FILM
a cura di V. FANTUZZI
This Must Be the Place (Italia – Francia – Irlanda, 2011). Regista: PAOLO SORRENTINO. Interpreti principali: S. Penn, J. Hirsch, E. Hewson, K. Condon, D. Byrne, O. Fouéré, S. Whigham, L. Levo, H. Lieven, S. Delaney, F. McDormand.
Non deve stupire il titolo inconsueto, che tradotto alla lettera significa «Questo deve essere il posto», titolo di una fortunata canzone dei Talking Heads musicata da David Byrne, che accompagna la colonna sonora e il cui testo, in una scena, entra a far parte dei dialoghi del film. Tanto meno deve stupire la maschera che rende irriconoscibile il volto del protagonista, Cheyenne, interpretato da Sean Penn, ebreo cinquantenne ex-rockstar di musica goth, rossetto rosso fuoco, cerone bianco, andatura strascicata, evidente residuo degli stravizi di gioventù.
Afflitto da una noia invincibile, che tende a interpretare come leggera depressione, Cheyenne si comporta da pensionato benestante, anche se non ha ancora raggiunto l’età della pensione. Ha smesso di esibirsi in pubblico, ma non ha dismesso il look stravagante che lo fa apparire come un clown in mezzo a gente più o meno normale. Vaporoso e instabile come è, ha la fortuna di essere sposato con una donna stabile e concreta, Jane (Frances McDormand), che di mestiere è vigile del fuoco.
Cheyenne ha un’amica, Mary (Eva Hewson), una sedicenne che si atteggia a dark. Anima ombrosa e difficile da capire, ha alle spalle una famiglia distrutta: suo fratello se ne è andato di casa e non si fa più vivo. Sua madre è impazzita e non si accorge della sua presenza. Cheyenne e Jane, che non hanno figli, l’hanno presa sotto la loro protezione. Fan sfegatata dell’ex-rockstar, Mary sa tutto di lui, come lui sa tutto di lei. Sono inseparabili nelle lunghe passeggiate silenziose per le strade del quartiere di Dublino dove abitano, tra malinconiche casette di mattoni, all’ombra delle strutture avveniristiche dell’Aviva Stadium, nuovo tempio delle effimere glorie dello sport e del rock. Talvolta il loro girovagare li conduce al cimitero, davanti alle tombe di due adolescenti che sono stati indotti al suicidio dalle canzoni lugubri che Cheyenne cantava quando era in auge. L’evento luttuoso gli ha cambiato la vita perché, dopo di allora, non se l’è più sentita di salire su un palco.
Messe così le cose, pare che la vita di Cheyenne sia destinata a ruotare su se stessa senza che nessuna novità venga a turbarne il sia pur precario equilibrio. Rifiuta le proposte che gli sono rivolte da un mondo che non è più il suo. Si limita ad amministrare la fortuna tutt’altro che esigua accumulata negli anni in cui era sulla cresta dell’onda. Non ha legami con il passato. Non ha progetti per il futuro. Il suo presente assomiglia a una sorta di limbo che gli consente di sopravvivere nel cono d’ombra di una identità fittizia.
A toglierlo da questo stato d’inerzia giunge una telefonata dall’America, suo Paese di origine, da dove è partito trent’anni prima, senza farvi mai più ritorno, dopo aver rotto definitivamente con suo padre, dal quale non si sentiva amato. Qualcuno lo avverte che suo padre sta per morire di vecchiaia. Decide di andarlo a trovare, ma senza fretta. Non sopporta gli aerei. Attraversa l’oceano in piroscafo. Arriva a New York quando il padre è già morto, giusto in tempo per partecipare al funerale. A questo punto, senza che lui se ne renda conto, comincia per Cheyenne una nuova vita.
Prima di tutto deve annodare il filo del rapporto con il padre là dove si è rotto. L’occasione è offerta dalle pagine del diario che il vecchio gli ha lasciato in eredità. Lì dentro c’è scritto tutto quello che Cheyenne non soltanto non sa, ma non sa di non sapere. Ignora, per esempio, le sue origini ebraiche. Ha una nozione molto vaga di ciò che, per il suo popolo, ha significato la Shoah. Non sa che suo padre era un sopravvissuto di Auschwitz, segnato da quell’esperienza fino al punto di dedicare il resto della sua vita alla ricerca dell’aguzzino nazista che, durante la prigionia, lo aveva umiliato. Cheyenne si immerge nella lettura di quelle pagine e si sente investito del dovere di proseguire la «caccia all’uomo» che il padre non era riuscito a portare a termine. Eccoci proiettati dentro un road-movie che, per Sorrentino, costituisce la sua personale scoperta dell’America. L’itinerario, che comprende squarci paesaggistici di grande spicco, dovuti alla sensibilità del direttore della fotografia Luca Bigazzi, si snoda lungo la traiettoria che va da New York a Hunstville (Utah) passando per Bad Axe (Michigan) e Alamogordo (Nuovo Messico).
Non mancano qua e là battute spiritose, come quando Jane, telefonando a Cheyenne, gli chiede se è alla ricerca di se stesso. «Guarda, cara, che mi trovo nel Texas. Non in India», è la risposta. Ad ogni modo, l’impresa che il figlio si è addossato, come ideale prosecuzione del progetto paterno, giunge in porto. Il carnefice proverà, almeno per un giorno, cosa significa essere vittima. Cheyenne, al di là della battuta sopra citata, trova quel se stesso che non aveva mai saputo di essere. Da fanciullo precocemente invecchiato diventa uomo adulto. Non sente più il bisogno di nascondersi dietro la maschera del clown. Torna a Dublino in aereo (lasciandosi alle spalle vecchie fobie). Si presenta con il suo vero volto alla mamma di Mary, in perenne attesa del ritorno del figlio scomparso. Riesce a strapparla per un istante dall’abisso della sua follia e a scambiare con lei un sorriso. Un altro filo spezzato che si riannoda?