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Diffusa dall’1 gennaio 2020, questa serie di 10 piccoli episodi, prodotta da Michael Petroni (1), è una grande scommessa e non è priva di qualità. Bisogna lodare il coraggio dei produttori e degli sceneggiatori nell’intraprendere un tale progetto: immaginare la venuta nel mondo di oggi di un uomo che potrebbe essere considerato da alcuni come un «messia», Al-Massih, un inviato di Dio. Nell’era di Internet, del telefono cellulare e della globalizzazione, come rendere conto della venuta di un uomo «straordinario»?
Gli autori hanno cautamente – e, bisogna riconoscerlo, abilmente – evitato qualsiasi confronto del loro personaggio – o dei suoi «sostenitori» – con le autorità religiose cattoliche o ebraiche. L’unica menzione della Chiesa, molto rapida, è destinata solo a far sorridere ed è a un tempo ridicola e inesatta. In seguito alle voci di un possibile «miracolo» compiuto dal personaggio chiave del racconto, una presentatrice televisiva annuncia casualmente che la Congregazione delle Cause dei Santi indagherà a questo proposito. Ciò è ridicolo, perché la Chiesa non aprirà mai un’indagine su un presunto «miracolo» compiuto da una persona che non è cattolica. Ed è inesatto, perché, nel caso ipotetico in cui si ritenga che il personaggio in questione sia cattolico, non sarebbe questa Congregazione, ma piuttosto la Congregazione per la Dottrina della Fede a intervenire (2). La serie non è dunque priva di difetti, ma invita a pensare. Non cerca solo di parlare di «religione» e di geopolitica, ma anche della «fede» nella sfera intima.
Non un’escatologia, ma una cristologia
Il punto è che, dogmaticamente, la cosa è abbastanza semplice. Infatti, se è vero che la Chiesa ha, con saggezza, insegnato poco sulla fine dei tempi e sulle sue modalità, tuttavia due elementi emergono chiaramente dalle Scritture: è proprio Gesù di Nazaret che tornerà, e non ci sarà alcuna ambiguità sulla sua identità; e poi verrà nella gloria, e non come al tempo della sua prima venuta: «Il Giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1040). Ora, è molto più alla sua prima venuta che fa pensare la sceneggiatura del Messiah. Abbiamo una persona sorta dal nulla – in questo caso da Damasco –, che alcune centinaia di palestinesi della Siria pensano che potrebbe essere, forse, l’uomo della fine dei tempi nel contesto di una certa escatologia musulmana. E lungo tutta la serie rimane il mistero sulla sua identità.
Se si trattasse della venuta nella gloria di Cristo, l’intera sceneggiatura del Messiah sarebbe chiaramente fuori tema. Si potrebbe aggiungere che le Scritture insistono nel dire che prima della fine arriveranno degli impostori che cercheranno di farsi credere Cristo: «Allora, se qualcuno vi dirà: “Ecco, il Cristo è qui”, oppure: “È là”, non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti» (Mt 24,23-24). Ma questo tempo di tumulti e di impostori non sarà la fine, anche se, paradossalmente, la proliferazione di anticristi e di falsi messia potrebbe essere vista da alcuni come il presagio di una fine «vicina». Questo è il motivo per cui gli evangelisti aggiungono saggiamente questo monito: «Ma non è ancora la fine» (Mc 13,7b; Lc 21,9b).
Qualunque sia lo scenario finale previsto – poiché ci sono varianti tra i diversi testi del Nuovo Testamento, per esempio tra la prima lettera ai Tessalonicesi e l’Apocalisse –, la fine arriverà all’improvviso, imprevedibile, perché solo Dio ne conosce il giorno e l’ora. Da questo punto di vista, a rigor di termini, l’unica figura del Nuovo Testamento che Al-Massih potrebbe incarnare sarebbe l’anticristo (Al-Masih ad-Dajjal per i musulmani).
Ma, una volta effettuate queste precisazioni teologiche, la serie non è priva di interesse. Può essere un’occasione per riflettere sul contesto della prima venuta del Messia. Potrebbe essere utile per riflessioni con adolescenti e giovani studenti. Perché? Perché ricrea un contesto umano di aspettativa che ricorda quello in cui Gesù apparve.
Una cristologia dell’intimo
La serie si fonda su un contenuto di geopolitica molto realistico, la cui base è il conflitto più scottante e mediatico: il conflitto israelo-palestinese. È lo sfondo permanente del racconto, anche quando sembra allontanarsene. E se vi è una dimensione «nazionale», ve ne è anche una «religiosa». I personaggi del mondo musulmano sciita, da una parte (Iran), o sunnita, dall’altra (Siria, Giordania, Cisgiordania), hanno un ruolo importante nella serie e non sono marionette. Si può notare che né Israele né gli Stati Uniti vengono presentati in una luce davvero lusinghiera, al contrario. D’altra parte, essendo questa una serie destinata principalmente al pubblico occidentale, occorre elogiare il fatto che l’ebraico e l’arabo siano parlati di frequente, specialmente all’inizio e alla fine, ed esprimano dialoghi reali.
Ma l’originalità degli sceneggiatori – che prende evidentemente alla sprovvista una parte degli spettatori – è anche quella di voler parlare di temi profondi, propri dell’umanità a tutte le latitudini: le coppie separate (Avi e Mika) o disunite (Felix e Anna), le difficoltà fra genitori e figli, con un’adolescente (Rebecca) o un padre molto anziano e, ovviamente, la questione della fede che unisce o separa. Questo genera sequenze molto riflessive, psicologiche, lente, in cui la trama propriamente detta non avanza realmente (effetto di frustrazione per alcuni!), ma dove aumenta la densità dei personaggi. La dimensione politica appare quindi quasi come un pretesto per parlare della questione della fede e del dubbio.
La serie testimonia così un encomiabile sforzo per parlare del senso della vita, della questione della fede sul piano metafisico, mostrando personaggi che hanno le diverse posizioni di ieri e di oggi: dall’ateismo convinto (Aviram) alla fede (Felix), passando attraverso il dubbio (Anna o Kelman). Da questo punto di vista, nihil novi sub sole. Vediamo un’umanità uguale a quella del tempo di Cristo, piena di contraddizioni e desideri, che aspira alla guarigione dei suoi malati (Staci), a un perdono inaccessibile (Avi): in breve, esseri umani che hanno sete di parole, vita, amore, speranza e senso. Non pedine, ma persone complesse e improvvisamente interessanti.
Questo è il motivo per cui, anche se gli episodi sono molto disuguali, anche se alcuni passaggi sono abbastanza lunghi, anche se il lato del carattere di Al-Massih un po’ melenso può infastidire (eufemismo!), i dialoghi simili a «confessioni» che egli ha con i vari attori principali, con Eva, Felix o Avi, sono eccellenti.
La trappola dell’identità
La domanda ritorna, assillante, lungo tutta la serie: «Ma chi diavolo sei tu?». Le diverse persone che egli incontra, o che cercano di vederlo, continuano a esigere una risposta. E riferendoci ai Vangeli, ricordiamo che Gesù si trovava costantemente di fronte alla stessa domanda. Il personaggio di Al-Massih non cerca in alcun modo di affermare un’identità messianica o di altro tipo: si riferisce continuamente alla coscienza di ognuno. In effetti, invita ad ascoltare la propria coscienza e a pregare, a chiedere dei segni a Dio. Il fatto che questo strano individuo abbia una vita morale irreprensibile è ovviamente importante. Egli rifiuta la manipolazione e di trarre profitto dall’attrazione e dall’adulazione dei suoi sostenitori.
Il suo insegnamento è molto limitato, e anche in questo gli sceneggiatori non avevano molta scelta. Infatti, o il loro eroe iniziava a parlare come Gesù, e allora la pretesa identitaria sarebbe stata evidente. Oppure, perché Gesù dovrebbe parlare come quando è venuto la prima volta? E se insegnasse diversamente, andrebbe contro l’idea che nessun altro insegnamento di Dio è necessario per la nostra salvezza, oltre ciò che è scritto nel Nuovo Testamento. E in nessun caso potrebbe essere credibile per i cristiani. Per cui la dimensione enigmatica del personaggio aumenta: chi è quest’uomo? Cosa pensa? Che cosa vuole? Dove va?
Ci sono dei leggeri cedimenti nella scrittura, ma l’atteggiamento di base dell’eroe è giusto: non si presenta come «il messia», ma ci invita a vedere e ad ascoltare; chiama ciascuno a discernere da sé la voce di Dio; è attento e compassionevole; è insensibile al denaro e al potere; suscita un sentimento che spinge a uscire da se stessi. La sua risposta fondamentale a domande insistenti sulla sua identità è semplicemente: «Sono chi sono; non pretendo niente, e soprattutto non pretendo di obbligare a credere che io sia questo o quello; tu che cosa dici?».
Questo sarebbe un buon esempio, in un corso di cristologia, sul perché di certi atteggiamenti di Gesù che si decentrano da lui e invitano a rivolgersi verso Dio, rifiutando le risposte facili. Mostra la grande ambiguità dei segni e dei «miracoli», perché la questione riguarda proprio il nostro modo di vedere, dal momento che anche al tempo di Gesù delle persone hanno «visto» e non hanno «creduto». Solo la conoscenza personale dell’uomo e del suo sguardo può far sì che un «segno» sia percepito.
La serie può essere un rimando alla delicatezza, piena di fermezza, di Gesù, della sua indiscutibile autorità personale e del suo immenso rispetto per i suoi interlocutori (senza escludere momenti di confronto vigoroso di fronte alla malafede o alla calunnia). La sceneggiatura mostra chiaramente il legame tra fede e speranza, tra autostima e dolcezza verso gli altri.
Alla luce delle osservazioni teologiche fatte all’inizio, Messiah apparentemente non può che finire «male» nella prossima stagione 2 (sarà girata?). Gli autori avrebbero una via d’uscita dalla loro impasse teologica (e forse di sceneggiatura), quella di fare del loro eroe una sorta di Giovanni Battista redivivo, un uomo semplice, che direbbe in sostanza: «No, non sono il Messia, non sono quello che aspettate, non sono Gesù, o Isaia o Elia; sono solo qualcuno che vi invita a rivolgervi a Dio, a convertirvi, a privilegiare la pace e la cooperazione tra gli uomini di buona volontà per il bene dell’umanità, per impedire al mondo di andare direttamente verso la perdizione, perché il tempo sta per scadere; mi sono messo in cammino solo per incitare tutti noi a ricordare gli insegnamenti e l’atteggiamento di Gesù».
Mostrandoci l’eterna attualità della sete di salvezza e di significato che abita ogni uomo, onorando la ricerca spirituale – a volte confusa, ma sempre commovente – di molti dei nostri contemporanei, criticando, implicitamente, un ateismo ottuso e favorendo il ripiegamento su se stessi, la stagione 1 del Messiah può aiutare ad avvicinarci al mistero che continua a essere la persona di Gesù di Nazaret. Tutto potrebbe andare storto nella stagione 2, ma la stagione 1 rimarrà e permetterà di aprire spunti di riflessione per gruppi di giovani e di meno giovani.
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“MESSIAH”. The Christology in a Netflix series
The Netflix series Messiah tries to imagine the coming into our contemporary world of a man that some consider “the Messiah.” However, from a Christian, and especially Catholic point of view, biblical and theological criteria are not sufficiently respected, to be truly talking about the return of Christ. On the other hand, the series is interesting for how it reflects the first coming of Christ, and the questions that were asked then about the identity of Jesus, and the role of miracles. Even more so, the series makes it possible to address the question of faith and doubt, the mystery and the meaning of life, thus offering the opportunity for possible exchanges with young people or non-believers.
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(1) Con Mehdi Dehbi, Tomer Sisley, Michelle Monaghan, John Ortiz, Melinda Page Hamilton, Stefania LaVie Owen, Jane Adams, Will Traval, Sayyid El Alami.
(2) Come fa giustamente notare Tom Reese: cfr “Netflix’s ‘Messiah’ is not my Jesus”, in Religion News Service, 19 febbraio 2020.