[15].
Scoppia la guerra, e dopo l’8 settembre del 1943, armi, morti e sparatorie arrivano a insanguinare anche i muri delle case del piccolo paese. La descrizione dei due giorni di rappresaglie naziste sui compaesani sono tra le pagine più intense del romanzo. «Quella giornata invece fu proprio una cosa brutta perché non è come quando tu vedi rompere i vetri e bruciare i negozi o il mobilio, come quando fai la voce grossa perché hai una mitraglia o una pistola, un’altra cosa è quando prendi dei poveri cristiani e ne fai carne da macello senza nessuna pietà che manco un animale o un cane gli fai tante bestialità, che tutte le strade e i muri ci scorrono fiumi di sangue umano che ci restano i segni e manco un temporale di quelli forti li riesce a pulire»[16].
Tutta quella violenza viene letta con occhi cristiani. «Io l’ho vista quella madre che si riportava a casa il figlio che pareva la Madonna che si riprendeva il suo Gesù dalla croce, con la gente che si spostava come alla processione del Venerdì Santo e si facevano la croce e gli uomini si toglievano il cappello proprio come davanti a un santo e l’ho vista pure quella donna che in ginocchio con una spugna in mano ripuliva la faccia di un ragazzo e le mani sporche di terra e di sangue, con un secchio a fianco e gli chiudeva gli occhi se erano ancora aperti e poi andava a cercare qualche altro morto da pulire perché bisogna presentarsi bene messi in Paradiso, che qualche piccioso di quei tempi era pure capace di non farti entrare»[17].
Di fronte a tanta morte, il silenzio che segue si può riempire solo con la preghiera, il Padre Nostro, che sgorga sulle labbra del ragazzo senza che lui nemmeno sappia come. «Le labbra mi si muovevano per conto loro e ascoltavo una voce che pianamente era come una specie di sussurro, non sapevo neanche di preciso se era proprio la mia voce, ma la sentivo, senza disturbare, che diceva Padre nostro che sei nei cieli e mi pareva di stare un poco meglio, che non serviva più niente a correre, a guardare a vedere. […] Tutto intorno c’era solo quella voce che diceva Padre nostro che sei nei cieli e che io dopo non l’ho sentita mai più»[18].
Terminato il conflitto, segue il racconto della vita di Liborio, e in particolare ci sembra significativa la sezione in cui Rapino racconta gli anni delle forti tensioni sindacali, dello sfruttamento e dell’alienazione che lo sviluppo economico impone. Sono anni di forte tensione sindacale, di lotte e scioperi per la tutela dei lavoratori, che spesso lavorano in condizioni di grande rischio e pericolo. L’ennesimo incidente sul lavoro, che coinvolge uno degli amici di Liborio, ne suscita una reazione rabbiosa e scomposta, violentissima nei confronti del capoturno, che viene investito da una selva di pugni che quasi lo uccidono. Liborio viene confinato per nove anni in un manicomio e poi rilasciato. A questo punto, all’uomo ormai sessantenne non rimane che tornare nel paese d’origine. Sono anni di miseria e solitudine. Attraverso il racconto arrivano i riflessi dei più grandi eventi dello scorcio finale del Novecento: la caduta del muro di Berlino, gli eventi elettorali successivi a Tangentopoli, il passaggio al terzo millennio, l’attentato alle Torri gemelle a New York.
Poco prima di morire, Liborio vive un sogno dall’imponenza michelangiolesca, che raccoglie e redime tutto e tutti. Sogna infatti di dare un banchetto per le persone che hanno fatto parte della sua vita. È una scena onirica, luminosa, profondamente evangelica. È il banchetto degli ultimi tempi, dove le lacrime verranno terse, le ingiustizie e le solitudini saranno sanate e consolate e ci sarà pace e gioia. Sono pagine struggenti. «Dalla strada, intanto, arrivavano altre voci e tante parlate diverse, milanese, bolognese, bagnacavallese eccetero eccetero, io ero un poco perturbato che non sapevo dove ficcarli e poi ci volevano le sedie di più e i bicchieri di più, ma poi è stato come un miracolo di Padre Pio che più quelli venivano e più i muri della casa si allargavano e diventavano fini fini fini e poi trasparenti come una vetrata pulita che si vedeva da un lato il mare e da un lato la montagna, che sulla montagna c’era la neve e sul mare c’erano le barche che da lontano facevano con le onde come un ballo della tarantella mentre dalla piazza si sentiva la banda, secondo me una banda della Puglia, che suonava le opere ma senza i cantanti che cantavano, e allora con la musica della banda ci entravano tutti nella casa mia, e tutti erano felici dopo tanto tempo che non ci veniva manco un cane dopo la morte della Sordicchia. Mia mamma era già seduta a capotavola, e vicino a lei nonno Peppe con la camicia da muratore socialista»[19].
«Prima di noi»
Infine, il terzo romanzo che prendiamo in considerazione è Prima di noi, di Giorgio Fontana, uno degli autori più sensibili della scena letteraria italiana contemporanea[20]. È il romanzo più voluminoso, di quasi 900 pagine, e quello che copre l’arco di tempo più ampio, quasi un secolo, tra il 1917 e il 2012. A differenza dei due romanzi precedenti, che hanno un solo protagonista e un unico punto di vista sulle vicende, Prima di noi è un romanzo corale, saldamente ancorato alla tradizione del romanzo in terza persona singolare. Vi vengono narrati gli accadimenti di una famiglia friulana, dai capostitipi Maurizio Sartori e Nadia Tasson lungo le vene del «secolo breve», via via passando dai figli ai nipoti, fino ai pronipoti Dario e Letizia, che ci collocano nell’oggi. Alla voce di Letizia è affidata la chiusura del romanzo.
Sullo sfondo delle vicissitudini e delle scelte dei membri di questa famiglia, si stagliano gli avvenimenti del nostro Paese. È un lungo elenco, che inizia con la disfatta di Caporetto, attraversa le tappe dell’ascesa del fascismo, gli anni dell’occupazione tedesca dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, quelli della ricostruzione postbellica e delle tensioni nel mondo del lavoro, dei conflitti sindacali, degli scioperi, dell’attesa della rivoluzione comunista. Seguono i tormentati primi anni Settanta, nel magmatico mondo delle proteste e dei movimenti autonomisti, dell’idealità e della lotta al sistema, fino alla svolta armata. E poi arrivano gli anni Ottanta della ripresa economica e quelli disimpegnati del decennio del Novanta, oltrepassando le soglie del 2000 per giungere ai giorni nostri. Seguiamo così lo spostamento dei due bisnonni dal casolare alla città di Udine e poi quello dei nonni, da Udine all’hinterland milanese: è la geografia lombarda di Sesto San Giovanni, Saronno, Arese, per arrivare infine al centro di Milano.
La forza di questo lungo romanzo è la delicatezza e l’attenzione con cui viene seguita la storia di ogni personaggio, tra slanci, disillusioni, consapevolezze, fatiche e lutti. In un romanzo fiume, il più ampio tra quelli considerati in questo articolo, vengono narrate tantissime storie, che si dipanano e si intrecciano. È tutto un mondo che si apre davanti al lettore. Colpisce l’attenzione e il tenero rispetto con cui vengono seguite le vicende, le evoluzioni e le trasformazioni di questi uomini e di queste donne. Prima di noi è un’opera sia ambiziosa, perché vuole abbracciare un secolo di storia, sia umile, per l’attenzione che dimostra nel voler dare spazio ai personaggi. Ognuno di essi, infatti, ha un suo rilievo, non ci sono macchiette, ciascuno porta un desiderio, una domanda. Fontana ha uno stile piano, pulito. La sua scrittura crea spazi e silenzi, tra un’epoca e l’altra, e di alcuni personaggi racconta indirettamente, di altri tace. In fondo così è anche per la nostra vita reale, che è piena di ombre e visuali di scorcio, a volte veri e propri punti ciechi.
Tutto parte dalla storia di Maurizio, soldato in fuga dal disastro di Caporetto, un’esperienza che ha suscitato in lui una profonda rabbia contro il «potere», quello che lo ha portato a toccare e vedere la morte troppo da vicino, nelle trincee della Prima guerra mondiale. I potenti decidono, ma è poi la povera gente a dover pagare il prezzo più caro. Maurizio si salva dal fango di Caporetto fuggendo, ma questa scelta lo segna, perché in lui matura un senso di indegnità. Al tempo stesso, la vita dura ha fatto crescere in lui la paura di amare e di essere amato, perché l’amore rende deboli. Maurizio e Nadia hanno tre figli: Gabriele, Renzo e Domenico.
Con Gabriele c’è la storia di tanti nostri nonni, delle loro aspirazioni alla sicurezza. Gabriele la trova nel mondo delle parole, nelle letture, nello studio e nell’amore ostinato e fedele per una ragazza, Margherita, con la quale condivide l’interesse per la letteratura, una tenera e indefettibile passione amorosa e nuovi sogni, il trasferimento da Udine a Saronno.
C’è la parabola di Renzo, il terzo figlio, vivacissimo bambino, ragazzo pieno di vita e poi uomo rancoroso e arrabbiato per non aver partecipato alla Resistenza. Comunista convinto, testimone e attore di tante lotte sindacali per preparare l’avvento del comunismo prima e di condizioni di lavoro migliori poi.
C’è il personaggio «francescano» di Domenico, figlio di mezzo, una meteora che rappresenta l’altra faccia dell’amore, quello incondizionato per uomini e donne, per tutti coloro che soffrono, segnato da un sentimento di profonda empatia, dalla quale pure occorre difendersi per non sembrare ridicoli.
Lasciando al lettore il piacere di scoprire le vicende degli altri membri della famiglia, con un balzo cogliamo la voce finale di Letizia e di Dario, gli ultimi esponenti dei Sartori. In particolare, a Letizia è affidato lo sguardo finale e conclusivo. Il senso della lotta «in tempo di pace», di cui racconta Pecoraro, è descritto in Prima di noi in toni più temperati. «I loro nonni, e in una certa misura i loro padri, avevano dovuto sopportare il dolore fisico, fame e freddo e povertà o comunque una qualche privazione; e ora che questo dolore era terminato, a loro spettava un destino di ferite interiori. Oh, certo erano cose da poco. Nessuna guerra che meritasse di finire tra le pagine di un libro: solo una costante paura del futuro, e forse un altrettanto grande timore nel voltarsi, per rimanere pietrificati come in quella storia biblica, statue di sale, sotto il peso di quanto accaduto prima di loro, un cumulo insostenibile di morte e vita, ricchezza e spreco. Sì, davvero appariva una cosa da poco se paragonata al passato: eppure era il loro scontro»[21].
Giunti alla fine del romanzo, ci si domanda quale sia il tratto familiare che è passato di padre in figlio, dai nonni ai nipoti, segretamente, per vie carsiche e sottaciute. Per la famiglia Sartori è la paura di amare, il desiderio di libertà dai vincoli affettivi, che si traduce in solitudine, a volte in chiusura, a volte in forme di fuga. La bellezza e la forza di questo romanzo è che tutto questo viene sottilmente scoperto dal lettore; è svelato in modo delicato, con il ritmo lento di un fiume che scorre, nei meandri della storia e della complessità della vita reale e sfocia in un senso di umanissima pietà, che accoglie le debolezze e la fragile bellezza di coloro che sono venuti prima di noi. «Basta così. Dall’altro capo del tempo Nadia Tassan le aveva fatto un cenno, e lei aveva risposto: era il momento della pietà per quelle creature. Pietà dunque per Dario Sartori cresciuto senza madre tra fabbriche e fumetti; pietà per Libero Sartori abbandonato e stoico; pietà per l’adorabile Diana Sartori, la cui arte fu distrutta da un tumore; pietà per Eloisa Sartori che tradì la rivoluzione; pietà per Renzo Sartori, l’operaio fedifrago che credette nei deboli; pietà per Domenico Sartori, il ragazzo che tanto amò, ora polvere in Nordafrica; pietà per Gabriele Sartori, il poeta minore, il figlio non voluto: e pietà infine e soprattutto per un ragazzo e una ragazza che si amano in un bosco, mentre intorno la guerra incendia la terra e loro ancora non sanno che lei verrà abbandonata – e ancora non sanno che lui ritornerà»[22].
Conclusioni
Nell’articolo abbiamo preso in considerazione tre autori diversi. Ciascuno ha raccontato il Novecento usando un punto di vista distinto e un tono particolare. Li accomuna il desiderio progettuale di esprimere una sintesi del passato. Pecoraro racconta il Novecento disilluso e acre, sulfureo e cinico di chi ha perso il futuro. È il racconto più amaro e anche quello nel quale la relazione con il padre, inteso come soggetto portatore dei valori e della storia del passato, è traumatica e irrisolta. Rapino, invece, assume lo sguardo evangelico dei piccoli. Nel suo romanzo, che dà voce a chi non l’ha, la figura paterna è presente nel desiderio profondo di poterla un giorno incontrare, assente e perciò vagheggiata per tutta la vita. Infine, in Fontana, il «secolo breve» è narrato attraverso i tanti sguardi dei membri di una famiglia, simile a tante che conosciamo e nelle cui aspirazioni possiamo riconoscerci. Per Fontana, la relazione con il passato, con i suoi valori e con chi ci ha preceduto viene avvolta dal senso della pietà, che accoglie e rispetta. A noi sembra la scelta che più di tutte si può fare grembo del futuro.
La nostra non è – e non può essere – altro che una suggestione, ma è impossibile non notare come vi sia in traccia, nei tre romanzi che abbiamo presentato, lo sforzo, anche in Italia, di elaborare racconti dal respiro ampio e sintetico, e soprattutto dalla sperimentazione linguistica notevole.
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[1]. Cfr https://it.wikipedia.org/wiki/Grande_Romanzo_Americano
[2]. Cfr https://web.archive.org/web/20230926190632/https://it.wikipedia.org/wiki/Grande_Romanzo_Italiano
[3]. Con questo lungo romanzo Pecoraro vince il Premio Viareggio, il Premio Volponi e il Premio Mondello nel 2014. In quell’anno, con lo stesso libro entra anche nella cinquina finale del Premio Strega.
[4]. F. Pecoraro, La vita in tempo di pace, Milano, Ponte alle Grazie, 2013, 9.
[5]. Ivi, 225.
[6]. Ivi.
[7]. Ivi, 226.
[8]. Ivi, 147.
[9]. Ivi, 101 s.
[10]. Ivi, 158.
[11]. Ivi, 172.
[12]. Si tratta del Firth of Forth, sul fiume Tay, vicino a Dundee.
[13]. Con questo romanzo Remo Rapino vince il Premio Campiello nel 2020.
[14]. R. Rapino, Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, Roma, minimum fax, 2019, 5.
[15]. Ivi, 31.
[16]. Ivi, 48.
[17]. Ivi, 52.
[18]. Ivi, 53.
[19]. Ivi, 236.
[20]. Cfr G. Fontana, Prima di noi, Palermo, Sellerio, 2020. Con questo romanzo Fontana ha vinto il Premio Mondello e il Premio Salgari nel 2020, e il Premio Bagutta nel 2021.
[21]. Ivi, 864.
[22]. Ivi, 882.