È facilmente comprensibile il titolo che i Mumford & Sons hanno voluto dare al loro secondo album, Babel, già ai vertici delle classifiche di mezzo mondo. La «confusione» è la situazione inevitabile in cui questi quattro giovani inglesi sono piombati all’indomani del 5 ottobre del 2009, quando uscì il loro primo album Sigh no more, che in meno di tre anni li ha resi a livello mondiale la rock-band più famosa del momento. Ma i quattro (Marcus Mumford, cantante, chitarrista e frontman del gruppo; Ben Lovett, il tastierista; Winston «Country» Marshall, il banjoista; e Ted Dwane, il bassista, uniti da un sodalizio nato oltre cinque anni fa quando si esibivano nei pub e nei club della scena folk della West London) sembrano non scomporsi più di tanto, a partire dalla foto di copertina di Babel. Stanno lì seduti su una panchina di legno con uno sguardo ad un tempo serio e allegro, che forse già esprime il tono e il contenuto delle 14 canzoni dell’album.
«Perché so che il tempo mi ha contato i giorni», canta sapientemente con la sua bella voce intensa Marcus nel primo verso della prima traccia che dà il titolo all’intero cd, come a dire: godiamoci questo momento, perché niente è più effimero di un successo soltanto umano. E continua: «Ma scrivo a casa ridendo, guardatemi ora, i muri della mia città si sono sgretolati / non ho mai vissuto un anno speso meglio che ad amare / Perché conosco la mia debolezza, conosco la mia voce, crederò nella grazia e nella scelta / E so che forse il mio cuore è una farsa, ma nascerò senza alcuna maschera».
Alcune parole-chiave nel lessico dei Mumford sono: debolezza, grazia, ma anche ridendo e maschera. In queste canzoni, anche in quelle più cupe, si ride, si sente la forza di una sana euforia che dilaga specialmente nei concerti dal vivo. Questi sono sempre più gremiti da un «popolo» intergenerazionale, perché in questa musica confluiscono cose antiche — il folk britannico e la musica popolare americana — e cose nuove — un sound grintoso e una ritmica tutta rock. Gli strumenti sono vecchi (il contrabbasso, la chitarra acustica e soprattutto il banjo, sempre in primo piano), ma l’atmosfera è quella contagiosa e «muscolare» del rock più puro.
Tutto questo «senza alcuna maschera»; la faccia pulita di Marcus Mumford & Sons ha conquistato le platee di tutto il mondo. C’è una schietta semplicità nei testi (quasi tutti sull’amore) e nei modi, persino nell’abbigliamento un po’ retro, di questi ragazzi. Essi ci tengono però a precisare che «autenticità» non significa «originalità», un dogma al quale non credono: «Ci accusano di inautenticità perché suoniamo gli strumenti che suoniamo — ha detto in una recente intervista Marcus —; questa cosa dell’inautenticità non mi ha mai preoccupato. Non da quando ho capito che Bob Dylan, probabilmente il mio artista preferito di sempre, non si è mai preoccupato dell’autenticità. Ha cambiato nome. Si è ispirato a Woody Guthrie. E ha mentito a tutti su chi fosse realmente».
Da questo punto di vista i Mumford & Sons sono «classici»: ascoltandoli, ci si sente accolti nell’alveo di una musica che si conosce, da sempre. La novità è nell’entusiasmo, nella grinta con cui questi ragazzi offrono la loro musica a tutto il mondo, con la semplicità con cui lo facevano fino a poco tempo fa negli oscuri pub della zona west di Londra.