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La promessa di Dio ad Abram
Il ciclo di Abramo comincia con la descrizione di una famiglia di nomadi che migrano nella Mesopotamia di qualche millennio fa. Terach ha tre figli: Abram, Nacor e Aran. Non sappiamo nulla della relazione tra questi fratelli, ma sappiamo che Aran muore mentre suo padre è ancora vivo. Inoltre, Sara, moglie di Abram, non può avere figli. Attraverso poche pennellate vengono descritti i traumi e i drammi di una famiglia che, con alla testa il suo patriarca, emigra verso una nuova terra.
Il viaggio da Ur a Canaan intrapreso da Terach s’interrompe a Carran, a metà strada. È qui che Abram riceve una parola da Dio che si innesta proprio laddove è situata la sua ferita più grande: l’incapacità di avere figli, che lo lascia senza un erede che dopo di lui traghetti il suo nome da una generazione all’altra.
«Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dal luogo della tua nascita e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti mostrerò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e sarai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”» (Gen 12,1-3).
Abram è invitato a riprendere il cammino, separandosi da quei legami che fino ad allora avevano intessuto la sua vita, per poter diventare fecondo secondo la logica della creazione che avviene attraverso separazione. Abram, dunque, dovrà distaccarsi dal padre affinché il Signore lo renda una grande nazione. In che modo si realizzerà questa promessa, dato che il patriarca e sua moglie sono già avanti negli anni?
Un figlio surrogato e il figlio della promessa
Passano 10 anni, ma Abram e Sarai rimangono senza figli. Nonostante Dio rinnovi all’anziano patriarca la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo (cfr Gen 15,5), possiamo immaginare la delusione e la frustrazione vissuta dalla coppia. Realisticamente, a causa dell’età avanzata, la paternità e la maternità sembrano un sogno irrealizzabile. Eppure, le prime parole di Sarai nel racconto della Genesi aprono una nuova strada per ottenere quel figlio che, seppur promesso, tarda ad arrivare. «1Ma Sarai, moglie di Abram, non aveva partorito per lui. Aveva una domestica egiziana e il suo nome era Agar. 2Sarai disse ad Abram: “Ecco, ti prego, il Signore mi ha impedito di partorire; va’, ti prego, verso la mia domestica: forse sarò costruita / avrò un figlio da lei”. Abram ascoltò la voce di Sarai» (Gen 16,1-2).
La scorciatoia di una madre surrogata consentirà alla coppia di avere quel figlio tanto atteso. La controversa pratica del cosiddetto «utero in affitto», un tema oggi tanto dibattuto, era conosciuta anche nel mondo antico. Diverse fonti, infatti, attestano che, in caso di sterilità della donna, la maternità vicaria veniva praticata nel Vicino Oriente Antico[1]. Il corpo della schiava veniva utilizzato dal padrone per generare figli quando la moglie era impossibilitata a concepire. La parola di Dio tarda a compiersi, e l’espediente suggerito da Sarai sembra una via di fuga davanti a questo «ritardo». «3Sarai, moglie di Abram, prese Agar l’egiziana, sua domestica – alla fine di dieci anni del soggiornare di Abram in terra di Canaan – e la diede ad Abram, suo marito, a lui in moglie. 4Egli venne verso Agar ed essa concepì e vide che aveva concepito e la sua padrona fu spregevole ai suoi occhi» (Gen 16,3-4).
La soluzione adottata dalla coppia nel suo attuarsi si rivela molto più problematica di quanto sembrava. Una volta incinta, la schiava inizia a guardare Sarai con scherno, e la stessa Sarai, sentendo su di sé questo sguardo di disprezzo, manifesta ad Abram tutto il suo disappunto. L’anziano patriarca autorizza Sarai a disporre della schiava a suo piacimento. Alla fine, la logica padronale è quella che prevale e Agar viene tormentata dalla sua padrona al punto da dover fuggire nel deserto. A proprie spese la schiava egiziana apprende che, anche se attende un figlio dal suo padrone, rimane ancora lei la più debole in una logica di gerarchia di rapporti.
Eppure, Dio si fa carico della sofferenza di Agar e ha una parola per lei e per il bambino che nascerà. L’angelo del Signore[2] si rivela ad Agar presso una sorgente e la consola con una promessa di fecondità simile a quella fatta ad Abramo (cfr Gen 15,5; 22,17): «10Le disse ancora l’angelo del Signore: “Certamente moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla, tanto sarà numerosa”. 11Disse a lei l’angelo del Signore: “Ecco, sei incinta e partorirai un figlio e chiamerai il suo nome Ismaele [= Dio-ascolta] perché il Signore ha ascoltato la tua afflizione. 12Egli sarà come un asino selvatico; la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà di fronte/contro la faccia di tutti i suoi fratelli”. 13Agar, al Signore che le aveva parlato diede questo nome: “Tu sei il Dio della visione”, perché diceva: “Non ho forse visto il dorso di colui che mi vede?”. 14Per questo il pozzo si chiamò pozzo di Lacai-Roì» (Gen 16,10-14).
Il nome del bambino sarà Ismaele a motivo dell’intervento del Signore, che ascolta Agar la schiava e si prende cura di lei e del figlio. Il Dio di Abram si lega indissolubilmente a Ismaele con la benedizione che aveva già riservato al padre, ma nell’oracolo sono inclusi anche i fratelli. Infatti, Ismaele non resterà un figlio unico. È vero che si preannuncia per lui una vita selvatica in lotta contro tutti, ma alla fine egli vivrà faccia a faccia con i suoi fratelli, al tempo stesso distante e prossimo rispetto ai suoi familiari. Nella terra, perciò, ci sarà spazio per tutti e la possibilità di una convivenza tra fratelli. Infine, il luogo in cui Dio si manifesta riceve un nuovo nome, che gli viene dato proprio da Agar. Questo stesso sito sarà significativamente menzionato più avanti nel racconto.
Tredici anni dopo la nascita di Ismaele verrà alla luce Isacco, il figlio del sorriso. Infatti, in ebraico il nome «Isacco» significa «egli riderà». Questo nome verrà dato da Dio a motivo del sorriso di Abramo (cfr Gen 17,17) e di sua moglie Sara (cfr Gen 18,12). Davanti all’annuncio di un figlio per l’anziana coppia, il riso di entrambi manifesta incredulità e un non troppo velato scetticismo. Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e disse nel suo cuore: «A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all’età di novant’anni potrà partorire?» (Gen 17,17).
Abramo non solo nasconde il suo sorriso, ma lascia nel cuore i suoi reali pensieri e le sue incertezze senza confessarli a Dio, che invece replica: «No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco» (Gen 17,19). Il Signore conosce bene quello scetticismo che Abramo non può nascondergli. Successivamente, quando Dio visiterà nuovamente Abramo, Sara, non vista perché si trova dietro la tenda, ascolta le parole che il Signore rivolge al patriarca: «10 “Certamente tornerò da te fra un anno a questa data ed ecco Sara, tua moglie, avrà un figlio” […]. 12Allora Sara rise dentro di sé dicendo: “Avvizzita come sono, dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!”» (Gen 18,10.12). Sara reagisce con un sorriso davanti a questa promessa. Il lettore ha anche il privilegio di entrare nei pensieri della donna, che manifestano le sue perplessità riguardo sia alla propria condizione sia a quella dell’anziano marito.
Dopo tanta attesa, la parola del Signore si compie: «6Allora Sara disse: “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me!”. 7Poi disse: “Chi avrebbe mai detto ad Abramo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia!”» (Gen 21,6-7). Isacco, il figlio del sorriso, viene finalmente al mondo, e questa volta il riso è espressione di una gioia incontenibile. Come si relazioneranno tra loro i due fratelli, entrambi figli di Abramo, ma nati da madri differenti? In che modo gli stati d’animo e le attese dei genitori influenzeranno il cammino dei due fratelli e la loro interazione[3]?
Due fratelli distanti
La prima interazione tra i due fratelli è raccontata in un episodio controverso che, nel corso della storia dell’interpretazione, è stato commentato in modi molto differenti tra loro. Durante una grande festa celebrata in onore di Isacco, lo sguardo di Sara cade su Ismaele, ed ella reagisce duramente a causa di ciò che vede: «8Il bambino crebbe e fu svezzato, e Abramo fece un grande banchetto nel giorno che Isacco fu svezzato. 9Ma Sara vide che il figlio di Agar l’Egiziana, quello che lei aveva partorito ad Abramo, scherzava [con Isacco suo figlio]. 10Disse allora ad Abramo: “Scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non sarà erede con mio figlio Isacco”» (Gen 21,8-10).
L’atmosfera di festa per lo svezzamento di Isacco viene rovinata dalla richiesta che Sara rivolge ad Abramo di espellere Agar e Ismaele a causa di ciò che quest’ultimo sta facendo nel corso del banchetto. Al versetto 9, nel testo ebraico troviamo il verbo ṣāḥāq, «ridere», che indica l’azione compiuta da Ismaele e che in tale forma verbale significa «scherzare, giocare, deridere». Questo termine ebraico è omofono al nome Isacco che, come abbiamo detto, significa «egli riderà». Inoltre, nella versione greca dei LXX viene specificato che Ismaele scherzava «con Isacco suo figlio». Cosa ha visto Sara, al punto da suscitare in lei una reazione che appare spropositata agli occhi del lettore? Secondo la LXX, la Vulgata e il Targum Onkelos, Ismaele giocherebbe con Isacco. Un’altra interpretazione antica dà a questo verbo una connotazione sessuale, come si evince dalle altre occorrenze del verbo nel testo biblico (cfr Gen 26,8; 39,14.17). Ismaele, dunque, starebbe molestando Isacco[4]. Secondo il Targum Pseudo-Jonathan, Ismaele starebbe giocando con gli idoli[5]. Secondo san Paolo, invece, Ismaele perseguiterebbe Isacco (cfr Gal 4,29).
Tutte queste interpretazioni si concentrano sul significato del verbo, mentre raramente viene considerato come al centro della scena non sia tanto ciò che accade tra Ismaele e Isacco, quanto la percezione che Sara ha dell’evento. La focalizzazione del racconto, infatti, è dal punto di vista di Sara, ed è attraverso il suo sguardo che il lettore coglie ciò che avviene sulla scena. Non a caso Ismaele non viene chiamato per nome, ma definito come «il figlio di Agar l’Egiziana». Il riso e lo scherzo di Ismaele verrebbero interpretati da Sara in maniera malevola, con invidia e gelosia. Abbiamo visto che in ebraico c’è un sottile gioco di parole che nasce dall’assonanza tra il nome «Isacco» e il verbo «scherzare». È come se agli occhi di Sara Ismaele non solo giocasse, ma addirittura volesse fare l’Isacco, usurpando il posto di primogenito che spetta al figlio di Sara, il «vero» figlio della promessa che Dio ha fatto ad Abramo[6].
L’anziano patriarca non reagisce bene davanti alla pretesa di Sara che, con disprezzo verso «questa schiava» Agar, vuole allontanare Ismaele e negargli l’eredità e, insieme ad essa, la possibilità di una convivenza e di una condivisione con il fratello Isacco: «11La cosa sembrò molto male agli occhi di Abramo a motivo di suo figlio. 12Ma Dio disse ad Abramo: “Non sembri male ai tuoi occhi, riguardo al fanciullo e alla tua schiava, tutto quello che dirà a te Sara; ascolta la sua voce, perché in Isacco da te prenderà nome una stirpe. 13Ma io farò diventare una nazione anche il figlio della schiava, perché egli è tua discendenza”» (Gen 21,11-13).
Paradossalmente, il Signore si rivolge ad Abramo e gli comanda di obbedire a Sara. Ancora una volta, Dio è capace di scrivere dritto sulle righe storte e da questa dolorosa separazione verrà qualcosa di buono. Come promesso da Dio, Abramo sarà padre di una moltitudine di nazioni anche attraverso Ismaele (cfr Gen 17,4-6.20). I percorsi dei due fratelli, dunque, si dividono, ma entrambi i figli di Abramo rimangono sotto il segno della benedizione divina[7]. Anche se lontani, si ritrovano uniti dal Dio di Abramo, che è anche il loro Dio.
Due vite in parallelo
Le vite di Isacco e Ismaele non si incrociano per lungo tempo[8], ma seguono due percorsi simili che passano attraverso la separazione dal padre e un’esperienza di salvezza ricevuta da Dio mentre si trovano ad affrontare la morte (cfr Gen 21,14-21; 22,1-19). In entrambi i casi, però, il punto di vista è quello dei genitori.
Dispersa nel deserto, dopo essere stata scacciata da Abramo, Agar piange, temendo che suo figlio possa morire per la sete. Dio ascolta la voce di Ismaele, il quale, trovandosi vicino alla morte, compie il significato del suo nome – letteralmente «Dio ascolta» – quando viene salvato dall’intervento del Signore: «17Che hai, Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove si trova. 18Àlzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione» (Gen 21,17-18).
Successivamente, un Isacco ormai adulto verrà condotto sul monte per essere sacrificato. Il racconto non si sofferma sul figlio di Abramo e su come egli viva questa prova, ma segue il cammino dell’anziano patriarca, provato da questa richiesta da parte del Signore[9]. Così Isacco, prossimo a morire, si troverà in una situazione molto simile a quella del fratello Ismaele. Anche in questo caso l’angelo del Signore interverrà per salvare la vita del figlio di Abramo e rinnovare la promessa di benedizione: «16Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, 17io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare» (Gen 22,16-17).
Sia nell’uno che nell’altro caso è un padre addolorato che prima manda via un figlio verso il deserto, e poi conduce l’altro figlio verso il monte Moria per sacrificarlo al Signore. Entrambi sono figli amati, da cui Abramo si separa con dolore, come sottolinea efficacemente il Talmud babilonese: «Dio disse ad Abramo: “Ti prego, prendi tuo figlio, il tuo unico, che ami, Isacco” (Gen 22,2). Quando Dio disse: “Tuo figlio”, Abramo obiettò: “Io ho due figli!”. Dio gli disse: “Il tuo unigenito”. Abramo rispose: “Questi è l’unico figlio per sua madre, e quello è l’unico figlio per sua madre!”. Dio gli disse: “Quello che ami”. Abramo replicò: “Io li amo entrambi!”. Dio allora gli disse: “Isacco!”»[10].
Inoltre, i due figli di Abramo compiranno la parola di Dio quando, grazie ai loro genitori, troveranno una moglie e costruiranno una loro discendenza. Il primo a fare questo passo è Ismaele: «E sua madre gli prese una moglie del paese d’Egitto» (Gen 21,21). Egli si separa dal padre e dalla madre e, unendosi a sua moglie, realizza la parola che il Signore ha pronunciato nei racconti della creazione: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie» (Gen 2,24)[11].
Successivamente, sarà Abramo a facilitare il distacco di Isacco, trovandogli una moglie tra la sua parentela, Rebecca, che lo consolerà per il lutto di sua madre Sara: «2Allora Abramo disse al suo servo, il più anziano della sua casa, che aveva potere su tutti i suoi beni: “Metti la mano sotto la mia coscia 3e ti farò giurare per il Signore, Dio del cielo e Dio della terra, che non prenderai per mio figlio una moglie tra le figlie dei Cananei, in mezzo ai quali abito, 4ma che andrai alla mia terra, al luogo della mia nascita, a prendere una moglie per mio figlio Isacco”» (Gen 24,2-4).
Un ultimo incontro
I due percorsi paralleli di Isacco e Ismaele sono segnati dal distacco dalle figure genitoriali e dalla benedizione di Dio, che sempre accompagna il cammino dei due figli di Abramo. Eppure, c’è ancora il tempo per un ultimo incontro tra di loro, che avviene nel momento altamente drammatico della morte del padre: «9Lo seppellirono i suoi figli, Isacco e Ismaele, nella caverna di Macpela, nel campo di Efron, figlio di Socar, l’Ittita, di fronte a Mamre. 10Il campo che Abramo aveva comprato dagli Ittiti. Lì furono sepolti Abramo e sua moglie Sara. 11Dopo la morte di Abramo, Dio benedisse il figlio di lui Isacco e Isacco abitò presso il pozzo di Lacai-Roì» (Gen 25,9-11).
Isacco e Ismaele si trovano uno accanto all’altro nel piangere la morte del padre. Ismaele si reca a Macpela, dove si trova sepolta Sara, madre di Isacco, la donna che dapprima lo aveva voluto per vincere la propria incapacità di generare, ma che in seguito lo aveva rigettato. Isacco, invece, andrà ad abitare presso il pozzo di Lacai-Roì, la località dove Agar aveva visto il Signore che aveva udito il suo lamento e aveva benedetto lei e la sua discendenza (cfr Gen 16,14).
I due fratelli incrociano e mescolano le loro storie, e l’uno va ad abitare nei luoghi dell’altro, in un fecondo scambio che li pone l’uno vicino all’altro in una sorta di implicita riconciliazione familiare. Da questo momento in poi, senza la figura del padre che li univa per mezzo del legame di sangue ma che li aveva divisi per la pace e il quieto vivere della famiglia, i due fratelli saranno prossimi nel condividere la benedizione al di là delle grettezze e delle piccinerie umane. Quella che potrebbe sembrare la stereotipata scena di un funerale diventa il coronamento dell’essere fratelli separati, ma non distanti. «Questa è la discendenza di Ismaele…» (Gen 25,12); «Questa è la discendenza di Isacco…» (Gen 25,19): pochi versetti separano i fratelli e i loro discendenti che nella vita continueranno a vivere uno di fronte all’altro come ci ricorda la Scrittura: «[Ismaele] si era stabilito di fronte/contro la faccia di tutti i suoi fratelli» (Gen 25,18). La particella ebraica ‘al può essere letta come «di fronte» oppure «contro». Quale opzione sceglieranno?
Le famiglie della Bibbia sono famiglie complesse, allargate, difficili, molto più vicine al nostro tempo di quanto si potrebbe immaginare. Le vicende di Isacco e Ismaele ci rivelano come i contrasti tra i genitori – Abramo, Sara e Agar – possano influenzare la qualità del rapporto tra fratelli che, a causa delle tensioni familiari, sono privati della possibilità di crescere e vivere insieme. Eppure, nonostante tutto, Isacco e Ismaele possono prosperare sotto il segno di una benedizione condivisa, anche se diversa, ed essere dei buoni vicini, generazione dopo generazione. Infatti, secondo la tradizione della Bibbia (ma anche del Corano), dietro i personaggi di Isacco e Ismaele ci sono due popoli così lontani, così vicini come gli Israeliti e gli Arabi, che, posti gli uni accanto agli altri nella terra su cui abitano, possono scoprire una radice comune come figli di Abramo, benedetti dallo stesso Dio.
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[1]. Cfr Nuzi HSS S.67; Hammurabi, nn. 144; 146; 173.
[2]. In alcuni casi, quando nell’Antico Testamento si menziona l’angelo del Signore, si può voler fare riferimento a Dio stesso che si fa presente.
[3]. Su questo tema, cfr A. Wénin, «Ismaël et Isaac, ou la fraternité contrariée dans le récit de la Genèse», in Études theologiques et religieuses 90 (2015/4) 489-502.
[4]. Ismaele starebbe compiendo cattive azioni, che non è lecito fare (Targum Neofiti, Genesi XXI, 9). Rashi commenta: «Si riferisce alla fornicazione, come sta scritto: Mi si è accostato per divertirsi con me (Gen 39,17)» (Rashi di Troyes, Commento alla Genesi, Casale Monferrato [Al], Marietti, 1985, 163). Cfr anche il frammento LL della Genizah del Cairo: «Stava facendo azioni licenziose con suo figlio, cercando di ucciderlo».
[5]. Cfr Targum Pseudo-Jonathan, Genesi XXI, 9.
[6]. Cfr R. Alter, Genesis, New York – London, W. W. Norton & Company, 1996, 98.
[7]. Anche se l’alleanza sarà riservata a Isacco (cfr Gen 17,19).
[8] . Per un approfondimento sul parallelismo Isacco-Ismaele nella Genesi, cfr D. J. Zucker, «Ishmael and Isaac: Parallel, not Conflictual Lives», in Scandinavian Journal of the Old Testament 26 (2012/1) 1-11.
[9]. Il Targum aggiungerà al testo di Gen 22 la prospettiva di Isacco, il quale implora il padre di legarlo bene affinché il sacrificio non sia vano: «Isacco prese la parola e disse ad Abramo suo padre: “Padre mio, legami bene, perché io non ti dia dei calci, tali che la tua offerta sia resa invalida…”. Gli occhi di Abramo erano fissi sugli occhi di Isacco, e gli occhi di Isacco erano rivolti verso gli angeli in alto. Isacco li vedeva, ma Abramo non li vedeva» (Targum Pseudo-Jonathan, Genesi XXII, 10).
[10]. Talmud Babilonese, bSanhedrin 89b.
[11]. F. Mirguet, «Gn 21-22: Maternité et paternité à l’épreuve», in Ephemerides Theologicae Lovanienses 79 (2003/4) 326.