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Come dovrebbe avvenire lo sviluppo economico e sociale nel nostro immediato futuro? Quali condizioni socioeconomiche dovremmo raggiungere? In che cosa consiste oggi uno sviluppo autentico?
Vogliamo partire da un’opzione positiva, vale a dire ci schieriamo in favore dello sviluppo. Lo consideriamo necessario; infatti, crediamo che quella di crescere sia la nostra dinamica più essenziale. In ogni ordine dell’esistenza, non voler crescere significa necessariamente regredire, cosa che avvertiamo come un male. Nella tradizione cristiana, questo è un dato accolto fin dagli inizi[1].
Eppure conciliare questa spinta naturale sotto il profilo sociale e politico non è facile, e da qui scaturisce una fonte perenne di problemi. Tucidide, il primo storico, considerando lo scontro frontale tra Atene e Sparta, conveniva che la caratteristica principale della natura umana coincide proprio con questo inesauribile desiderio di crescere, che non può essere limitato o contrastato se non da una forza uguale e contraria. La crescita (auxēsis), o la tendenza intrinseca ad aumentare il proprio potere, è il tratto caratteristico e indissolubile della società umana politicamente organizzata. Di conseguenza, quando, all’interno di un territorio geograficamente circoscritto, si formano due centri di potere, è certo che queste due entità tenderanno a incrementare la loro forza, a espandersi, a sottomettere le città più deboli, e che le reciproche sfere di influenza finiranno inevitabilmente per entrare in conflitto[2].
Dimensione economica dello sviluppo
Nello sviluppo umano la componente economica è decisiva, perché le correlazioni tra lo sviluppo economico e le possibilità di uno sviluppo integrale dell’uomo sono evidenti, e le prove schiaccianti[3].
Oggi consideriamo la crescita economica un obiettivo ineludibile e accessibile, e crediamo che non crescere, o crescere poco, sia il più evidente dei fallimenti. Attualmente guardiamo sotto questo profilo al ruolo dell’euro (è possibile la ripresa economica di tutta l’Ue?) o agli ultimi dati della produzione aggregata di un Paese come l’Italia. Ma di fatto lo sviluppo – e in esso la crescita economica –, oggi così necessario in un mondo dove tante persone non hanno nulla da mangiare, nella storia non è stato una realtà costante, ma piuttosto un’eccezione.
La crescita economica nella storia
Lo sviluppo è la grande novità nella storia dell’uomo. Si deve qui citare il testo classico di John Maynard Keynes: «Dai primissimi tempi di cui abbiamo qualche documentazione – diciamo dal 2000 a. C. – fino all’inizio del XVIII secolo non vi fu alcun cambiamento significativo nel tenore di vita dell’individuo medio che viveva nei centri civilizzati della Terra. Alti e bassi sicuramente. […] Questo progresso lentissimo, o mancanza di progresso, fu dovuto a due ragioni: all’assenza di importanti innovazioni tecniche e alla mancata accumulazione di capitale. […] Quasi tutto ciò che ha realmente importanza e che il mondo possedeva all’inizio dell’era moderna era già noto all’uomo agli albori della storia. Linguaggio, fuoco, gli stessi animali domestici che abbiamo oggi. Frumento, orzo, la vite e l’ulivo, l’aratro, la ruota, il remo, la vela, cuoio, indumenti di lino, mattoni e pentole, oro e argento, rame, stagno e piombo – e prima del 1000 a. C. alla lista si aggiunse il ferro –, attività bancarie, arte di governo, matematica, astronomia e religione»[4].
La comparsa della crescita economica moderna è stata un riflesso dell’eccezionale convergenza, in Inghilterra, di fattori diversi. In questo Paese nel XVII e nel XVIII secolo si susseguirono molte innovazioni sociali e tecniche tra loro correlate. Anzitutto, cominciò ad aumentare la produttività agricola, insieme all’urbanizzazione e al commercio. Prese poi a imporsi un’economia di mercato più sofisticata; i diritti di proprietà divennero più complessi e flessibili, creando nuove imprese e tutelando i brevetti su scoperte innovative. Si rafforzò il principio di legalità e si produsse una generale rivoluzione scientifica.
Il filosofo Francesco Bacone aveva già affermato che la scienza e la tecnologia avrebbero profondamente trasformato il mondo a beneficio dell’umanità. Geni come Thomas Newcomen e James Watt inventarono la macchina a vapore, che utilizzava carbone e ferro, creando condizioni di trasporto favorevoli. A partire da quel momento, le varie fasi del progresso tecnologico diedero forma al mondo moderno[5].
Tuttavia, la rivoluzione industriale di fatto aumentò le disparità che già esistevano tra i livelli di vita. Se nel 1820 l’Europa contava su un livello di reddito tre volte superiore a quello dell’Africa, nel 1998 quel divario era aumentato di 20 volte[6]. Con la crescita le divergenze si ampliano: crescere o non crescere equivale a collocarsi a livelli di benessere molto alti o molto bassi.
Quanto a tali livelli, la realtà economica dei giorni nostri presenta enormi differenze tra i vari Paesi del mondo. La storia degli ultimi decenni ha documentato un’incredibile varietà di performance riguardo all’incremento dei redditi pro capite fra aree geografiche e Paesi diversi. Per fare soltanto un esempio, nel 1970 Ghana e Corea avevano un reddito pro capite simile (rispettivamente, circa 250 e 260 dollari). Da allora, la Corea ha avuto un ritmo di crescita straordinario, raggiungendo nel 2001 un reddito pro capite di 15.090 dollari, mentre il Ghana ha fatto registrare fasi di regresso e nello stesso anno si è collocato nel gruppo dei Paesi poveri, con un reddito pro capite di 2.250 dollari.
Similmente, dal secondo dopoguerra a oggi i Paesi dell’Europa occidentale (compresi quelli che durante la Seconda guerra mondiale avevano subìto i danni più gravi al sistema produttivo e alle infrastrutture) hanno raggiunto livelli di benessere molto elevati, mentre in tanti Paesi africani nello stesso periodo di tempo la condizione di estrema povertà si è mantenuta costante, o si è attenuata soltanto di poco. Le cosiddette «tigri del Sud-Est asiatico», protagoniste di una crescita senza precedenti, hanno a loro volta raggiunto livelli di benessere economico molto alti. E il caso più recente riguarda lo sviluppo economico della Cina e dell’India.
Il problema del legame esistente tra lo sviluppo economico e la felicità collettiva è stato considerato nel Rapporto 2013 della Banca mondiale[7]. L’analisi della stretta relazione tra la crescita economica e le dimensioni che contribuiscono alla felicità dell’individuo rivela chiaramente che la creazione di valore economico a livello aggregato è la fonte delle risorse da investire per contribuire allo sviluppo umano (investimento nell’istruzione, nella salute, nel mantenimento e nella conservazione di patrimoni ambientali). Di conseguenza, la crescita rimane un elemento cruciale anche per lo sviluppo di altre dimensioni non monetarie del benessere individuale. Questo non va confuso con un mero materialismo[8].
Il sottosviluppo: la tragedia del nostro tempo
Il fenomeno del sottosviluppo – ovvero, la non eliminazione della povertà e della miseria – fu denunciato da Paolo VI come la vera tragedia del nostro tempo. Il Papa affermò che lo sviluppo dei Paesi arretrati diventava improcrastinabile, perché non raggiungerlo avrebbe provocato grandi conflitti umani. Per questa ragione lo considerava il nuovo nome della pace. Questo fatto lacerante provocò reazioni di cui a livello mondiale si fece carico l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ci riferiamo agli «Obiettivi del Millennio» e a quelli che oggi sono subentrati, gli «Obiettivi di sviluppo sostenibile», che sono sintetizzabili in 4 grandi aree: 1) La prosperità economica; 2) l’inclusione e la coesione sociale; 3) la sostenibilità ambientale; 4) una governance adeguata e buona nella politica e nelle imprese.
Lo sviluppo economico raggiunto ha operato un incredibile miracolo di benessere. Basta confrontare le nostre attuali possibilità con quelle del barone Rothschild, l’uomo più ricco dei suoi tempi, nel contrastare una semplice infezione orale. Oggi noi la curiamo con la penicillina, reperibile in qualsiasi farmacia per pochi euro. Il barone non l’aveva a disposizione, e questo lo portò alla tomba.
La crescita economica ci ha procurato enormi benefici: è aumentata l’aspettativa di vita, si è ridotta la mortalità infantile, sono cresciuti i redditi, si sono ampliati il ventaglio dei beni e quello dei servizi disponibili. Ma che dire dei loro costi? Ai primi posti della lista troviamo problemi ambientali come l’inquinamento, l’esaurimento delle risorse naturali e persino il riscaldamento globale.
Un altro sottoprodotto della crescita economica nel secolo scorso è stato l’aumento del divario dei redditi, certamente tra Paesi diversi, e anche all’interno dei singoli Paesi. I progressi tecnologici possono portare anche alla scomparsa di alcuni settori. Gli operatori telefonici e le segretarie hanno visto il loro lavoro ridefinito dal miglioramento della tecnologia dell’informazione. Nel 1900 più del 40% dei lavoratori statunitensi erano impiegati nell’agricoltura; oggi la loro percentuale è inferiore al 2%.
Tra gli economisti esiste un consenso generale sul fatto che questi costi sarebbero sostanzialmente compensati dai benefici generali. Nelle regioni più povere del mondo il fatto è palese. Quando il 20% dei bambini muore prima dei cinque anni, come avviene in vaste zone dell’Africa, il problema essenziale non è l’inquinamento o il progresso tecnologico, ma l’assenza di sviluppo economico.
Inoltre, i benefici superano i costi nei Paesi più ricchi: ad esempio, perché l’inquinamento spesso è associato soltanto alle prime tappe della crescita economica, come nella Londra del XIX secolo o nell’odierna Città del Messico.
La rivoluzione verde è la nuova rivoluzione industriale
Oggi lo sviluppo implica che si possa dare vita, per mezzo della tecnologia disponibile e di quella che verrà sviluppata in futuro, a una nuova rivoluzione industriale, per produrre un nuovo miracolo: quello che va di pari passo con l’instaurazione di un’economia verde.
Il dilemma tra crescita economica e sostenibilità ambientale è sempre stato presentato come inevitabile. Tradizionalmente si ritiene che una maggiore attenzione all’ambiente obblighi ad adottare misure che ritarderebbero ineluttabilmente lo sviluppo economico. I rimedi tradizionali – tasse e controlli sulla quantità di inquinamento prodotta – incidono inesorabilmente sulla produzione e sul consumo, contraendoli. La posizione di base di alcuni economisti è stata contraria a tale strategia. Essi la considerano troppo drastica, perché compromette il raggiungimento degli obiettivi tradizionali della necessaria creazione di valore economico per poter sovvenzionare il sistema del benessere e la protezione sociale, per finanziare il debito pubblico e creare la base per una riduzione della povertà.
Per questo sembra difficile da accettare – se non come una provocazione, forse utile per far riflettere – l’opzione a favore della decrescita. Va riconosciuto che i difensori di tale movimento hanno avuto il merito di orientare il dibattito verso l’attenzione alla sostenibilità ambientale, lottando contro la tradizionale prospettiva unidimensionale, secondo la quale l’unico ed esclusivo scopo dovrebbe essere quello di perseguire la crescita del benessere materiale, misurata con l’innalzamento del Pil.
Secondo costoro, la strada da intraprendere è quella di ridurre l’area del mercato a favore dell’area non commerciale (reciprocità, scambio di doni, autoconsumo, autoproduzione, intercambio non monetario di prodotti), dato che una parte rilevante del benessere dipende da fattori non monetari. Essi sottolineano che gli attuali sistemi economici hanno progressivamente contratto questa area di informalità o di produzione e scambio di valore non registrati dal mercato. Inoltre, rilevano che avere meno di due dollari al giorno in un Paese sviluppato, dove occorre comprare tutto ciò di cui si ha bisogno, significa essere molto poveri; ma in una zona rurale fertile di un Paese in via di sviluppo questo non significa necessariamente che non si possano soddisfare le proprie necessità alimentari, perché esiste un’area importante di scambi informali e di opportunità di autoconsumo e autoproduzione che possono consentire una sopravvivenza dignitosa.
Sebbene questo fatto non sia irrilevante riguardo alla misurazione della povertà, è evidente che la riduzione dell’area delle transazioni di mercato, a paragone con quelle informali, non può certo compensare i danni – a cui abbiamo fatto cenno – che l’obiettivo della decrescita provocherebbe. Pertanto, sembra logico affermare che ai sostenitori della decrescita tocchi l’onere della prova: essi devono cioè dimostrare che la decrescita sia attuabile, che garantisca livelli di impiego adeguati ed eviti brusche crisi finanziarie e un’inferiore qualità dei servizi pubblici e del benessere collettivo.
È indubbio che per conciliare le esigenze degli economisti e degli ambientalisti sia necessario migliorare la capacità del sistema economico, per produrre valore in una maniera sostenibile sotto il profilo ambientale. Ma è una cosa possibile?
La risposta affermativa tradizionale viene giustificata facendo riferimento alla cosiddetta «curva di Kuznets», o alla presunta «relazione a U rovesciata» che si porrebbe tra il reddito pro capite e le emissioni di diossido di carbonio per ogni singolo lavoratore. Secondo tale prospettiva, lo sviluppo economico contribuirebbe di per sé a risolvere il problema, il che porterebbe alla diminuzione dell’impatto ambientale. Numerosi studi empirici documentano l’esistenza di tale correlazione in diversi periodi storici e in vari campioni di Paesi considerati. Abbiamo già osservato che, quanto all’inquinamento, la Londra di oggi non ha niente a che vedere con quella di un secolo fa.
La curva di Kuznets mostra che, muovendosi verso destra dai livelli più bassi di reddito pro capite, inizialmente l’intensità dell’inquinamento aumenta. Il problema dello sviluppo economico è, di fatto, la preoccupazione dominante dei cittadini, mentre l’economia è caratterizzata dalla prevalenza dei settori agricolo e industriale. Una volta superato il punto massimo della curva, quando il reddito pro capite continua ad aumentare a partire da livelli già alti, i cittadini che hanno raggiunto un livello ragionevole di benessere a questo punto esigono qualità di vita, controllo dell’inquinamento e spazi verdi, mentre l’economia progredisce evolvendosi verso il prevalere del settore terziario. La regolamentazione tende a diventare più rigida, e l’aspettativa di un’ulteriore armonizzazione futura si traduce anche in un incentivo per le imprese ad adottare processi più rispettosi dell’ambiente.
È inevitabile domandarsi se i risultati stimati secondo la curva di Kuznets ci consentano di essere ottimisti. È possibile raggiungere la meta della sostenibilità ambientale mediante la semplice crescita? Purtroppo no.
Uno dei principali problemi nel rapporto tra economia e ambiente è quello relativo al clima, che viene danneggiato dall’inquinamento legato al consumo e all’attività economica. L’incidenza dell’inquinamento sul clima è un problema di accumulo, cioè conseguente al volume totale di emissioni raccolte nel corso degli anni. In altre parole, l’atmosfera impiega molti anni a eliminare l’inquinamento accumulato. Pertanto, anche se il flusso delle emissioni dovesse ridursi una volta raggiunta una certa soglia, il problema resterà vivo e grave per molti anni ancora.
Inoltre, non sappiamo con certezza se esista un «punto di non ritorno» a partire dal quale, una volta superato un certo picco di inquinamento, le conseguenze per il Pianeta sarebbero difficili da eliminare.
Infine, tendere a una qualche riduzione dell’intensità non ci assicura che il volume totale di inquinamento prodotto dal Pianeta in un anno non continui a crescere: perché questo avvenga, basterebbe che la popolazione aumentasse al di sopra di un certo limite o che i Paesi più popolati si trovassero nel tratto iniziale (crescente) e non in quello finale della curva di Kuznets.
Pertanto, la linea degli studi sulla curva di Kuznets non pare poter fondare la soluzione del dilemma tra la crescita economica e l’ambiente, come sembrava prefigurare. Il segno di un cambiamento culturale decisivo su questo tema è stata la pubblicazione, nel 2005, del Rapporto Stern, commissionato dal governo britannico per studiare il problema del riscaldamento globale e le sue conseguenze sullo sviluppo economico del Pianeta.
Il Rapporto calcola che, se non ci saranno interventi significativi sull’emissione di gas a effetto serra, nei prossimi anni la prosecuzione dell’attuale tendenza di aumento delle temperature genererebbe, per il sistema economico, perdite equivalenti a circa il 40% del Pil mondiale. Al contrario, nel caso ci fosse un cambiamento politico decisivo a favore della riduzione delle emissioni, la ristrutturazione dei sistemi produttivi globali trasformerebbe il settore energetico nel nuovo comparto guida dello sviluppo, con conseguenze molto importanti sulla crescita economica. Così, secondo il Rapporto Stern, il dilemma tra lo sviluppo economico e la protezione dell’ambiente potrebbe finalmente risolversi, aprendo la strada a un’armonizzazione tra i due obiettivi.
Ne dà ragione il fatto che la conversione ambientale dei sistemi economici costituisce uno degli stimoli più forti alla crescita (e alla ricerca) che si possano concepire. Perciò, sempre più persone parlano di una vera e propria «rivoluzione verde» che, oltre a essere ineludibile, è una grande opportunità. Essa creerà nuovi posti di lavoro e aprirà una nuova era di prosperità.
Recentemente Joseph Stiglitz ha riflettuto su questo fatto nel contesto economico degli Stati Uniti[9]. Egli fa notare che, quando gli Usa vennero attaccati durante la Seconda guerra mondiale, nessuno chiese: «Possiamo prenderci il lusso di entrare in guerra?». Era una domanda esistenziale. Non ci si poteva permettere di non combattere quel nemico. La stessa cosa vale per la crisi climatica. Il costo diretto che conseguirebbe all’ignorare il problema è evidente.
La guerra contro l’emergenza climatica, se condotta adeguatamente, in effetti farebbe bene all’economia, così come la Seconda guerra mondiale pose le basi dell’era economica aurea degli Usa. Il Green New Deal stimolerebbe la domanda, garantendo l’uso di tutte le risorse disponibili; e il passaggio all’economia verde condurrebbe probabilmente verso nuovi picchi. Si creerebbero, nel settore delle energie rinnovabili, molti più posti di lavoro di quanti oggi se ne perdono con il carbone. Non si vede alcuna ragione per cui l’economia innovatrice e verde del XXI secolo debba seguire i modelli economici e sociali dell’economia manifatturiera del XX secolo, basati sui combustibili fossili, così come non c’era ragione per cui tale economia dovesse seguire i modelli finanziari e sociali delle economie agrarie e rurali dei secoli precedenti.
Alcune riflessioni
Ora siamo posti di fronte a tre interrogativi chiave – che cosa produrre? come produrre? per chi produrre? –, per poter risolvere la questione fondamentale dell’economia, ossia quella di creare ricchezza. Quale sviluppo vogliamo, quale sviluppo dobbiamo raggiungere? Noi riteniamo che la risposta a tali interrogativi debba ispirarsi ai criteri della dottrina sociale della Chiesa.
In essa troviamo princìpi poco conosciuti – se non addirittura disprezzati –, ma essenziali: quelli di sussidiarietà e di solidarietà, da cui nasce un’intera visione dei sistemi economici (le obiezioni al liberalismo e al socialismo), del ruolo del mercato e di come debba essere la vita economica e, di conseguenza, lo sviluppo stesso.
È urgente reagire contro una globalizzazione sfrenata, a volte selvaggia, perché incontrollata: occorre riuscire a governarla. Il modello europeo, paragonato a quelli nordamericano e cinese, è molto più umano e riflette l’opzione per un’economia più sociale.
Oggi sul mercato internazionale c’è una concorrenzialità estrema, nella quale si è giunti a scavalcare l’essenziale ruolo regolatore dei governi. La crisi del 2008 ha dimostrato quali siano le conseguenze logiche di tale opzione. Un anno prima della sua morte, avvenuta il 13 dicembre 2009, Paul Samuelson pubblicò l’articolo «I sette errori dei liberisti senza regole», in cui accusava il capitalismo libertario, sostenuto da Friedman e Hayek, di essere alla base di quella crisi finanziaria, la peggiore da un secolo a questa parte[10]. Secondo lui, era indiscutibile che la crisi mondiale scoppiata nel 2008 portava l’etichetta made in Usa.
Tuttavia, potremmo aggiungere un altro elemento importante: il ruolo cruciale svolto nella sua propagazione dalla crescente integrazione economica. Senza il fattore della globalizzazione finanziaria, il disastro dei prestiti ipotecari statunitensi non avrebbe provocato tanti danni in ogni angolo del Pianeta.
Abbiamo bisogno di nuove forme di impresa. Oggi si parla molto di «responsabilità sociale d’impresa», di «economia di comunione», ed esiste anche il «modello cooperativo»[11]. Nel documento La vocazione del leader d’impresa, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace nel 2013, troviamo esposta una compiuta visione dell’imprenditore, incentrata su: 1) produrre beni e servizi che soddisfino i bisogni reali delle persone e, al tempo stesso, assumersi la responsabilità dei costi sociali e ambientali della produzione, della catena distributiva al servizio del bene comune, nonché di identificare le opportunità di accogliere le richieste dei poveri; 2) organizzare il lavoro in modo produttivo e significativo, riconoscendo agli impiegati il diritto e il dovere di svilupparsi con la loro attività («il lavoro è per l’uomo», e non «l’uomo è per il lavoro») e la promozione di un ambiente di lavoro caratterizzato dalla sussidiarietà, che porta a coinvolgere, a formare i dipendenti e a contare su di loro, affinché possano adempiere ai loro compiti al meglio delle loro capacità; 3) «un utilizzo oculato delle risorse al fine di creare profitto e benessere, produrre ricchezza sostenibile e distribuirla equamente (giusto salario per i collaboratori, giusti prezzi per clienti e fornitori, giuste imposte per la comunità e giusti rendimenti per i proprietari)»[12].
La prospettiva che Benedetto XVI ha espresso in tutta la sua profondità, nell’enciclica Caritas in veritate (CV), sul dono nei mercati, porta a evitare un’economia spietata, speculativa, senz’anima, senza etica e senza compassione: «La vittoria sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione» (CV 39).
Oggi si parla della robotica come del futuro che ci attende. Sappiamo che si tratta di un punto caldo dell’attuale tensione tra gli Stati Uniti e la Cina, fra Trump e Xi Jinping[13]. Il progresso tecnologico, che è il motore della crescita, sta raggiungendo qualcosa che prima sembrava irrealizzabile. Anni fa Keynes lo presentiva, quando scrisse le Possibilità economiche per i nostri nipoti. Egli intravedeva una lontana età dell’oro in cui le possibilità economiche derivate dalla tecnica avrebbero consentito di soddisfare con grande facilità le necessità primarie, e così il problema economico e la lotta per la sopravvivenza non sarebbero stati più la priorità costante della specie umana.
Keynes era soltanto un visionario? Forse no, ma quell’epoca non è ancora giunta e oggi le difficoltà non mancano. Il Kaiser Guglielmo II nel 1895 definiva «pericolo giallo» la paura che le popolazioni orientali soppiantassero quelle europee alla guida del mondo, facendo eco a Napoleone, il quale aveva affermato nel 1816: «Quando la Cina si desterà, il mondo tremerà». Tuttavia papa Francesco ha affermato che la paura non è mai una buona consigliera e che tutti hanno in loro stessi la capacità di trovare modi di coesistenza, di rispetto e di stima reciproca. Oggi la potenza cinese ha manifestato il suo interesse economico in Africa e in America Latina, una presenza concorrenziale sui mercati mondiali, non sempre giudicata corretta, una determinazione nello sviluppo tecnologico, che non esclude controversie circa i diritti di proprietà ecc. D’altra parte, si è manifestato anche il protezionismo dell’amministrazione nordamericana, a cui va unito l’atteggiamento ambiguo riguardo al cambiamento climatico; e inoltre vanno considerate la povertà e la miseria del mondo non ancora sviluppato, le guerre costanti e le migrazioni da governare con umanità.
Oggi parliamo di un’«economia sostenibile», e questo richiede molto. Tuttavia papa Francesco preferisce parlare di «sviluppo integrale», riprendendo così la grande tradizione della Chiesa. Noi cristiani dovremmo essere maggiormente consapevoli della nostra tradizione di pensiero, apprezzata anche da uno studioso come Jeffrey Sachs, secondo il quale senza l’ispirazione della Chiesa lo sviluppo sostenibile non sarà possibile[14]. Esistono dottrine che per sensibilità e profondità siano paragonabili a quella della Chiesa?
Conclusione
Il grande interrogativo è se nel nostro tempo non ci stiamo scontrando con i nostri limiti, se sarà possibile continuare a crescere. Oggi sappiamo che tali limiti riguardano soprattutto l’ecologia, e che il cambiamento climatico è la nostra minaccia più seria. Quella dell’economia verde è una necessità e una grande opportunità, dato che può generare ricchezza sia nel mondo sviluppato sia in quello che è in procinto di diventarlo. Questa realtà si realizzerà in futuro?
È evidente che nel nostro mondo, per poterne affrontare i veri problemi, migliorare la vita di molti e abolire la miseria di un buon numero di persone, è necessario crescere; ma ciò sarà sempre possibile?
Abbiamo fatto riferimento a proposte che contemplano perfino la decrescita, un’intera corrente di pensiero politico, economico e sociale favorevole alla diminuzione controllata della produzione economica, con l’obiettivo di stabilire un nuovo rapporto di equilibrio tra l’essere umano e la natura, e anche tra gli esseri umani stessi. Secondo l’economista e filosofo francese Serge Latouche, si tratta di abbandonare l’obiettivo della crescita per la crescita.
La questione è assai complessa. La decrescita economica è ecologicamente desiderabile e forse inevitabile; ma a quali condizioni può diventare socialmente sostenibile? Come si organizzerebbe la produzione in un’economia decrescente? In quali condizioni sociopolitiche potrebbero verificarsi cambiamenti così grandi? Le teorie e i modelli economici standard ignorano tali domande. Per essi la crescita economica è una necessità assiomatica.
Nel giugno 2015 papa Francesco ha pubblicato l’enciclica Laudato si’ (LS), che affronta temi come il debito ecologico, il debito sociale tra il Nord ricco e il Sud povero, l’origine antropica del riscaldamento globale, l’esigenza di creare istituzioni internazionali forti, la necessaria pressione sui leader politici e il sacrificio individuale nei confronti del consumo superfluo. Allo stesso tempo, l’enciclica critica la nozione della crescita illimitata, che ha destato tanto entusiasmo e che implica la menzogna della disponibilità infinita dei beni del Pianeta. Riguardo alla crescita eccessiva del Nord e la disuguaglianza rispetto al Sud, il Papa evidenzia l’insostenibilità del comportamento di quanti consumano e distruggono sempre di più, mentre altri non possono ancora vivere secondo la propria dignità umana, e afferma che è giunta l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo, apportando risorse per consentire la sana crescita in altre parti (cfr LS 106; 109; 193).
Siamo di fronte a una sfida etica singolare, dato che in realtà affrontiamo un problema economico globale. Già due volte l’umanità è riuscita a scongiurare il demone malthusiano: riuscirà a vincere anche questa sfida? I testi biblici ci invitano a «coltivare e custodire» il giardino del mondo (cfr Gen 2,15). Mentre «coltivare» vuol dire arare, lavorare, «custodire» vuol dire proteggere, prendersi cura, preservare, vigilare. Si tratta di considerare l’insopportabile leggerezza del pianeta Terra. Kenneth Boulding diceva: «Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista».
Ci auguriamo che si riesca a passare a un’economia verde che permetta a tutti noi – sia ai ricchi sia a chi è ancora povero – di crescere con un benessere condiviso, che si basi sul rispetto del creato e sia davvero integrale, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
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WILL A GREEN ECONOMIC DEVELOPMENT BE POSSIBLE FOR EVERYONE?
The economic development that began with the Industrial Revolution is threatened by the current climate crisis, generated by the production and consumption patterns of our times. The conversion to a green economy has become fundamental and at the same time constitutes a great opportunity for all economies: to grow in a globalization governed by an essential regulatory role of states and societies that generate wealth in the service of the common good. There is an urgent need to react against uncontrolled globalization. The European model, compared to the North American and Chinese model, is much more humane and reflects the option for a more social economy.
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[1]. Questo adagio ha origine da La vita di Antonio, scritta da sant’Atanasio. È stato san Bernardo a coniarlo per sempre: Nolle proficere, deficere est.
[2]. Cfr Tucidide, La guerra del Peloponneso, Milano, Rizzoli, 1996.
[3]. Per una valida giustificazione di questa affermazione, cfr L. Boggio – G. Seravalli, Lo sviluppo economico, Bologna, il Mulino, 2015, 55: «Il risultato è che il livello dello sviluppo umano può essere colto adeguatamente anche considerando solo due dimensioni: il livello del reddito pro capite e la sua distribuzione. Ciò non rende inutile il lungo lavoro compiuto per definire e calcolare tutta una serie di altri indici di sviluppo umano. Anzi, questa conclusione è possibile proprio grazie a tale lavoro».
[4]. J. M. Keynes, «Economic Possibilities for our Grandchildren», in Id., Essays in Persuasion, New York, W.W. Norton & Company, 1962 (in it., Possibilità economiche per i nostri nipoti, Milano, Adelphi, 2009).
[5]. Cfr J. Sachs, L’ era dello sviluppo sostenibile, Milano, Egea, 2014, 85.
[6]. Cfr A. Maddison, The World Economy: A Millenial Perspective, Paris, OECD, 2001.
[7]. Cfr L. Becchetti – L. Bruni – S. Zamagni, Microeconomia. Un testo di economia civile, Bologna, il Mulino, 2014, 431.
[8]. Francis Hackett ha affermato: «Credo nel materialismo. Credo in tutti i risultati di un sano materialismo: buona cucina, case asciutte, piedi asciutti. Fogne, tubature, acqua calda, bagni, luce elettrica, automobili, buone strade, vie illuminate, lunghe vacanze fuori città, nuove idee, cavalli veloci, conversazioni vivaci, teatri lirici, orchestre, bande musicali. Credo in tutto questo per tutti» (citato in P. A. Samuelson – W. Nordhaus, Economía, Madrid, Mc Graw Hill, 1999, 531).
[9]. J. Stiglitz, «The climate crisis is our third world war. It needs a bold response», in The Guardian, 4 giugno 2019.
[10]. Cfr P. A. Samuelson, «I sette errori dei liberisti senza regole», in Corriere della Sera, 20 ottobre 2008. Cfr anche F. de la Iglesia Viguiristi, «A dieci anni dal crollo di “Lehman Brothers”», in Civ. Catt. 2018 IV 471-485.
[11]. Nei Paesi Baschi è molto diffuso il gruppo cooperativo di Mondragón, ispirato e fondato dal sacerdote José María Arizmendiarrieta, che prossimamente sarà proclamato beato dalla Chiesa.
[12]. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, La vocazione del leader d’impresa. Una riflessione, 2013.
[13]. Cfr F. de la Iglesia Viguiristi, «Usa e Cina in guerra commerciale», in Civ. Catt. 2019 I 362-376.
[14]. Cfr J. Sachs, «Sembrando futuro. De cómo la Iglesia puede ayudar a promover objetivos de desarrollo sostenible», in Razón y Fe, vol. 269, 2014, 27-33.