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Come un viandante che procede a piedi – ovvero che progredisce a forza di cadute in avanti, com’è necessario a chi si muove mettendo sempre un piede davanti all’altro per mantenere l’equilibrio –, l’Europa passa di crisi in crisi. Ma che cos’è una crisi? È qualcosa che, si tratti di un evento psicosomatico, culturale o sociale, pone l’organismo davanti a un bivio; è il luogo «critico», dove a determinare il percorso da seguire sarà il criterio al momento dominante. La crisi europea è quel luogo instabile in cui il subcontinente esita tra due percorsi: quello della stabilità, che non è immobilità, ma una tensione verso l’equilibrio; o quello di un’ulteriore svolta verso lo squilibrio, che può portare alla disintegrazione.
Le basi culturali delle crisi europee
Nel 1935 Paul Hazard analizzava la crisi europea causata dal razionalismo nel XVII secolo. Ricordiamo solo la sua famosa diagnosi: «La maggioranza dei Francesi pensava come il Bossuet; tutt’a un tratto, i Francesi pensano come il Voltaire: è una rivoluzione»[1]. Era il trionfo di una ragione incentrata sulla padronanza individuale del proprio sapere – in contrapposizione alla comunità credente, reputata alienante –, che trovava il proprio riferimento in Descartes. Nello stesso anno, vale a dire nel maggio 1935, una famosa conferenza tenuta a Vienna dal filosofo Edmund Husserl veniva intitolata «La crisi dell’umanità europea e la filosofia», ossia una crisi letta come il tentativo delle scienze sociali e dei filosofi contemporanei di prendere le distanze dalla modernità. A poco a poco, alla maniera di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, veniva riconosciuta l’impossibilità di dare compimento al razionalismo strumentale nato dall’Illuminismo: «Il mito è già Illuminismo, e l’Illuminismo torna a rovesciarsi in mitologia»[2].
Oggi, l’idea che l’Europa ha della crisi si basa su questi fondamenti culturali. Poiché è incapace di dominarla tramite la ragione all’interno di una rappresentazione coerente, la polarizza nelle sue divergenti manifestazioni: di volta in volta crisi economiche, politiche, ecologiche e finanziarie, nonché crisi della governance europea, tutte vissute nella cupa prospettiva della disoccupazione, dell’aumento dei prezzi, dell’insicurezza e dei dubbi sul futuro dell’Europa stessa. Solo pochi moralisti e qualche teologo collegano le odierne crisi europee a una coscienza frammentata e a un’umanità dispersa. Così, papa Francesco parla di complessità; afferma che più logiche irriducibili interagiscono in «una sola e complessa crisi socio-ambientale»[3].
I rimedi ipotizzati, riecheggiando la crisi culturale dell’Europa, divergono quanto le analisi che vengono proposte. Se gli esperti, i politici o gli economisti non fossero esitanti, non si parlerebbe affatto di crisi dell’Europa, ma semplicemente di soluzioni dettate dalla ragione. Le terapie che conducono a tante analisi disparate sono molto divergenti. È la visione terapeutica che presiede le analisi, perché, in nome della razionalità strumentale, sono gli strumenti che pensiamo di avere in mano che inconsapevolmente modellano le diagnosi. È la sindrome del martello: quando l’unico strumento di cui si dispone è un martello, tutti i problemi sembrano chiodi da piantare! «Nella modernità culturale, la ragione viene definitivamente privata della propria esigenza di validità e assimilata a mero potere»: questa affermazione, fortunatamente, porta l’avallo e la firma di Jürgen Habermas.
Crisi superate
L’Europa è davvero in crisi? Se la salute, secondo il filosofo francese Georges Canguilhem, è la capacità dell’organismo di trasformarsi per «reagire alle infedeltà dell’ambiente», si può dire che l’Europa finora sia stata in buona salute[4]. Infatti nell’ultimo mezzo secolo ci sono state molte «infedeltà dell’ambiente», cioè colpi ricevuti dall’esterno, da cui l’Europa ha saputo riprendersi: il 15 agosto 1971, la decisione unilaterale degli Stati Uniti di sospendere l’applicazione gli accordi di Bretton Woods, che dal 1944 avevano stabilizzato il sistema dei tassi di cambio internazionali; qualche anno dopo, un aumento di cinque volte del prezzo del petrolio; poi, la disgregazione del blocco sovietico alla fine degli anni Ottanta; quindi, i problemi finanziari asiatici nel decennio successivo; e ancora, la crisi finanziaria dei subprime proveniente dagli Stati Uniti alla fine degli anni Duemila; successivamente, gli attacchi del Covid-19; infine, la recente guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina.
Per fare solo un esempio di questa resilienza europea, la crisi finanziaria del 2008 ha dato alla Ue l’occasione per correggere due delle maggiori debolezze strutturali dell’Europa finanziaria: la mancanza di un’unione bancaria e l’assenza di strumenti specifici per combattere la speculazione. Altre decisioni scaturite dalla crisi dei subprime, che avrebbero reso il sistema troppo complicato, non sono state attuate. In primo luogo, il riassetto delle regole del deficit e del debito per i Paesi europei.
Canguilhem sosteneva che la malattia è soprattutto uno sforzo per trovare un nuovo equilibrio, e che «l’organismo provoca una malattia per guarirsi»[5]. Se questo è vero, in tal caso si può affermare che l’Europa è davvero sana, perché ha sconfitto le crisi riorganizzandosi. Per dirla con Machiavelli, ogni attacco che non uccide l’Europa la rende più forte. Lo hanno dimostrato le crisi del debito greco, il salvataggio delle banche europee nel 2010, più recentemente l’accettazione del meccanismo di resilienza e reazione rapida ai disastri naturali e, infine, ma non meno importante, la coesione di fronte alla Brexit.
Per il prossimo futuro stanno emergendo tre crisi: la più immediata è l’inflazione monetaria; la più difficile da superare è la difesa europea; la più pericolosa è l’ascesa del nazionalismo.
Le cause dell’inflazione monetaria
La suddivisione internazionale del lavoro e l’interconnessione tra Paesi, imposte dalla ricerca della produttività e del profitto, fanno parte della logica universale del capitale che – per ragioni istituzionali, oltre che culturali – colpisce l’Europa più degli Stati Uniti o di altre nazioni. Inoltre, la finanza ha avuto il suo peso nell’instillare quell’abitudine – che viene dal sistema contabile che impera oltre Atlantico – che fa della redditività immediata, misurata dal valore di mercato, il criterio per una buona gestione di aziende, famiglie e Stati. Ma alcuni Paesi – pensiamo ai colossi Cina e India – sono riusciti, meglio dell’Europa, a sottrarsi a questo dominio culturale.
L’economia europea, già indebolita dalla lotta commerciale tra Cina e Stati Uniti, deve fronteggiare per conto suo un ulteriore pericolo. Agli effetti economici dell’isolamento e dei vincoli economici sull’approvvigionamento si aggiungono le conseguenze della guerra in Ucraina, di cui l’Europa sta pagando gran parte dei costi, e ciò sta portando a restrizioni delle attività e genera ansia sia nei consumatori sia nei lavoratori. Già qualche anno fa, nel 2020, le prime misure di contenimento cinesi avevano fatto avvertire le severe ripercussioni di una domanda mondiale al collasso; ora a risentirne sono le capacità produttive.
Di conseguenza, la criticità più immediata è indubbiamente l’inflazione causata dalla ripresa dell’attività globale dopo la pandemia e amplificata dalla guerra russa sul territorio europeo. Due anni fa, gli analisti ignoravano l’inflazione. Il problema era la deflazione, cioè i prezzi stabili, o addirittura in calo, che rischiavano di ridurre la crescita economica e l’occupazione a causa della debolezza della domanda. Furono promossi i cosiddetti «pacchetti di stimolo keynesiani», basati sulla spesa pubblica. Per finanziare questa spesa, la Bce ha seguito l’esempio statunitense, creando denaro in cambio di crediti verso gli Stati. A questo si sono aggiunti i 750 miliardi di prestiti europei destinati a finanziare la lotta agli effetti deleteri della pandemia. Le ragioni per non temere l’inflazione sembravano attendibili: l’effetto stabilizzante sui prezzi al consumo, causato dalla concorrenza di prodotti e servizi provenienti dalla Cina e da altri Paesi in via di sviluppo, e l’invecchiamento della popolazione europea, che favorisce un aumento del risparmio e quindi una moderazione della domanda. Allo stesso modo, anche il potere d’acquisto creato ex nihilo dalla Bce veniva dirottato su immobili e titoli.
Sfortunatamente, questi fattori antinflazionistici hanno messo a nudo i propri limiti. Il rialzo dei prezzi, accentuato dall’impennata causata dalla guerra russa in Ucraina, tende a riflettersi su aumenti salariali che rischiano di trascinare tutti i prezzi in un circolo vizioso.
Squilibri causati dall’inflazione
Riguardo all’aumento dei prezzi al consumo, ci sono grandi differenze tra i vari Paesi dell’Unione. Lo si deve non solo al mix energetico di ciascun Paese, ma anche alla varietà delle politiche nazionali. Ad esempio, l’aumento della Lituania è del 22%, quello del Belgio del 13%. In Italia, l’inflazione media nel corso del 2022 è stata dell’8,1%, il dato più alto dal 1985. La Germania protegge le sue industrie più che i suoi consumatori, e ne è conseguita un’inflazione di oltre il 12%. La Francia, invece, ha adottato uno «scudo tariffario» che ha limitato l’inflazione interna al 6%. L’inflazione a due cifre – oltre il 10% annuo – è una realtà che non si vedeva dalla metà degli anni Ottanta, e oggi è alle porte dell’Europa. Secondo le stime della Bce di fine dicembre 2022, nel 2023 i prezzi dovrebbero aumentare di oltre il 6,3%. Il fatto che l’impennata resti leggermente inferiore a quella degli Stati Uniti non è di grande consolazione.
Contrariamente agli economisti che in questa inflazione scorgono una buona notizia, essa può rappresentare un pericolo economico e politico, oltreché – e soprattutto – sociale. Da un lato, l’inflazione fa bene al bilancio dello Stato, alle imprese o alle famiglie indebitate, almeno per i debiti non indicizzati all’inflazione. Per quanto riguarda lo Stato, per il fatto che le risorse legate all’Iva si accrescono automaticamente con l’aumentare dei prezzi, e anche per il fatto che il debito, e quindi il suo rimborso, diminuiscono in termini reali. D’altra parte, l’inflazione stimola – almeno inizialmente – i consumi, per non dover pagare di più domani il prodotto che si può acquistare oggi a un prezzo inferiore. Questo finché il timore dell’aumento del costo della vita, per non parlare delle tasse, non porta i consumatori a risparmiare di più.
D’altra parte, sul piano strettamente finanziario, la situazione europea si sta deteriorando. Sospinto dall’inflazione europea, l’euro sta scendendo sul mercato dei cambi – nel corso del 2022 si è registrato un calo di oltre il 10% rispetto al dollaro, prima di riprendersi nelle prime settimane del 2023 –, e ciò fa salire il prezzo delle importazioni, incluso il petrolio, e aumenta il servizio del debito per i debiti denominati in dollari. Per rallentare tale declino, la Bce medita di alzare il tasso di interesse, ma questo desiderio viene rintuzzato dal già eccessivo indebitamento dei Paesi dell’Europa meridionale.
Sebbene non tutti i debiti si debbano oggi – la scadenza media è di poco superiore agli otto anni –, i prestiti periodici che ripagheranno tali debiti saranno a tassi di interesse sempre più elevati. Le obbligazioni societarie europee a cinque anni con rating BBB oggi rendono circa il 4,50%, rispetto allo 0,25% dell’inizio del 2022. Nel 2023, Francia o Germania prenderanno in prestito sui mercati tra i 300 e i 500 miliardi di euro. Qualsiasi aumento di un punto base – per esempio dal 2% al 3% – costerà quindi tra i 3 e i 5 miliardi.
«Le ferite del denaro non sono fatali», replicano gli ottimisti, soprattutto se si può contare sulla creazione di denaro ex nihilo da parte della Bce; tanto più che, esclusi i beni alimentari e l’energia, la cosiddetta «inflazione core» sembra stabile, nonostante la guerra in Ucraina. Inoltre, un numero crescente di dati sembra indicare che l’inflazione potrebbe stabilizzarsi. Anche i recenti cali dei prezzi di una serie di materie prime «pesanti» (legno e metalli) e «leggere» (prodotti agricoli industriali) suggeriscono che il peggio sia passato. Allo stesso tempo – e sull’altro piatto della bilancia – questo possibile livellamento dell’inflazione potrebbe semplicemente indicare un rallentamento dell’attività economica.
Gli effetti sociali dell’inflazione
Gli effetti divergenti delle politiche antinflazionistiche adottate nei diversi Stati membri dell’Ue stanno provocando distorsioni della concorrenza tra i Paesi europei del Nord e del Sud. Il futuro dell’inflazione è tanto più incerto in quanto la guerra in Ucraina sta gettando un’ombra lunga sull’economia mondiale.
Qualunque sia il futuro economico e geostrategico dell’Europa, l’inflazione presenterà questi svantaggi: l’aumento dei tassi di interesse ostacolerà gli investimenti e i consumi a credito; la distorsione della struttura generale dei prezzi porterà a investimenti sprecati perché calcolati su false basi. Ma il pericolo principale riguarda la giustizia sociale. Questi effetti sociali dell’inflazione monetaria devono essere ricordati ai tecnocrati che guardano solo alle loro tabelle di cifre.
L’inflazione arrecherebbe pochi effetti sociali dannosi se tutti i redditi fossero indicizzati. Ma è tutt’altro che così. I pensionati se ne accorgono da tempo, e la modesta rivalutazione delle pensioni di base nell’estate 2022 non colmerà le lacune accumulate negli ultimi anni sia nella previdenza primaria sia in quella complementare. Per i pensionati che contavano sui fondi pensione per avere una pensione dignitosa, la politica monetaria della Bce – fino al 2021 – di abbassare i tassi di interesse non è una buona notizia. È quella che Keynes chiamava cinicamente «l’asfissia dei risparmiatori». Parlando in generale, tutti coloro che non sono né salariati né dipendenti pubblici troveranno più difficile proteggersi dall’inflazione.
A ciò si aggiunge un fenomeno meno percepito, derivante dalla struttura dei consumi per livello di reddito. L’inflazione è più alta nei settori alimentare ed energetico, che insieme rappresentano in media il 30% dei bilanci delle famiglie europee, rispetto al 20% di quelle svizzere. Queste semplici medie celano forti disparità. La maggiore inflazione colpisce infatti le persone più precarie e le famiglie con redditi modesti. E ciò spiega perché l’inflazione, che in Europa nel 2022 è oscillata intorno al 6%, raggiunga oltre il 10% nel caso delle famiglie più vulnerabili. I costi aggiuntivi – esclusi gli aiuti sociali, spesso di difficile accesso per motivi burocratici e culturali – legati all’abitazione, all’automobile o agli elettrodomestici in Europa sono stimati in 1.500 euro all’anno per le famiglie povere.
La complessità della situazione deriva dal fatto che i vantaggi per i debitori – Stato, imprese indebitate, famiglie indebitate – e gli svantaggi per i creditori, soprattutto per i più poveri tra i risparmiatori, non sono gli stessi per le diverse categorie sociali. Per superare la crisi sociale causata da questa complessità, l’Unione europea dovrà fare una scelta chiara.
La decisione è molto più difficile di quanto non faccia intendere l’aforisma «più ti indebiti, più penalizzi le generazioni future!»[6]. Infatti ciò non è del tutto vero. L’inflazione generata da questa politica taglia la ricchezza dei risparmiatori attuali, non futuri. Anche in questo caso il fenomeno monetario opera un subdolo prelievo obbligatorio, non controllato dal Parlamento, che avrebbe questo ruolo primario. È qui che si cela una deviazione discreta dalle pratiche democratiche.
La difesa europea
Dopo la Seconda guerra mondiale, il trattato di Parigi creò nel 1951 la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), che entrò in vigore il 23 luglio 1952, per concludersi il 23 luglio 2002. In quel periodo prevaleva uno spirito di pace, ben lontano dall’ostilità manifestata nei trattati precedenti[7]. Questo spirito di pace animò i primi fondatori, l’italiano Alcide De Gasperi, il tedesco Konrad Adenauer, il francese Jean Monnet, il belga Paul-Henri Spaak, l’olandese Johan Willem Beyen, tutti cristiani, coordinati da Robert Schuman. Questi, nel suo celebre discorso del 9 maggio 1950, aveva sancito l’appassionato obbligo di cooperazione tra i Paesi europei, compresi la Repubblica federale di Germania e l’Italia, che erano state escluse dai trattati precedenti.
Il trattato della Ceca ha delineato l’orizzonte verso il quale l’Europa si sta muovendo, non senza esitazioni o passi indietro. Alla sua guida, infatti, era posta una «Alta Autorità» che poteva intervenire sovranamente in ogni Paese membro, ma solo sulle questioni riguardanti direttamente la produzione indispensabile per l’industria degli armamenti. La sovranazionalità era dunque già presente, seppure orientata alle condizioni economiche della guerra. Con la guerra in Ucraina, le condizioni odierne si ribaltano.
Quella logica del dopoguerra è stata dimenticata quando, nel 1987, fu firmato l’Atto unico europeo, che infranse la regola dell’unanimità per alcune decisioni. Ammissibile quando il numero dei membri era ridotto (sei), la regola dell’unanimità diventava proibitiva nel momento in cui quel numero aumentava. Certo, alcune decisioni europee – la più importante delle quali riguarda la tassazione – richiedono ancora l’unanimità. D’altro canto, in un numero crescente di ambiti – ulteriormente ampliati nel 1992 dal Trattato di Maastricht, sulla scia dell’Atto unico europeo – è sufficiente la maggioranza qualificata. Ma la maggioranza qualificata comporta un problema di giustizia nella rappresentanza di Paesi il cui peso demografico ed economico è molto diverso. Come si fa a garantire che il Lussemburgo, la Croazia o il Belgio siano ascoltati allo stesso modo della Germania, dell’Italia o della Francia? Questo è il motivo per cui, nella storia dell’Europa, l’Atto unico europeo del 1987 segna il passaggio dell’Europa da una logica del dopoguerra a una logica di giustizia tra i Paesi membri.
L’attacco russo del febbraio 2022 contro l’Ucraina ha riportato in auge il vecchio e dimenticato approccio militare in reazione al quale è nata l’Unione europea. Ma questo attacco segna l’inversione dello scopo. Non si tratta ormai tanto di contenere la capacità di ciascuno dei Paesi membri riguardo ai propri arsenali e armamenti, quanto di promuovere la collaborazione militare in Europa di fronte a un nemico comune. Mentre l’attuazione di una difesa militare autonoma dell’Unione è di là da venire, l’industria militare americana approfitta dell’assenza di un coordinamento europeo per vendere i propri equipaggiamenti. La Germania, che sta allargando il suo divario industriale rispetto alla Francia e agli altri Paesi dell’Unione (come attesta il suo rifiuto a fissare un tetto al prezzo del gas), sospetta che la Francia, con il pretesto della cooperazione europea, voglia favorire la propria industria degli armamenti. Tra gli altri membri dell’Unione si manifesta un fastidio crescente sul «privilegio» di cui gode la Francia in quanto titolare di un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu; desiderano sempre più apertamente che esso venga trasferito all’Unione. D’altra parte, la Francia non vuole rinunciare alle proprie risorse nucleari senza averne qualcosa in cambio.
Nel marzo 2022, pochi giorni dopo l’inizio dell’attacco russo all’Ucraina, sotto la presidenza francese, l’Ue ha adottato una «bussola strategica per la sicurezza e la difesa»[8]. Questo libretto di 47 pagine offre una panoramica dei possibili conflitti militari nel mondo. Gli Stati Uniti sono presentati come «una potenza globale che contribuisce alla pace, alla sicurezza, alla stabilità e alla democrazia nel nostro continente» e rimangono «il più leale e il più importante partner strategico dell’Ue». È lecito pensare che, pur concordando sul fatto che gli Usa restano il partner «più importante», l’espressione «partner leale» sia discutibile; abbiamo visto gli errori americani in Vietnam, Somalia, Afghanistan, Iraq, Libia, Siria; il loro atteggiamento verso la Francia nella vicenda dei sottomarini venduti all’Australia; le flagranti distorsioni della concorrenza contro l’Europa, nello scorso dicembre 2022, con i massicci sussidi ai produttori locali di automobili. In linea con questo pensiero, si può scommettere che gli Usa difenderanno Taiwan contro la Cina continentale, fino a quando non avranno ricostruito una buona industria dei semiconduttori sul suolo americano; e il sospetto sembra condiviso da alcuni leader taiwanesi.
Qualunque sia la futura geopolitica mondiale, nella sua rubrica sulla rivista Études, pubblicata nel giugno 2022, Thomas Gomart, direttore dell’Ifri (Istituto francese di relazioni internazionali), sottolinea «il divario a dir poco problematico tra la dichiarata determinazione a “difendere l’ordine di sicurezza europeo” e le relative capacità di agire»[9].
Il nerbo della guerra, la finanza
Anche se l’Europa si rafforzasse e respingesse gli attacchi dall’esterno, riuscirebbe a superare gli inevitabili contrasti finanziari? Bisogna fare i conti con quanto è accaduto alla solidarietà finanziaria in Europa, con la solitudine della Bce alle prese con la gestione della crisi energetica, le sanzioni alla Russia, il blocco del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza[10]), i fondi all’Ungheria e alla Polonia, la lotta all’inflazione con l’innalzamento dei tassi. La Norvegia, il più grande produttore di energia, appare cinica e non sostiene il resto della comunità. Germania e Olanda non vogliono avallare la creazione di un programma di aiuti simile a quello tentato con il Covid-19 per aiutare i Paesi colpiti dall’aumento dei costi energetici. Il punto centrale è l’articolazione della politica europea con la finanza, ovvero le due facce delle crisi che vengono dall’interno dell’Europa. Questione ardua, ben sintetizzata dall’aforisma attribuito a Joseph-Dominique Louis (detto «Baron Louis»): «Sire, dateci buona politica e io vi darò buona finanza»[11]. Ma la difficoltà da allora si è raddoppiata, perché la finanza può anche eludere la volontà politica.
Il prototipo europeo di un tale aggiramento della volontà politica da parte della finanza è stato senz’altro la guerra condotta da Otto von Bismarck contro l’Austria. Per completare l’unità degli Stati tedeschi intorno alla Prussia, il cancelliere decise di dichiarare guerra agli Asburgo che a Vienna governavano ciò che restava del Sacro Romano Impero. Chiese al Parlamento prussiano i crediti militari necessari, che furono negati. A quel punto, si rivolse al banchiere Gerson von Bleichröder, che organizzò un consorzio di banche in grado di finanziare la guerra della Prussia. Ciò condusse alla vittoria gli eserciti prussiani sotto la guida del generale Helmuth von Moltke – il 3 luglio 1866, a König Gratz –, nota come la vittoria di Sadowa. Ecco come la finanza può sovvertire la volontà politica.
Tuttavia, non tutte le impasse di bilancio sono necessariamente un’elusione antidemocratica del potere politico. Una situazione di stallo di bilancio si verifica quando il Parlamento decide di non coprire con le tasse la totalità delle spese preventivate, perché fa affidamento sui prestiti. Come in una partita a carte, lo stallo è una scommessa: in questo caso, una scommessa sulla fiducia della società civile, i cui risparmiatori di fatto potranno accordare i prestiti necessari o rifiutarsi di farlo.
Viceversa, l’appello alla banca centrale per finanziare l’impasse – indirettamente, perché farlo direttamente è vietato dalla normativa europea – attesta uno scavalcamento della sfera finanziaria da parte del potere politico.
L’ascesa del nazionalismo
Per quanto il nemico esterno possa risultare utile per riunificare le nazioni europee, questo basterà a compensare le forze centrifughe che minacciano l’Europa? Il nazionalismo in Europa sta prendendo a pretesto, oltre che i migranti del Sud e dell’Est del Mediterraneo, alcune sentenze della Corte di giustizia europea che vietano, in nome dei diritti umani, l’espulsione degli stranieri che hanno commesso reati sul territorio nazionale.
L’invasione dell’Ucraina ha portato ad attuare la direttiva del 4 marzo 2022 sulla «protezione temporanea» – di un anno, rinnovabile per due volte – dei migranti che provengono dall’Ucraina. D’ora in poi, nonostante i tre accordi di Dublino (omologhi dello spazio Schengen del 1985) che obbligano il Paese di ingresso a trattare la domanda di asilo, i residenti ucraini possono stabilirsi nel Paese europeo di loro scelta; beneficiano automaticamente del permesso di soggiorno, del diritto al lavoro e della copertura sociale, anche per l’istruzione. Ciò ha permesso alla Polonia – e in misura minore all’Ungheria –, sotto minaccia di «rilasciare» la massa di profughi che hanno raccolti in Occidente, di fare pressione con successo sull’Unione europea nella vertenza in corso con loro.
Il blocco dei fondi del Pnrr a Ungheria e Polonia è stata la risposta dell’Europa ad alcuni comportamenti ritenuti contrari ai valori europei. Dal 2019 la Commissione europea chiedeva lo smantellamento della Sezione disciplinare istituita dal governo polacco presso la Corte suprema con il compito di pronunciarsi sulle cause riguardanti lo status e l’esercizio di funzioni dei giudici della Corte stessa. La Corte di giustizia europea ha ritenuto tale istituzione non conforme allo stato di diritto, fondato sull’indipendenza dell’autorità giudiziaria. Da parte sua, la Corte costituzionale polacca ha reagito con la celebre sentenza del 7 ottobre 2021, ribadendo che gli organismi dell’Unione, quando tentano di imporre alla Polonia la modifica delle proprie istituzioni giudiziarie, «operano al di fuori delle competenze loro affidate dai trattati».
In realtà, la controversia è molto più complessa di quanto possa sembrare, rilanciando l’annosa questione del corretto bilanciamento tra le esigenze derivanti dal principio di sovranità statale e il principio di sussidiarietà nell’Unione. Sta di fatto che, a prescindere dalle interpretazioni giuridiche e giornalistiche che ne vengono date, la Commissione europea aveva congelato il pagamento dei 23,9 miliardi di euro di contributi e degli 11,5 miliardi di prestiti previsti per la Polonia. E, nonostante una legge approvata lo scorso maggio dalla Camera bassa del Parlamento polacco preveda di sostituire la Sezione disciplinare con una nuova Sezione della responsabilità professionale, più conforme ai dettami del diritto europeo, la decisione di Bruxelles di approvare il Pnrr della Polonia resta comunque vincolata al raggiungimento di ben 283 «milestones and targets», al fine di sbloccare i pagamenti a Varsavia.
Nel caso dell’Ungheria, il motivo della sospensione dei previsti 6,3 miliardi di euro è stata la corruzione. Le riserve opposte a questo Stato rispondono alla condizione che gli aiuti europei non vengano dilapidati, avallata dal Parlamento europeo su richiesta dei Paesi del Nord Europa – in testa, l’Olanda – durante la trattativa per il piano di rilancio europeo durante il primo attacco del Covid-19, nel 2020.
Polonia e Ungheria sono state riluttanti a dare il loro assenso su materie europee per le quali vige la regola dell’unanimità, in particolare la tassazione. Già nel dicembre 2021 i due Paesi si erano dimostrati riluttanti quando si è trattato della tassa sui profitti delle società transnazionali e della carbon tax. Alla fine l’Ungheria ha revocato il veto nel dicembre 2022, per 18 miliardi di euro, e ha acconsentito all’introduzione della «tassa sul carbonio» ai confini dell’Europa, nonché della aliquota minima del 15% sugli utili delle società multinazionali con sede in un qualsiasi Paese dell’Unione.
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La Bce da sola non può superare le crisi europee
Negli ultimi trent’anni, la consuetudine di finanziare i disavanzi pubblici creando denaro ha contribuito ad attutire gli shock ciclici provenienti dall’esterno dell’Europa. D’altra parte, questa politica del denaro facile, attuata fino al 2021, ha accecato i governi europei riguardo al fatto che le riforme strutturali non possono essere rinviate all’infinito. È vero che uno dei più grandi presidenti della Commissione europea, Jacques Delors, era solito affermare che l’euro avrebbe portato pace, prosperità e competitività. Ma dobbiamo ammettere che l’unione monetaria non è in grado, da sola, di aumentare la produttività[12]. Tanto più che il livello di indebitamento raggiunto dai Paesi dell’Europa meridionale impedisce alla Bce di alzare i tassi di interesse al livello che sarebbe necessario per svolgere adeguatamente il proprio ruolo economico. Per renderlo possibile, i tassi reali – cioè tenuto conto dell’inflazione – dovrebbero essere positivi, mentre sono ancora ampiamente negativi. La Bce si accontenta, quindi, di salvaguardare la propria credibilità alzando i tassi leggermente al di sopra dello zero. Già questo comporterà un aumento dell’onere finanziario dei Paesi coinvolti.
Come la legge non è fatta per il macellaio o il falegname, ma per il cittadino, così la moneta europea non è concepita per gli attori economici – le famiglie, le imprese e, sempre più, gli Stati dell’Unione –, ma per l’economia europea. Nella pratica, ogni Paese membro la usa secondo la sua situazione particolare, e ne beneficia – o ne risente – in maniera diversa. Quando modifica l’allocazione delle risorse e dei rischi, l’azione della Bce assume un ruolo politico sempre più evidente. Questo ruolo si rafforzerà se si accetterà – come propongono alcuni economisti – che la Bce finanzi direttamente le imprese in settori privilegiati, come la transizione ecologica, la ricerca nel digitale, le imprese del settore dell’idrogeno o delle celle a combustibile, o ancora la formazione.
L’attuale politica della Bce, spostando i rischi finanziari sui Paesi del Sud, non può che affievolirne non il potere, che dipende solo dai trattati europei e dal lassismo con cui vengono interpretati, ma l’autorità. Un’autorità di cui essa ha bisogno per mantenere il necessario sostegno popolare che l’euro ha convogliato e accresciuto. Certo, la condivisione dei rischi non è l’unica condizione per mantenere la fiducia nel funzionamento del sistema finanziario europeo: sta alla Bce proporre ancora obiettivi monetari precisi e mezzi proporzionati, tutti requisiti che ne diminuiscono il potere. Resta il fatto che l’autorità – e non solo il potere – dell’istituzione monetaria è indispensabile per il buon funzionamento dell’economia europea.
Conclusione
Le autorità politiche europee (Consiglio, Commissione, Parlamento), ma allo stesso modo le sue autorità giudiziarie (Corte di giustizia europea), non possono sottrarsi alla crisi latente della modernità, lontana incarnazione sia della ragione sovrana (Hazard) sia dell’umanità europea (Husserl). La crisi latente della modernità sta nella scelta cruciale tra il «globale» e il «locale». I politici attuali non possono più rifugiarsi nella «partecipazione di tutti» o nascondersi dietro l’«etica» e i loro «Comitati», per non assumersi le decisioni. Devono discernere caso per caso, come suggerisce Habermas, basandosi soltanto su regole capaci di federare valori da applicare alla pratica.
Sono decisioni difficili, perché, nella modernità, non possiamo conoscere il «globale» esplorando solo il «locale». E viceversa, il «locale» non è del tutto deducibile dalla logica del «globale». Dovremmo «pensare “locale” e agire “globale”» perché «per agire, dobbiamo localizzare»[13]? O, al contrario, come sostenevano i rivoluzionari del Chiapas, dovremmo «pensare “globale” e agire “locale”»? È infatti necessario tenere insieme queste due posizioni contraddittorie: è la croce della politica e la fonte permanente delle attuali crisi dell’Europa, così come di qualsiasi Paese in mutazione. Per dirla al modo in cui Stephan Zweig si espresse a proposito di Erasmo da Rotterdam, l’Europa potrà superare le sue crisi solo «resistendo alle tonanti sirene delle vane pretese di re, faziosi ed egoismi nazionali»[14].
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[1]. P. Hazard, La crise de la conscience européenne, 1680-1715, Paris, Boivin et Cie, 1935 (in it. La crisi della coscienza europea, Torino, Utet, 2019, 53).
[2]. M. Horkheimer – T. W. Adorno, Philosophische Fragmente, New York Institute of Social Research, 1944; Dialektik der Aufklärung, Amsterdam, Querido, 1947 (in it. Dialettica dell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 2010; edizione Kindle, pos. 892).
[3]. Francesco, Lettera enciclica Laudato si’ (2015), n. 139.
[4]. G. Canguilhem, Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique, Clermont-Ferrand, «La Montagne», 1943 (in it. Il normale e il patologico, Rimini, Guaraldi, 1975, 156).
[5]. Ivi, 13.
[6]. Dichiarazione espressa dal primo presidente della Corte dei conti francese nel presentare, all’inizio di luglio 2022, un rapporto allarmista sullo stato delle finanze pubbliche nazionali.
[7]. Lo spirito delle conferenze interalleate di Teheran (dicembre 1943), Yalta (febbraio 1945) e degli accordi di Potsdam (luglio-agosto 1945) era intriso di un desiderio di rappresaglia che per alcuni rasentava la sete di vendetta. Anche il Trattato di Dunkerque, firmato il 4 marzo 1947 tra il Regno Unito e la Francia, era basato su un’aperta ostilità nei confronti della Germania.
[8]. Consiglio dell’Unione europea, «Una bussola strategica per la sicurezza e la difesa. Per un’Unione europea che protegge i suoi cittadini, i suoi valori e i suoi interessi e contribuisce alla pace e alla sicurezza internazionali» (https://bit.ly/3H00hPl), 21 marzo 2022.
[9] . Th. Gomart, «L’Union européenne à la recherche d’une orientation stratégique», in Études 166 (2022/6) 29 s.
[10]. Il Pnrr mira a contrastare gli effetti socioeconomici della pandemia di Covid-19.
[11]. Joseph-Dominique Louis, nominato barone dell’Impero napoleonico nel 1809. Durante la Restaurazione, sotto il regno di Luigi XVIII, fu designato ministro delle Finanze Charles-Maurice de Talleyrand, allora primo ministro.
[12]. Cfr É. Perrot, «L’euro compie vent’anni», in Civ. Catt. 2022 I 253-264.
[13]. G. Canguilhem, Essai sur quelques problèmes concernant le normal et le pathologique, cit.
[14]. S. Zweig, Triumph und Tragik des Erasmus von Rotterdam, Wien, Reichner, 1934 (in it. Erasmo, Roma, Castelvecchi, 2015).
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