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5sistono un antico racconto sull’umanità o, più precisamente, su ciò che essa ha perso, e una spiegazione sul modo nel quale possiamo ancora cercare di cavarcela e addirittura prosperare. La prima parte rientra nella raccolta antica riportata nella Bibbia: dopo che la prima coppia umana commise l’imperdonabile trasgressione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, l’Onnipotente la scacciò dal Paradiso. Poi Dio pose a est dell’Eden un guardiano con una spada folgorante per impedirle l’accesso all’albero della vita (cfr Gn 3,23). Il resto è la storia dell’umanità, la nostra storia.
Ma questa è soltanto la prima parte del racconto. L’altra parte non è stata ancora inventata. È quella su cui possiamo ancora intervenire, ognuno secondo la propria discrezione. Riguarda l’Onnipotente, che ora si sente solo, perché non ha nessuno con cui conversare. Ma un giorno gli viene un’idea brillante: pensa di ricondurre gli esseri umani nell’Eden, trovando altre strade, non quella custodita dall’angelo con la spada, ma sentieri serpeggianti, e a volte tortuosi, tracciati sia dalla coscienza degli uomini sia dalla cura di Dio.
Questa storia, anche se si tratta di un midrash inventato, dice molto sull’umanità. C’è in essa qualche traccia di divino che non può essere negata neppure da coloro che non sono interessati all’esistenza di Dio. Tale traccia si manifesta come coscienza, ragione e intelligenza. Queste sono le cose che rendono possibile all’umanità trascendere i propri limiti per trovare le proprie radici.
A suo modo, il libro di Daniele tratta lo stesso tema. Il libro è la storia di un popolo esiliato che cerca di riconquistare la sua patria. Ma alla fine scopre qualcosa di completamente diverso da ciò che stava cercando, scopre la propria identità autentica: essere umano ed essere destinato alla vita eterna. Questo breve saggio offre una lettura del libro di Daniele in modo creativo, senza violare il testo e l’interpretazione contestuale[1].
Ambientazione letteraria e contesto storico
Se si esamina il suo contenuto, il libro di Daniele nella Bibbia ebraica si divide esattamente in due parti: le narrazioni (Dn 1-6) e le visioni (Dn 7-12). I primi sei capitoli contengono storie di ebrei che hanno successo in un Paese straniero[2]. L’esilio, che per la maggior parte di loro costituisce il peggiore disastro nazionale, ora appare meno minaccioso. In effetti essi sono sopravvissuti e hanno persino prosperato nella loro carriera in una corte straniera. La seconda parte del libro (Dn 7-12) contiene le visioni di Daniele e la loro interpretazione da parte di un essere celeste[3]. Qui al tono ottimistico della prima parte si sostituiscono rivelazioni di eventi futuri.
L’uso che Daniele fa della storia è interessante e rivela molto della sua teologia. Qui vorremmo introdurre una semplice, ma importante distinzione ermeneutica tra ambientazione letteraria e contesto storico. L’ambientazione temporale e spaziale dei singoli racconti è la Babilonia degli esiliati. Ma dovremmo considerare tale cornice storica soltanto un’ambientazione letteraria. È una creazione letteraria, basata probabilmente su eventi storici, a prescindere da quanto siano accurati o immaginari. D’altra parte, l’ambientazione storica non deve essere identificata con il contesto storico. Quest’ultimo è costituito dalle realtà, politiche o religiose, che possono aver dato occasione al libro, o almeno dalla situazione a cui il messaggio originariamente era destinato.
I racconti e le visioni sono presentati come se si svolgessero durante l’esilio babilonese, con la menzione del re e di alcuni eventi importanti. Tutto questo fa parte dell’ambientazione letteraria. Il testo stesso contiene queste indicazioni: Dn 1,1: l’anno terzo del regno di Ioiakìm; 2,1: il secondo anno di Nabucodònosor; 6,1: il primo anno di Dario il Medo; 7,1: il primo anno di Baldassàr; 8,1: il terzo anno di Baldassàr; 9,1: il primo anno di Dario; 10,1: il terzo anno di Ciro. I capitoli 3 e 4 non menzionano le date, ma è chiaro che gli eventi narrati in essi si verificarono durante il regno di Nabucodònosor. Anche Dn 5 non ha indicazioni temporali, ma è evidente che la storia si svolse alla fine del regno di Baldassàr, il quale commise l’imperdonabile sacrilegio di usare gli utensili sacri del tempio di Gerusalemme per le sue orge. Il fatto che nella vita reale non sia esistito un tale re non impedisce che questo episodio si collochi in un’ambientazione storica.
In contrasto con quanto è stato detto sopra, il contesto storico del libro di Daniele è la situazione in Siria-Palestina durante gli ultimi quattro decenni dell’era seleucide (320-141 a. C.), quando i re di quei popoli conquistarono la regione. Questo fu l’inizio dell’ellenizzazione dell’intera zona. Fu durante il regno di Antioco IV Epifane (175-164) e dei suoi predecessori che sorsero tensioni sociali all’interno della comunità ebraica. Vi furono coloro che adottarono la cultura e le usanze dei greci fino al punto di rifiutare i costumi e la religiosità ebraici.
L’evento più sconvolgente si verificò nell’anno 167: il 25 dicembre di quell’anno, Antioco IV Epifane emanò un decreto che proibiva l’offerta quotidiana nel tempio di Gerusalemme, dopo che vi era stato collocato l’altare di Giove Olimpo. Questo fu il colpo finale che mise fine alle speranze di restaurazione e agli ideali di una nuova comunità. Ma si trattò soltanto dell’apice di un lungo processo di ellenizzazione che si era compiuto a partire dalla conquista di Alessandro. Questa profanazione è il contesto storico del racconto della festa sacrilega di Baldassàr in Dn 5. L’ambientazione letteraria nel periodo babilonese è una pura invenzione: non c’è nessuna indicazione storica dell’esistenza di un re babilonese con quel nome.
Questo esempio illustra la differenza tra ambientazione letteraria e contesto storico. La storia della festa di Baldassàr era rivolta agli ebrei che subivano l’umiliazione religiosa e morale per il divieto di compiere il loro ufficio quotidiano imposto da un sovrano straniero, che aveva addirittura collocato l’altare del suo dio nel tempio degli ebrei. Il messaggio è chiaro: questo re non durerà, sarà punito e avrà i giorni contati; le sue azioni saranno pesate sulla bilancia e il suo regno sarà diviso: mene mene teqel ufarsin (cfr Dn 5,25-28). Il contesto storico è costituito dalla speranza che le atrocità morali commesse da Antioco IV Epifane presto finiranno. L’autore del racconto di Baldassàr non è stato testimone della fine di Antioco IV Epifane, anche se deve aver preso atto che il corso degli eventi andava in quella direzione.
La distinzione tra contesto storico e ambientazione letteraria è stata recentemente elaborata anche da storici, sebbene con una terminologia differente. Mario Liverani, uno storico del Vicino Oriente Antico, ha pubblicato la sua storia d’Israele, nella quale considera due tipi di storia: il primo è la «storia normale», ovvero la storia come noi la conosciamo, cioè eventi che hanno influito sull’esistenza del popolo di Israele ricostruiti attraverso documenti e ritrovamenti archeologici. L’altro tipo è quello che egli chiama la «storia inventata», una lettura del passato fatta dalle persone stesse usando le loro risorse ideologiche. I capitoli 1-6 del libro di Daniele sono, secondo la visione di Liverani, storia inventata, mentre la prospettiva degli eventi che viene data in Dn 10-12 è storia reale o normale. Ma la storia inventata dei primi sei capitoli di Daniele si rivolge alle persone che vivono nella storia reale, mentre, come vedremo, le visioni di Dn 7-12 hanno a che fare con la storia reale, ma si presentano come storia inventata, con il futuro come punto di partenza. In tale prospettiva elaboreremo le nostre riflessioni sulle visioni di Dn 7-9. Ma cominciamo con l’analisi di Dn 1.
Dio agisce attraverso la storia umana
Dn 1 contiene un’enunciazione teologica del problema trattato in tutto il libro: la perdita dell’identità israelitica e ciò che può essere fatto a questo riguardo. Il tema viene esposto elegantemente sotto forma di un racconto: è una storia di ricerca di una nuova identità nell’essere autentico israelita, cioè il loro modo di dire che cosa significa essere una persona autentica e dignitosa.
L’uso del verbo ebraico ntn («dare») nei suoi vari significati offre un indizio per i temi principali sviluppati in questo capitolo. Così Dn 1,2: «Il Signore mise Ioiakìm re di Giuda nelle sue [di Nabucodònosor] mani»[4]. Poi Dn 1,9: «Dio fece sì che Daniele incontrasse la benevolenza e la simpatia del capo dei funzionari». Infine Dn 1,17: «Dio concesse a questi quattro giovani [Daniele, Anania, Misaele e Azaria] di conoscere e comprendere ogni scrittura e sapienza». La distribuzione del verbo ntn mostra le tre parti di Dn 1. La prima — Dn 1,1-8 — narra la caduta di Gerusalemme, la cattura del re, il saccheggio del tempio e l’esilio. La seconda parte — Dn 1,9-16 — parla dei quattro ragazzi che furono scelti tra gli esiliati dal re babilonese per servire a corte. Essi conservarono la loro integrità pur avendo accettato di vivere alla corte del re. Ancora una volta gli eventi erano guidati dal loro Dio. Infine, la terza parte — Dn 1,17-21 — descrive i quattro ebrei che hanno successo in una corte straniera. Con l’uso del verbo ntn («dare») con il Signore come soggetto l’autore ci vuole far capire che è Dio stesso che agisce con la sua saggezza attraverso la storia umana. È Lui che ha permesso la scomparsa dell’identità tradizionale del suo popolo, ma è anche questo stesso Dio che ora dà una nuova identità al suo popolo.
Per comprendere ciò, dobbiamo tornare alla prima parte del capitolo. È lo stesso Dio di Israele che permette la caduta di Gerusalemme. Che cosa accadde? Il re fu imprigionato, il tempio fu saccheggiato e il territorio fu occupato. I tre simboli dell’esistenza stessa di Israele erano perduti. Questa fu la fine dell’identità di Israele. Ma nella seconda parte compaiono Daniele e i suoi tre compagni.
Vale la pena di esaminare i criteri secondo i quali sono stati scelti i quattro giovani. Essi 1) devono essere israeliti; 2) di stirpe reale; 3) appartenenti alla nobiltà; 4) senza macchia; 5) di bell’aspetto; 6) sapienti, e quindi di mentalità aperta, capaci di trovare nuove vie in una nuova situazione; 7) dotati di intelligenza, e quindi ben lungi dall’essere sempliciotti o creduloni; 8) versati nelle scienze, il che li renderà rispettati; 9) adatti al servizio di corte e 10) ad essere istruiti nel «linguaggio e nella letteratura dei Caldei».
Presumendo che il numero dieci abbia un significato simbolico, queste qualifiche indicano che cosa significa essere qualcuno, essere un autentico israelita nella nuova situazione, in questo caso nell’esilio a Babilonia, nella vita in un Paese straniero dove per gli israeliti le cose non possono essere date per scontate come nella loro patria. Il numero dieci non risulterebbe particolarmente significativo se non fosse stato usato altre volte in questo capitolo. In realtà, è esplicitamente detto che i giovani furono messi alla prova per dieci giorni (Dn 1,12.15), ossia per un tempo sufficiente per vedere se superavano o meno la prova. Poi essi divennero dieci volte superiori in sapienza e intelligenza in qualunque argomento su cui il re li interrogava (Dn 1,20). Ciò significa che essi erano senza alcun dubbio migliori dei sapienti babilonesi. Al tempo stesso, si afferma che il loro successo è dovuto al loro avere agito con fermezza per mantenere la propria integrità.
Così la nuova identità di israelita si contrappone alla perdita degli antichi simboli tradizionali come città/terra, re e tempio. Di per sé si tratta di un messaggio forte per gli ebrei costretti a vivere in circostanze ostili. La loro forza non sta nel respingere i valori e la cultura circostanti, ma nell’assimilarli in modo tale da poterli vivere senza rinnegare le proprie origini. Possiamo chiamarla tolleranza? O apertura mentale? L’una e l’altra cosa.
L’esodo-conquista e la profezia
Il libro di Daniele offre anche una nuova prospettiva sulla visione del mondo e sull’ethos di Israele, una sorta di nuova teologia della cultura ante litteram. In realtà, l’Antico Israele conosce un certo numero di diverse teologie della cultura. La tradizione dell’esodo-conquista è un esempio di un genere di teologia rivolta allo scontro. Essa sorse forse per compensare la religiosità popolare dell’epoca patriarcale nell’antico Israele, dove la convivenza con altre persone e culture era una realtà piuttosto che un problema da risolvere. La storia della religione israelitica mostra che l’identità nazionale prende forma dalla teologia dell’esodo-conquista e dai suoi simboli: la città santa, il re e il tempio.
La tradizione dell’esodo-conquista conduce alla convinzione che Israele è il popolo vittorioso benedetto da Dio. È vero che gli altri popoli e culture non vengono disprezzati, ma essi appaiono inferiori e pieni di difetti e, per sopravvivere, devono essere integrati, nei termini dell’esodo-conquista piuttosto che nei termini di queste culture stesse. Ricordiamo la storia dei recabiti e degli ammoniti. E se esaminiamo la letteratura profetica, tracce di questo fatto sono evidenti nelle imprecazioni contro le nazioni. Quando il popolo di Dio dovette accettare il proprio disastro politico come una realtà, la fine di Giuda sottolineò questo evento. Durante l’esilio, furono fatti ancora alcuni tentativi per rilanciare la tradizione dell’esodo-conquista, affermando teologicamente che lo stesso Dio che aveva fatto uscire il suo popolo dall’Egitto lo avrebbe condotto fuori dall’esilio. Per un certo periodo questo fu sperimentato come il nuovo evento salvifico. Ci sono poemi del Secondo Isaia che ribadiscono elegantemente la tradizione dell’esodo-conquista, gettando su di essa una nuova luce, utilizzando persino eventi storici come l’avvento al potere di Ciro e i cambiamenti nella politica dei loro conquistatori.
Tuttavia le visioni molto ottimistiche del Secondo Isaia dovettero essere ridimensionate dal popolo, che credeva in esse, quando tornò nella vecchia terra e affrontò il compito di ricostruire sulle rovine, sia politiche sia religiose. Ciò che era stato perduto non poteva essere più recuperato. Malgrado gli sforzi del «resto di Israele», la situazione peggiorò. Nel periodo di restaurazione, ci furono conflitti basati su interessi, e i visionari si contrapposero alla classe sacerdotale sempre potente[5]. Nel contesto di questa lotta ebbe origine in Israele la prima manifestazione del pensiero apocalittico, la cui piena espressione, per quanto riguarda la Bibbia ebraica, è il libro di Daniele.
Qual è la differenza sostanziale tra il pensiero apocalittico e la tradizione dell’esodo-conquista? Tale complessa questione si rivela meno oscura, se descriviamo la differenza in termini di orientamento di fondo di queste tradizioni. Mentre la tradizione dell’esodo-conquista è rivolta al passato, all’evento primordiale delle origini del popolo di Dio, il pensiero apocalittico vede il futuro come l’ideale. È evidente che, nonostante questa differenza, entrambi considerano la storia, gli eventi del mondo come segni delle azioni della loro divinità[6].
La visione di Daniele 7
La teologia della storia di Daniele trova la sua più piena espressione in Dn 7. Nei vv. 2-14 ci sono tre scene, che vengono interpretate successivamente da uno degli esseri celesti nei vv. 17-27. La prima scena — vv. 2-8 — parla dell’arrivo dal mare delle quattro bestie spaventose. In realtà esse rappresentano gli imperi babilonese, medio, persiano e greco. La quarta bestia ispira più paura delle altre tre. Il suo potere è indiscusso. E da questa quarta bestia spunta un piccolo corno, che rappresenta Antioco IV Epifane (come viene spiegato nei vv. 23-25). La scena successiva — vv. 9-12 — si sposta presso la corte celeste. Qui il Vegliardo ha decretato la morte della quarta bestia (cfr anche v. 26). Questa terribile bestia è impotente, e la sentenza di morte è immediatamente eseguita, senza che ci sia nessuna resistenza. Nella terza scena — vv. 13-14 — un personaggio simile a un figlio di uomo viene verso il Vegliardo sulle nubi del cielo per ricevere da Lui il potere. L’arrivo di questa figura segna una nuova era, in cui l’universo non è più sotto l’influsso delle forze del male, simboleggiate dalle quattro bestie. In ciò è implicita la convinzione che la cosa migliore da fare per resistere alle forze del male è aderire alla presenza divina e non servirsi delle proprie forze per contrastarle.
È evidente che Dn 7 usa l’immaginario mitologico per presentare una riflessione teologica sulla realtà del male[7]. Sono considerati due tipi di realtà. Una non è immediatamente visibile, ma ha un forte influsso sul mondo: è la realtà cosmica, i cui elementi si sovrappongono e vanno ben oltre le categorie di spazio e tempo. Gli elementi mitologici che suggeriscono alcune affinità tra il linguaggio simbolico di Dn 7 e gli antichi miti presenti in Siria-Palestina sono in pratica quelli conservati nei testi ugaritici. Essi sono:
- Il mare tempestoso, da cui sono emerse le quattro bestie, è una reminiscenza del caos causato da Yam, o da Lotan, il mostro con sette teste. Sia Yam sia Lotan furono sottomessi e annientati da Baal in un combattimento. Il mare tempestoso presente in Dn 7, che manifesta il suo potere caotico attraverso le quattro bestie — specialmente attraverso la quarta —, è stato sconfitto dal concilio divino, che ha decretato la fine di questa bestia (cfr Dn 7,10-11). E tuttavia non vi è stata nessuna battaglia tra la quarta bestia e la figura che è simile a un figlio di uomo, come spesso è stato creduto dagli studiosi. Si dice infatti che questa figura appare sulla scena soltanto in Dn 7,13: quindi, solo dopo che la quarta [bestia] è stata uccisa.
- Nei miti ugaritici il concilio divino è guidato da El, in Dn 7 è il Vegliardo che presiede la corte celeste. La descrizione di El come «l’Antico, l’Eterno» corrisponde a quella del Vegliardo. Una similitudine più grande risiede nella potenza di questa divinità, che regna su diverse forze con saggezza, con i decreti della sua bocca.
- La figura simile a un figlio di uomo che viene verso il Vegliardo sulle nubi del cielo ricorda uno degli appellativi di Baal, detto anche «colui che cavalca le nubi». Si nota come nell’Antico Testamento la teofania spesso sia collegata alle nubi. E tuttavia, mentre il Baal del mito ugaritico è una divinità, questa figura umana che compare in Daniele non lo è. Egli giunge alla corte celeste per ricevere potere e forza dal Vegliardo, come un essere umano.
Dn 7 ha ereditato evidentemente le tradizioni religiose di quella terra, ma le ha anche adattate alla situazione del momento. Come è stato ricordato in precedenza, il contesto storico di Daniele è costituito dai conflitti religiosi e politici sotto il regno di Antioco IV Epifane. L’ambientazione letteraria è quella di una visione avuta da Daniele a Babilonia (cfr Dn 7: il primo anno di Baldassàr, l’ultimo re di Babilonia secondo Daniele).
Chi è la figura umana in Dn 7? La letteratura esegetica in materia abbonda[8]. Tuttavia in genere si dà una duplice risposta alla domanda: 1) un individuo, un essere umano o un angelo — la figura messianica va in tale direzione —, e 2) un gruppo di persone, spesso identificate come «i santi dell’Altissimo», che saranno vittoriosi. L’idea che il popolo d’Israele, forse il resto d’Israele, alla fine sarà vittorioso è l’interpretazione prevalente. In realtà, nessuna delle due spiegazioni è soddisfacente. Ogni tentativo di trovare il reale modello di riferimento di una figura letteraria incontrerà questa difficoltà.
La figura umana è parte della triplice scena che descrive il Vegliardo mentre presiede la corte celeste e stabilisce la sorte della quarta bestia, simbolo del potere del caos. Siamo dunque nel regno soprannaturale, i cui effetti sono avvertiti anche nel mondo naturale. Si dice che tale potere è distrutto e annientato. Così l’universo è liberato dal potere del caos. E soltanto a questo punto la figura umana fa la sua comparsa, avvicinandosi al Vegliardo per ricevere il potere sul mondo liberato dalla presenza delle forze del male. In altre parole, la visione di Daniele suggerisce che l’umanità, rappresentata dalla figura che somiglia a un essere umano, riceve la sovranità sull’universo ordinato (come nel primo racconto della creazione, in cui i primi esseri umani devono dominare su tutte le bestie; o nel secondo racconto della creazione, in cui il Signore mostra gli animali ad Adamo perché egli dia loro un nome). Dunque la figura umana in Dn 7,13 è un simbolo, e non è necessario cercare un equivalente storico nel passato o nel futuro.
Questa è anche la risposta data nell’interpretazione della visione in Dn 7,17-26. Non c’è alcuna identificazione con qualcosa nella vita reale. Tuttavia, possiamo pensare ai «santi dell’Altissimo» (vv. 18; 22; 25; 27) come a quella parte dell’umanità che aderisce alla presenza divina e la cui vita è simboleggiata nella figura umana che si accosta al Vegliardo per ricevere il dominio sul mondo. Questi santi non sono più sottomessi, né vivono nel timore delle forze del male. Essi ora partecipano della nuova vita nella quale il caos non regnerà più, anche se il suo influsso continua a farsi sentire per qualche tempo.
Nel v. 25, in cui si riferisce l’interpretazione data da uno degli esseri celesti, il verbo non è da interpretare come: «[la quarta bestia] distruggerà», ma piuttosto come: «cercava di distruggere». È un tempo verbale che i filologi tradizionali definirebbero un imperfetto conativo. È in questa prospettiva che il v. 27 menziona i santi dell’Altissimo come eredi del regno eterno. Questa è la visione dell’umanità sulla quale cerca di concentrarsi il libro di Daniele. È la dimensione sacra dell’umanità.
La sconfitta delle forze del male
Il capitolo 8 enfatizza la fine imminente del dominio delle forze del male. I suoi giorni sono contati. Quanto terribili siano queste forze lo si può vedere in Dn 8,11-12, quando un corno della bestia si innalza fino al cielo, impedendo il sacrificio quotidiano al Tempio e introducendo un culto pagano in questo luogo sacro. Violenza contro il culto significa violenza contro la presenza divina nel mondo degli uomini. Per comprendere il messaggio di Dn 8, bisogna considerarlo nel contesto di Dn 7. Come quest’ultimo, anche Dn 8 descrive le forze del mondo nella loro connessione con il mondo soprannaturale. In questo capitolo il tema dell’autore è l’abominio perpetrato contro il dominio del sacro: l’abolizione dell’offerta quotidiana e l’insediamento di un culto pagano nel tempio (Dn 8,11-12)[9]. Così, per mezzo del linguaggio mitico, ci avviciniamo alla realtà storica. Ma, come in Dn 7, questa violenza contro il sacro è stata già giudicata, e si dice che la sua forza apparente avrà fine «entro duemilatrecento sere e mattine» (v. 14). Questo è un periodo di quasi tre anni e mezzo, a cui si fa cenno anche in Dn 7,25 e 12,7. Quindi Dn 8 trasmette il messaggio che c’è la presenza del male, ma è altrettanto chiara la sua imminente distruzione. Coloro che aderiscono ad esso saranno anch’essi distrutti.
Un recente saggio su Dn 8 mostra che il capitolo utilizza alcune tecniche narrative per sottolineare la mostruosità di coloro che si contrappongono alle persone che aderiscono alla sacralità dell’umanità, spiegando nel contempo come questa ostilità non possa durare a lungo[10]. Essa infatti è già destinata a scomparire. C’è un’ironia: le forze del male, che in Dn 7 vengono dipinte come appartenenti al regno del soprannaturale, in Dn 8 entrano nella storia dell’umanità facendo in modo che essa si condanni da sé. La storia e l’umanità appartengono al sacro, e il suo dominio è invincibile.
Non è privo di significato il fatto che, in Dn 8, Daniele abbia avuto la visione mentre era sveglio, e non in sogno come in Dn 7. Di nuovo questo sottolinea la realtà terrena del dramma. Siamo senz’altro d’accordo con coloro che affermano che Dn 8 esprime lo stesso messaggio di Dn 7, ma dal punto di vista del mondo, non da quello del cielo. In 8,27 Daniele torna alla vita normale, ma con una nuova consapevolezza di ciò che sta avvenendo. Gli eventi quotidiani sono collegati con ciò che accade nel regno soprannaturale. Questa è la chiave per comprendere il paradosso nella storia. Il versetto richiama Dn 7,28, dove Daniele conservava nel cuore l’esperienza della visione e dell’ascolto della sua interpretazione. Si tratta di un’espressione idiomatica che significa riflettere e acquistare saggezza da ciò che si vede. Più avanti, in Dn 12,4, gli verrà comandato di nascondere le parole e di sigillare il libro sino alla fine del tempo. Lo stesso motivo sapienziale di tenere qualcosa nascosto finché non si manifesti la verità viene avvertito qui. E questo tema sarà trattato successivamente nel capitolo 9.
Dn 9 sviluppa e amplia gli stessi temi presenti in Dn 8 e poi in Dn 10-11. Essi possono essere sintetizzati in quattro punti:
- C’è un rapporto continuo tra ciò che avviene nella sfera sacra e il mondo quotidiano. C’è una interazione costante tra storia e metastoria. Questo ci fornisce un indizio per comprendere la teologia della storia e della cultura in Daniele.
- L’interpretazione di una rivelazione (qui sotto forma di visione) attraverso un angelo (in questo caso Gabriele). È particolarmente interessante il fatto che l’interpretazione stessa diventi la rivelazione.
- La profanazione del tempio, dimora della divinità, è considerata il peggior abominio non soltanto per quanto riguarda il culto e la morale, ma anche come tentativo di alterare l’ordine cosmico.
- La fine di quest’epoca è vicina.
Dn 9 offre alcune indicazioni sulla tipica sapienza dei maskilîm nell’interpretazione della storia[11]. In questo capitolo c’è una nuova spiegazione dei settanta anni di esilio di cui parla Geremia (Ger 25,11-12; 29,10). Il problema è sorto perché l’esilio in realtà fu più breve: durò soltanto quarantotto o quarantanove anni (587-538, editto di Ciro che liberava gli esiliati perché potessero ricostruire il loro tempio, cfr Esd 5,6-6,12). La spiegazione dei maskilîm è ingegnosa, anche se in pratica non è presa sul serio dagli studiosi. Al periodo di settanta anni viene attribuito un nuovo significato in Dn 9,25: «Settanta settimane di anni», cioè 490 anni. Nei vv. 25-27 c’è una spiegazione di questi 490 anni come la somma di tre periodi: 49+434+7 anni. Il primo periodo («sette settimane») è l’esilio stesso (587-538 a. C). Il secondo («62 settimane») è il periodo della restaurazione, compresa la dedicazione del tempio nel 515 a. C. e il regno dei sommi sacerdoti, che termina nel 175-174 a. C., quando il sommo sacerdote Onia III (l’unto del v. 26) fu deposto da Antioco IV Epifane, che lo sostituì con Giasone. Ma, se calcolato, il periodo durava 364 anni, invece dei 434 della spiegazione data nel versetto 25b. Questo è il nodo.
Proveremo a scioglierlo esaminando le due storie di cui si è occupato Daniele: la storia del mondo reale e la metastoria, con il riferimento alle forze che la circondano. Così, alla fine del periodo terreno di 364 anni, cioè nell’anno 175-174 a. C., c’è un periodo metastorico di «settanta anni», che spesso sembra essere solo una discrepanza nel calcolo. Questo è proprio l’anno in cui Antioco IV Epifane entra sulla scena storica, gettando Israele nel caos con la sua politica di ellenizzazione e interferendo con le autorità religiose locali. Per un certo periodo questa forza del male sembra essere illimitata, e addirittura invade il regno del cielo. Ma questo rappresenta anche la fine di quella stessa forza.
Il carattere sacro dell’umanità
Vogliamo aggiungere una nota sulla Grande Visione in Dn 10-12. Questi tre capitoli finali del libro presentano un profilo storico durante il periodo ellenistico dal punto di vista apocalittico. La predizione di eventi riguarda ovviamente avvenimenti del passato che ora sono volti al futuro sotto forma di una serie di rivelazioni fatte dall’angelo Gabriele, che in Dn 10,16 viene definito «uno con sembianze di uomo». Si tratta di un’antica interpretazione del figlio dell’uomo menzionato in Dn 7,13. La dimensione sacra dell’umanità ora appare come l’angelo Gabriele, il quale si oppone alle ostilità del principe dei persiani e del principe dei greci. In questa battaglia, Gabriele fu aiutato da Michele, il principe degli israeliti, il che sta a significare che il popolo di Israele parteggiava per Gabriele. Questa è una enunciazione teologica della loro identità. Essi, in quanto popolo, scelgono di aderire all’umanità che fa posto alla dimensione sacra e divina della vita. E, di conseguenza, si trovano a dover affrontare le forze che, all’interno dell’umanità stessa, negano tale dimensione.
In passato, l’interpretazione di Daniele si è mossa tra due poli: quello della letteratura profetica e quello di scritti come i cinque megillot, quindi letteratura sapienziale. A partire dal XVIII secolo, il libro è stato considerato apocalittico. La nostra lettura rientra in tale prospettiva, mentre cerca di andare oltre esaminando le due storie e la specifica sapienza dei maskilîm. Per poter apprezzare appieno il messaggio di Daniele, dobbiamo supporre che ci sia qualcosa di universale, applicabile a diverse epoche e culture. Non che le situazioni particolari non siano importanti. In realtà esse sono estremamente importanti nel mostrare che diverse culture possono attribuire una certa rilevanza al messaggio di Daniele. Con che cosa ha a che fare questa rilevanza? Nient’altro che con l’essere umano in qualsiasi condizione, cioè esposto a forze che sono inclini a disumanizzare il mondo, spingendolo a qualcosa di male. Contrapponendosi a questa situazione, Daniele si presenta con un messaggio di fiducia nel carattere sacro dell’umanità.
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[1] La lettura cattolica segue invece il principio ermeneutico dato da Gesù stesso (cfr Lc 24,25-27 che interpreta l’Antico Testamento attraverso il progetto iniziale di Dio Padre manifestatosi nel mistero pasquale di Gesù. Questo principio è importante nella lettura del libro di Daniele perché Gesù stesso cita il profeta durante il suo processo. Anche se le idee presentate in questo articolo provengono soprattutto dalla nostra lettura di Daniele, tuttavia ci sono stati di grande utilità i principali commentari di questo profeta, come J. E. Goldingay, Daniel, Dallas, Word, 1988; J. J. Collins, «Stirring up the Great Sea: The Religio-Historical Background of Daniel 7», in A. S. van der Woude (ed.), The Book of Daniel in the Light of New Findings, Louvain, Peeters – Leuven University Press, 1993, 121-136; Id., Daniel, Minneapolis, Fortress, 1993; e l’antico, ma ancora molto valido J. A. Montgomery, The Book of Daniel, Edinburgh, T. & T. Clark, 1927, assieme a una serie di commentari destinati al pubblico generale, come P. L. Reddit, Daniel, Sheffield, Sheffield Academic Press, 1999; E. C. Lucas, Daniel, Leicester, Apollos, 2002; C. L. Seow, Daniel, Louisville, John Knox, 2003.
[2] Cfr L. M. Wills, The Jew in the Court of the Foreign King, Minneapolis, Fortress, 1990 mette a confronto giustamente la situazione rispecchiata in Dn 1-6 con quella di Ester, Esd 3-4, e il saggio ebreo Achikar alla corte assira. Anche la storia di Giuseppe in Egitto può costituire un buon parallelo. Cfr S. Beyerle, «Joseph und Daniel – zwei “Väter” am Hofe eines fremden Königs», in A. Graupner et Al. (eds), Verbindungs-linien, Neukirchen – Vlyun, Neukirchener, 2000, 1-18; Id., «The Book of Daniel and Its Social Setting», in J. J. Collins – P. W. Flint (eds), The Book of Daniel, 2 voll., Leiden, Brill, 2001, 205- 228.
[3] Sulle visioni in Dn 7-12 cfr R. G. Kratz, «The Visions of Daniel», in J. J. Collins – P. W. Flint (eds), The Book of Daniel, cit., 91-113. Per uno studio comparativo delle visioni in Dn 8-12 nella Bibbia ebraica, cfr A. Behrens, Prophetische Visionsschilderungen im Alten Testament. Sprachlichen Eigenarten, Funktion und Geschichte einer Gattung, Münster, Ugarit-Verlag, 2002, 314-345. L’Autore presenta anche un’analisi generale sul linguaggio della visione in altri libri della Bibbia ebraica, cfr ivi, 32-75. Per un contesto più generale, cfr J. J. Collins, The Apocalyptic Imagination. An Introduction to Jewish Apocalyptic Literature, Grand Rapids, Eerdmans, 19982.
[4] C. L. Seow, Daniel, cit., 20, ha anche sottolineato l’importanza teologica dell’uso qui di questo verbo.
[5] L’opera classica sulle radici sociologiche dei movimenti apocalittici rimane quella di P. D. Hanson, The Dawn of Apocalyptic. The Historical and Sociological Roots of Jewish Apocalyptic Eschatology, Philadelphia, Fortress, 1979. Per una discussione più generale, cfr D. S. Russell, Divine Disclosure: An Introduction to Jewish Apocalyptic, London, SCM, 1992; S. L. Cook, Prophecy and Apocalypticism. The Postexilic Social Setting, Minneapolis, Fortress, 1995.
[6] Cfr P. D. Hanson, The Dawn of Apocalyptic…, cit., 292-333 parla dell’influsso dell’antico tema dell’esodo-conquista in Zc 9,1-17 e 10,1-12. Questa dinamica interna alla società israelita determinò l’emergere del pensiero apocalittico in Daniele.
[7] Per un’ampia documentazione sullo sfondo storico-religioso di questo capitolo, cfr J. J. Collins, «Stirring up the Great Sea…», cit., 280-294.
[8] Per una utile sintesi, cfr l’excursus su «uno simile a un figlio di uomo» in J. J. Collins, Daniel, cit., 304-310.
[9] Cfr J. Lust, «Cult and Sacrifice in Daniel. The Tamid and the Abomination of Desolation», in J. J. Collins – P. W. Flint (eds), The Book of Daniel, cit., 671-688, sull’abolizione dell’offerta quotidiana e sull’abominio.
[10] Cfr H. Gzella, Cosmic Battle and Political Conflict. Studies in Verbal Syntax and Contextual Interpretation of Daniel 8, Roma, Pontificio Istituto Biblico, 2003.
[11] È convinzione diffusa che il libro di Daniele provenga dai circoli dei maskilîm, cioè i saggi che all’epoca assunsero il ruolo di maestri e di guide spirituali del popolo. Questi maestri saggi ebbero anche un ruolo importante nella comunità di Qumran: potevano anche avere una posizione particolare all’interno della comunità. Sui maskilîm e sul loro ruolo cfr J. J. Collins, Daniel, cit., 66 s.