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Spesso si dice che l’Africa è un «continente in movimento». In realtà, prima della colonizzazione europea non esistevano, soprattutto nella sua parte subsahariana, vere e proprie frontiere, tantomeno dei «muri» o barriere di contenimento, come purtroppo oggi li conosciamo dappertutto: vi erano, invece, i cosiddetti «imperi portatili», la cui estensione geografica era variabile, e «regni acefali», senza una capitale stabile[1]. L’unica realtà politica veramente fissa e determinata per gli abitanti era l’appartenenza a un clan o a una determinata etnia.
Questo però non significa che l’Africa sia un «Paese senza storia», senza civiltà – come si riteneva nell’Ottocento –, un vasto territorio ai margini delle vicende mondiali, ad eccezione dell’Egitto e delle terre che si affacciano sul Mediterraneo, divenute prima romane, poi bizantine e infine islamiche. Questa idea distorta dell’Africa come «buco nero» nella storia dell’umanità deriva da una mentalità razzista – talvolta ammantata di scienza –, che concepisce il dominio europeo su tutto il resto del mondo come frutto di una presunta superiorità della civiltà bianca sulle altre.
In questo orizzonte è nata l’idea di una missione «civilizzatrice» delle potenze coloniali europee che giustificava il colonialismo, cioè l’occupazione indiscriminata di immensi territori – che poi, dopo la decolonizzazione, divennero Stati –, nonché la legittimità, da parte degli occupanti, dello sfruttamento delle risorse naturali e delle popolazioni[2].
Un continente in movimento
L’Africa contemporanea, ben definita nei suoi confini territoriali dalle ex potenze coloniali, è divenuta nel XXI secolo un continente di migrazioni: milioni di persone si spostano da uno Stato all’altro, quando questo è possibile, in maniera silenziosa e continua, alla ricerca di lavoro o di protezione. A volte, addirittura, questi flussi si invertono – come è successo tra il Camerun e la Guinea equatoriale –, a motivo dei cambiamenti economici che avvengono all’interno dei singoli Stati.
L’Africa ha la popolazione più giovane del mondo: secondo stime attendibili, il 60% di essa è sotto i 25 anni[3]. L’Africa inoltre ha un alto numero di sfollati e di profughi, dovuti alle numerose guerre intertribali, spesso dimenticate dai media. Le migrazioni verso l’esterno (in particolare l’Europa) da alcuni decenni a questa parte sono aumentate notevolmente.
Il 2015 è stato un anno eccezionale per le migrazioni dall’Africa verso i Paesi dell’Europa. Il flusso in qualche modo si è unito a quello dei profughi provenienti dal Medio Oriente, in particolare dalla Siria[4]. Secondo l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex), quell’anno sono entrate nell’Ue circa 1.800.000 persone, di cui un milione attraversando il Mediterraneo[5], mentre un numero considerevole di profughi (circa 800.000) è stato accolto dalla Germania. Di quei migranti, circa 200.000 provenivano dall’Africa.
A parte i somali, i sud sudanesi e gli eritrei, che fuggivano da regimi autoritari o da cosiddetti «Stati falliti», tutti gli altri possono essere considerati, secondo un’accezione comune, «immigrati economici», cioè persone che attraversano il Mediterraneo sperando di trovare nella parte nord del Mare Nostrum condizioni di vita migliori per sé e per la propria famiglia.
Il numero dei migranti africani in questo periodo non ha fatto registrare variazioni significative, né prima né dopo la crisi dei profughi. Ciò sta a significare che «un afflusso eccezionale – come fu quello del 2015 – può nasconderne un altro, più strutturale»[6]. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dal 2007 a oggi sono entrati in Europa circa 2 milioni di africani – vale a dire in media 200.000 all’anno –, i quali si sono aggiunti ai migranti già presenti nel nostro continente, cioè circa 9 milioni. Con questi numeri è difficile oggi parlare di un’invasione di africani nell’Ue.
Un’importante novità delle recenti immigrazioni nel nostro continente è che il Paese dell’Europa meridionale nel quale entra il maggior numero di immigrati via mare – ma anche via terra, attraverso le enclave di Ceuta e Melilla[7] –, dopo le misure draconiane prese dal passato governo italiano giallo-verde in materia di migrazione, non è più l’Italia[8], ma la Spagna, che nei primi 9 mesi del 2019 ha accolto più di 23.000 migranti. In assoluto, il primato degli arrivi di immigrati tra i Paesi dell’Ue va però attribuito alla Grecia, nella quale nello stesso periodo sono giunti circa 45.000 migranti[9].
Ma per la realizzazione di questo progetto devono verificarsi almeno due condizioni[10]. La prima è il superamento di una soglia minima di povertà. Le persone che non hanno mezzi economici di solito non emigrano. Per fare il salto e realizzare il sogno è necessario possedere «un tesoretto iniziale», sufficiente per affrontare la sfida del viaggio e per remunerare i vari «traghettatori» o trafficanti di esseri umani. Attualmente il costo previsto per un’impresa di questo tipo varia dai 1.500 ai 2.000 euro, ossia almeno il doppio del reddito annuo di un lavoratore medio in un Paese subsahariano.
La seconda condizione perché il viaggio possa avere successo è l’esistenza di comunità diasporiche nel luogo di arrivo. Infatti, la presenza di parenti o amici pronti ad accogliere i migranti sull’altra riva del Mediterraneo riduce ampiamente il margine di incertezza del loro viaggio e i costi di insediamento. «La diaspora funziona da camera di decompressione per passare dallo smarrimento iniziale causato dal nuovo ambiente a una familiarità di base con un’altra società»[11].
In effetti, l’esistenza di una comunità diasporica in un Paese europeo, ben radicata e non ancora dissolta nel tessuto sociale del Paese di accoglienza, costituisce un forte incitamento all’arrivo di nuovi migranti.
Inoltre, non va dimenticato che la decisione di emigrare spesso non è una scelta individuale, ma riguarda anche la famiglia, o addirittura il clan di appartenenza. Secondo Marco Zuppi, attuale direttore Canone Rai, l’importanza dei legami familiari nelle dinamiche migratorie è di particolare rilievo anche in relazione alla dimensione finanziaria, che porta a considerare l’emigrazione «come una decisione familiare di diversificazione del portafoglio di titoli che generano reddito, al fine di coprirsi dai rischi di scarsa liquidità e in presenza di fallimenti del mercato, attraverso il ricorso alle rimesse inviate dal familiare emigrato»[12].
Alcuni analisti ritengono che le migrazioni dall’Africa verso «l’esterno» negli ultimi tempi siano state molto agevolate dalle sovvenzioni offerte dagli Stati più ricchi a quelli più poveri. La cosiddetta «teoria del co-sviluppo», che mira a sviluppare economicamente tali Paesi e ridurre così le migrazioni sia interne (spesso non gradite) sia esterne, in realtà ha conseguito l’effetto opposto, facilitando lo sradicamento delle persone a medio reddito. A tale riguardo, il politologo Jeremy Harding ha scritto: «Guerre, fame, decadimento sociale non hanno causato migrazioni in massa oltre la frontiera naturale costituita dal Sahara. Ma i primi raggi di prosperità potrebbero motivare un numero maggiore di africani a venire in Europa»[13].
Ora, pur avendo elementi di verità, questa posizione, alla luce di una prospettiva solidaristica, non risulta, almeno in assoluto, eticamente sostenibile. In realtà essa afferma che solo coloro che vivono nei Paesi ricchi hanno il diritto di spostarsi e viaggiare liberamente, come se il mondo soltanto per essi non avesse frontiere di sorta.
Secondo alcuni studi recenti, l’immigrazione nel medio-lungo periodo non soltanto contribuisce a frenare il calo demografico di intere regioni, ma crea anche ricchezza nei Paesi di accoglienza. La rivista Lancet ha pubblicato uno studio molto documentato, nel quale si dimostra che ogni aumento dell’1% della popolazione adulta di migranti in una certa area geografica accresce il Prodotto interno lordo (Pil) del 2%[14], anche se molti – soprattutto nei Paesi europei – sono convinti che gli immigrati ricevano (in contributi assistenziali e altro) più di quanto contribuiscano con le tasse nel Paese che li ospita.
L’analisi dei dati disponibili dimostra però il contrario: gli immigrati, in realtà, restituiscono più di quanto prendono, e concorrono a migliorare il mercato del lavoro anche per gli altri. Essi, inoltre, contribuiscono in modo determinante al benessere globale: solo nel 2017 hanno spedito alle loro famiglie di origine 631 miliardi di dollari, che è molto di più di quanto i Paesi ricchi e industrializzati facciano nell’ambito della cooperazione internazionale a favore di quelli più poveri[15].
Le tre tappe del fenomeno migratorio
In genere, il fenomeno delle migrazioni in Africa può essere suddiviso in tre tappe, che si susseguono una dopo l’altra e nelle quali si passa gradatamente da una migrazione interna a una esterna, quando esistono le condizioni di cui si è parlato sopra.
La prima tappa è il cosiddetto «esodo rurale»: milioni di giovani negli ultimi tempi hanno lasciato i villaggi dove sono nati, e si sono riversati, alla ricerca di un lavoro, nelle città più vicine o nella capitale dello Stato. Questo passaggio è considerato da molti come una forma di contestazione delle gerarchie tradizionali – fondate sull’età e sull’appartenenza clanica –, ritenute ormai superate.
Di solito questi giovani non tagliano completamente i ponti con i luoghi di origine. Alcuni di loro, soprattutto quelli che hanno fatto fortuna in città, ritornano periodicamente e si costruiscono una nuova e moderna abitazione nel villaggio, ostentando così il loro successo. D’altra parte, gli anziani accettano questo stato di cose, anzi lo legittimano, considerando questi giovani, che sono partiti come loro emissari, «come ambasciatori della loro comunità, invece che dissidenti o ragazzi perduti»[16]. Secondo lo storico delle relazioni internazionali Mario Giro, in questi ultimi decenni è in atto in Africa, soprattutto tra i giovani, una sorta di rivoluzione antropologica: al posto della vecchia cultura solidale (fondata sul «noi»), si sta fortemente imponendo, come in altre parti del mondo, «una cultura competitiva e materialistica», fondata sull’«io». L’impulso a emigrare va anche letto come conseguenza di tale trasformazione, «essendo sovente caduta ogni speranza nel futuro del proprio Paese»[17]. Anzi, spesso sono gli stessi adulti, depositari della tradizione, a spingere i giovani a emigrare, a fare fortuna «fuori». Insomma, sulle nuove generazioni «si carica così il peso e la “fretta” di riuscire a carpire qualche briciola dello sviluppo globale che offre nuove opportunità»[18].
La seconda tappa delle migrazioni si svolge oltre la città di provincia o della capitale e conduce nelle grandi metropoli africane come Abidjan, Lagos[19], Nairobi e altre. Per la prima volta viene attraversata una frontiera internazionale, e così si pongono tutti i problemi giuridici dello status di migrante. Va infatti ricordato che non è facile muoversi all’interno del continente africano. Spesso i visti di soggiorno vengono o rallentati per molto tempo o semplicemente rifiutati, anche da Paesi limitrofi. Un panafricanismo mal concepito tende a minimizzare questo fatto, come se tra africani ci si dovesse intendere senza problemi e si dovessero condividere diritti che sono riservati soltanto ai cittadini.
Inoltre, nell’Africa subsahariana la sorveglianza delle frontiere è un problema di portata generale, sia per l’estensione dei territori sia per la corruzione endemica del personale preposto al controllo. Secondo il filosofo camerunense Achille Mbembe, per superare queste fratture è necessario decolonizzare territorialmente l’Africa: «Non c’è nulla che giustifichi storicamente la frattura del continente tra il Nord e il Sud del deserto del Sahara. Non solo, nel continente africano nessuno dovrebbe trattare mai un africano o una qualsiasi persona di origine africana come uno straniero. “Debalcanizzare” il continente appare quindi sempre più come una delle condizioni necessarie per proteggere le vite degli africani»[20]. Facilitare la libera circolazione nel continente potrebbe depotenziare il miraggio di una possibile libertà fuori dall’Africa nella mente dei giovani.
Secondo Mbembe, una nuova linea di frattura nel prossimo futuro opporrà chi avrà il diritto incondizionato «alla velocità e alla circolazione» (con tutto ciò che ne consegue) a chi non potrà beneficiarne per motivi razziali o semplicemente economici. Coloro che gestiranno questi processi a livello planetario saranno i nuovi padroni del mondo, perché soltanto loro avranno il potere di decidere chi potrà circolare liberamente e chi sarà condannato all’immobilità.
In questo nuovo ordine, l’Africa dovrà decidersi a riorganizzare il proprio spazio vitale e attivare una maggiore mobilità all’interno del continente. L’Europa, infatti, non soltanto ha deciso di militarizzare le proprie frontiere e costruirne sempre di nuove, al fine di contenere «l’invasione dall’Africa», ma sta spostando progressivamente i propri confini oltre il Mediterraneo, prolungandoli «fino alle vie di fuga e ai percorsi sinuosi usati dagli africani che vogliono migrare. Questi confini, in realtà, si spostano man mano che cambiano i percorsi migratori»[21].
Va pure ricordato che il problema della mobilità tra Stati non riguarda soltanto l’Africa, ma anche continenti molto avanzati, come l’Europa. Quest’ultima ha un’alta densità demografica, ottime comunicazioni, vaste aree fortemente industrializzate e marcate disuguaglianze economiche tra Stati. Condizioni, queste, che dovrebbero favorire la mobilità interna, che però, in realtà, rimane molto contenuta, pur superando di gran lunga la migrazione dall’esterno dei suoi confini. Mentre negli Usa, per esempio, si sposta per motivi di lavoro il 3% della popolazione attiva, nell’Ue soltanto lo 0,5%.
Oltre alle barriere linguistiche e identitarie, in Europa le recenti diatribe – tra gli stessi Stati appartenenti allo «Spazio Schengen» – riguardo all’immigrazione hanno fortemente contribuito a ridurre la circolazione interna delle persone. «La tensione nazionalista minaccia di porre nuovi ostacoli agli spostamenti interni, accampando la necessità di mantenere intatto il contesto sociale e culturale»[22]. La recente emergenza dovuta al diffondersi del coronavirus ha reso la situazione della mobilità tra gli Stati (non solo quelli europei) più complicate e difficili. Se l’emergenza dovesse durare, avrebbe conseguenze disastrose per la circolazione delle persone e delle merci a livello globale, danneggiando soprattutto i Paesi più poveri.
I problemi maggiori, secondo Mbembe, non sono né quelli di natura demografica[23] – infatti, in confronto agli altri continenti, quello africano è il meno «affollato» (rispetto ai suoi 30 milioni di chilometri quadrati) –, né quelli riguardanti le migrazioni all’esterno, dal momento che di 1,3 miliardi di abitanti soltanto 29,3 milioni di persone negli ultimi tempi hanno lasciato l’Africa. La sfida maggiore non consiste, come nell’epoca coloniale, «nel determinare le frontiere, limitare i passaggi, costringere la popolazione all’immobilità e alla sedentarietà, intensificare gli scambi a livello locale: la vera sfida sarà regolare la circolazione e potenziare la mobilità all’interno del continente»[24]. Ciò potrà indurre milioni di giovani a non abbandonare l’Africa e a impiegare le proprie energie fisiche e intellettuali per sostenere lo sviluppo del continente africano.
Secondo alcuni analisti, tutti i Paesi africani, eccetto la Nigeria – che nel 2050 potrebbe diventare il terzo Paese più abitato del mondo, dopo la Cina e l’India –, sono oggi sottopopolati[25]. La tratta degli schiavi, praticata in vario modo nei secoli passati, ha contribuito, fino all’inizio del Novecento, allo spopolamento del continente. In ogni caso, rispetto alla densità abitativa europea, «l’Africa è terreno vergine per molti settori dell’economia internazionale, in particolare quello agroindustriale, con cospicue disponibilità di terra coltivabile»[26].
Su questa materia occorre innanzitutto sgomberare il campo da allarmismi relativi alla «bomba demografica» africana fuori controllo (secondo molti studiosi di demografia, alla fine di questo secolo il continente africano avrebbe più di 4 miliardi di abitanti). Inoltre, va notato che la transizione demografica storicamente riflette – in assenza di eventi eccezionali, come guerre, carestie e pandemie – «un processo lungo di adattamento dei costumi e delle culture agli effetti dello sviluppo economico e socio-sanitario (innanzitutto legato al ruolo e agli spazi di potere delle donne), come dimostra la transizione europea, in cui la riduzione della natalità non è stata indotta forzatamente, ma è stata l’effetto dei cambiamenti complessivi delle società»[27].
Stando ai dati demografici, l’Africa, nel periodo tra il 1950 e il 1955, era la terza regione al mondo, dopo l’America Latina-Caraibi e l’Oceania, per tasso di natalità. In seguito è diventata la prima, raggiungendo il picco massimo tra il 1980 e il 1985, con un tasso di nascite del 2,85%. Dopo quel periodo vi è stata una lunga fase di diminuzione e di stabilizzazione (1,9%), anche se in modo non uniforme. La Nigeria e altri Paesi, infatti, hanno tassi di crescita superiori alla media continentale, sebbene la mortalità infantile sia alta.
L’Africa, escluso il caso del Sahara occidentale, «risulta aver imboccato da tempo la strada del contenimento dei tassi di crescita demografica»[28]. Questa dovrebbe continuare a diminuire gradatamente per tutto il secolo, e tuttavia la popolazione globale del continente nel 2050 supererà i due miliardi di persone, mentre quella europea non arriverà probabilmente al mezzo miliardo.
Il vero problema dell’Africa non è (e non sarà) quello demografico (o soltanto questo), ma quello riguardante lo sviluppo economico, in genere bloccato da una classe politica corrotta e litigiosa, spesso incapace di gestire le risorse naturali dei rispettivi Paesi (il cui sfruttamento spesso viene demandato a Stati non africani, come la Cina) e che nega ai giovani un avvenire mediamente sostenibile. Inoltre, il deficit di democrazia che si registra in molti Paesi e il perdurare di governi guidati da militari o da dittatori di vecchia data non fanno ben sperare riguardo al futuro immediato del continente.
Di solito, la terza e ultima tappa spinge molti giovani ad abbandonare il continente africano e ad affrontare i numerosi ostacoli e difficoltà dell’immigrazione in Europa. Questo argomento è stato già trattato in diversi articoli e pubblicazioni della nostra rivista, ai quali rimandiamo[29]. Possiamo in definitiva affermare che la migrazione africana assomiglia a una «fontana dotata di più vasche di straripamento»[30]. All’inizio c’è l’esodo rurale, che porta molti giovani dai villaggi alle città, divenute ormai macrocefale e invivibili; successivamente si ha il trasferimento di molti di essi nelle principali megalopoli africane, dove vivono decine di milioni di persone, spesso in condizioni di estrema indigenza. Infine, con la progressiva costituzione di reti di «passatori», un numero crescente di migranti abbandona il continente per andare in Europa o in altre parti del mondo.
Come si è detto, il fenomeno delle migrazioni dei giovani africani verso l’Europa è diventato da anni un fenomeno strutturale e, nonostante le misure repressive adottate da vari governi europei in tale materia, continuerà ad accompagnarci per lungo tempo. Occorre prendere atto del fenomeno e utilizzarlo come spunto per operare delle scelte, come ad esempio quale tipo di migranti accogliere, e a quali condizioni. Due considerazioni sembrano però necessarie a questo riguardo: da una parte, nella gestione concreta di tale fenomeno, che non è più un’emergenza soltanto nazionale, non bisogna perdere il senso umanitario, come a volte purtroppo accade; dall’altra, non bisogna sacrificare o disconoscere gli interessi dei cittadini europei, non ancora preparati – anche per motivi legati alla sicurezza – a sostenere il trauma di una presunta «invasione» di stranieri. Un certo irenismo umanitario in questa delicata materia è pericoloso, dal punto di vista sociale, quanto l’egoismo nazionalista, spesso venato di razzismo. Di fatto, in questi anni la propaganda anti-immigrazione è stata fortemente sostenuta da alcuni media e da alcune formazioni politiche di destra con il pretesto della difesa del lavoro e dell’identità nazionale, ma in realtà per motivi soprattutto politico-elettorali, che in vari casi hanno mostrato tendenze xenofobe, quando non addirittura razziste. Con risultati, in molti Paesi, non trascurabili.
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AFRICA: A CONTINENT ON THE MOVE
Africa has become a continent of migration in the 21st century. Even with the territorial borders between countries precisely defined by their former colonial powers,, millions of people today move from one state to another to look for work or protection. According to reliable estimates, Africa has the youngest population in the world. The continent also has a high number of displaced persons and refugees, due to the numerous inter-tribal wars. This article considers both the phenomenon of migration to the outside world (in particular, to Europe), which has increased considerably over the last few decades, and migration within the continent, which is numerically more substantial and significant.
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[1]. L’Africa subsahariana ha conosciuto imperi sconfinati e civiltà molto progredite, soprattutto nel periodo della dominazione islamica, anche se non erano determinati da confini fissi e stabili. I più importanti furono l’impero del Ghana (vassallo della dinastia araba degli almoravidi), che nel XIII secolo fu assorbito dall’impero del Mali e, infine, il grandioso impero Songhai di Gao, che si estendeva su un territorio vastissimo lungo il corso del fiume Niger e che controllava i traffici commerciali nell’area del sud del Sahara. Si trattava «di organismi statali ben strutturati, dominati solidamente da una élite militare di cui il sovrano era la massima espressione». Organismi, inoltre, capaci di riunire sotto un unico controllo regioni anche molto estese, in modo da poter garantire e tutelare lo sviluppo del commercio e il movimento delle persone. Cfr R. Roveda, «L’Africa è la sua storia», in Limes, n. 12, 2005.
[2]. Cfr ivi.
[3]. Cfr S. Smith, Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente, Torino, Einaudi, 2018, 52.
[4]. La popolazione dei migranti nel XXI secolo, sia in Europa sia in altre parti del mondo, è andata crescendo, perché gli esodi generati dalle nuove guerre, come quella in Siria, si vanno a sommare all’incessante stillicidio di conflitti, in qualche modo dimenticati dalle grandi potenze che in passato li hanno generati, come quelli in Afghanistan o in Somalia, che affondano le loro radici nelle vicende della Guerra fredda o nei primi anni del nuovo «ordine mondiale» a guida statunitense. Non dobbiamo dimenticare, infine, che l’Afghanistan per circa 30 anni ha prodotto il maggior numero di rifugiati, che si sono dispersi in diverse parti del mondo. Cfr A. Morales, Non siamo rifugiati. Viaggio in un mondo di esodi, Torino, Einaudi, 2017, 15.
[5]. Il Mediterraneo, il mare comune ad africani ed europei, è divenuto, soprattutto nelle rotte verso Lampedusa, un vero e proprio «cimitero marino»: infatti, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dal 3 ottobre 2013 al gennaio 2019 il numero dei morti nel Mediterraneo è stato di 18.066. Cfr A. Veronesi – T. Ben Jelloun – M. Serafini, «Il naufragio dell’Occidente», in Corriere della Sera, «la Lettura», 31 marzo 2019. Sul fenomeno migratorio, cfr S. Allievi, Immigrazione. Cambiare tutto, Roma – Bari, Laterza, 2019; A. Morales, Non siamo rifugiati…, cit.; V. De Cesaris – E. Deodato, Il confine mediterraneo. L’ Europa di fronte agli sbarchi dei migranti, Roma, Carocci, 2018; A. Leogrande, La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2017.
[6]. S. Smith, Fuga in Europa…, cit., 19.
[7]. Cfr U. Ladurner, «La prossima frontiera», in Internazionale, 24 agosto 2018, 56.
[8]. Secondo recenti statistiche (ottobre 2019), nel 2019 in Italia sono arrivati 9.648 migranti. Nel 2018 erano stati 22.031 (e 111.401 nel 2017). Cfr F. Caccia, «Il Governo difende il patto con la Libia», in Corriere della Sera, 2 novembre 2019, 6.
[9]. Cfr www.lemius.it/migranti-2019
[10]. Il cosiddetto «stress ecologico» in certe parti del mondo generalmente è considerato come una circostanza aggravante che spinge le persone all’esodo.
[11]. S. Smith, Fuga in Europa…, cit., 84.
[12]. D. Frigeri – M. Zuppi (eds), Dall’ Africa all’Europa. La sfida politica delle migrazioni, Roma, Donzelli, 2018, 59.
[13]. J. Harding, Border Vigils. Keeping Migrants Out of the Rich World, London, Verso Books, 2012, 61.
[14]. Cfr G. Remuzzi, «+1% di migranti secondo la rivista “Lancet” equivale a +2% di ricchezza», in Corriere della Sera, «la Lettura», 13 gennaio 2019, 14.
[15]. Cfr ivi.
[16]. S. Smith, Fuga in Europa…, cit., 94.
[17]. M. Giro, Global Africa, la nuova realtà delle migrazioni: il volto di un continente in movimento, Milano, Guerini e Associati, 2019, 45.
[18]. Ivi.
[19]. Lagos, in Nigeria, con i suoi 23,5 milioni di abitanti, è la città più popolosa dell’Africa. La percentuale dei giovani che vivono in essa corrisponde al 60% della popolazione totale del Paese. Lagos è certamente la città che ha più giovani al mondo. Si prevede che nei prossimi 10 anni diventerà una delle principali megalopoli del Pianeta. La Nigeria è il Paese più popoloso dell’Africa (un africano su cinque è nigeriano), e Lagos è il centro commerciale dello Stato, il suo centro culturale, il modello a cui tutti aspirano e dove i sogni vivono e muoiono. «La Nigeria è per l’Africa – scrive una scrittrice nigeriana – quello che gli Stati Uniti sono per il continente americano: domina l’immaginario culturale, suscitando un misto di ammirazione, invidia, affetto, sfiducia. Il meglio della cultura contemporanea nigeriana è legata a Lagos» (Ch. Ngozi Adichie, «L’irresistibile Lagos», in Internazionale, 2 agosto 2019, 14).
[20]. A. Mbembe, «La rivoluzione della mobilità», ivi, 22 febbraio 2019, 46.
[21]. Ivi, 46; Id., «Non, les migrants africains ne rêvent pas d’Europe», in Courrier international, n. 1492, 6 giugno 2019.
[22]. M. Livi Bacci,«I migranti intraeuropei non sono abbastanza», in Limes, 19 marzo 2019.
[23]. Cfr M. Farina, «Africa, crescita della popolazione. “Raddoppierà in trent’anni”», in Corriere della Sera, 14 luglio 2017.
[24]. A. Mbembe, «La rivoluzione della mobilità», cit., 46.
[25]. Secondo Zuppi, sulla base dei dati disponibili delle Nazioni Unite, «in termini aggregati l’Africa rappresentava il 9% della popolazione mondiale nel 1950, poi il 13,3% (2000), ora il 16,6% (2017) e sarà il 25,5% (2050), fino ad arrivare al 39,1% nel 2100: cioè 4 persone su 10» (D. Frigeri – M. Zuppi [eds], Dall’Africa all’Europa…, cit., 35). Nel 2050, secondo lo studioso, il continente supererebbe i 2,5 miliardi di abitanti. Alla fine del secolo, secondo le statistiche Onu, l’Africa potrebbe diventare il continente più «presente nella top-12 [delle nazioni più popolose del pianeta]», con la maggioranza assoluta di ben sette Paesi presenti: Nigeria (che dovrebbe superare il miliardo di abitanti), Repubblica democratica del Congo, Tanzania, Etiopia, Uganda, Egitto, Niger.
[26]. M. Giro, Global Africa…, cit., 31. Cfr Id., La globalizzazione difficile. Ridisegnare la convivenza al tempo delle emozioni, Milano, Mondadori, 2018.
[27]. D. Frigeri – M. Zuppi (eds), Dall’Africa all’Europa…, cit., 35.
[28]. Ivi, 37.
[29]. Cfr G. Sale, «Il fenomeno dei migranti in Europa», in Civ. Catt. 2018 IV 352-365; G. Pani (ed.), Sulle onde delle migrazioni. Dalla paura all’incontro, Milano, Àncora, 2017; Migranti, Roma, La Civiltà Cattolica, 2019.
[30]. S. Smith, Fuga in Europa…, cit., 109.