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Ago, tessuti, oggetti di recupero, fili che cuciono e ritessono tele di ieri e di oggi. L’artista Sidival Fila, nato nel 1962 nello Stato del Paraná in Brasile, frate minore francescano, ormai da molti anni ha fatto dell’avventura artistica la propria vocazione. Quando entriamo nel suo splendido studio a Roma, nel cuore del Palatino, nel convento francescano di San Bonaventura, che ha conservato intatto il suo sapore semplice e antico, restiamo colpiti dalle sue opere: tele di grandi dimensioni, piccoli quadri concepiti come miniature, colori cangianti accostati a neri antracite, a bianchi avorio, come a costituire una splendida e raffinata sinfonia cromatica, tutto sembra far affiorare un intenso senso di pace, di quiete. Le opere dell’artista si inseriscono negli spazi come se vi fossero presenti da sempre a testimoniare il corso della storia[1].
Può apparire strano che un religioso si dedichi oggi all’arte. In realtà, è sempre accaduto. Possiamo pensare solo ad alcuni grandi pittori come Beato Angelico (domenicano) o Andrea Pozzo (gesuita), per renderci conto che la dimensione di fede si è spesso incarnata in un’attività «estetica» orientata alla preghiera, alla contemplazione, alla celebrazione e al rito. Sidival Fila, già appassionato di arti plastiche dall’età dell’adolescenza, una volta giunto a San Paolo, s’interessa soprattutto all’arte europea dei primi del Novecento, presente nei musei cittadini. Trasferitosi nel 1985 in Italia, matura contemporaneamente una vocazione spirituale che lo porta a entrare nell’Ordine dei frati minori di san Francesco d’Assisi. Dedicandosi per un lungo tempo ad attività sociali, interrompe la ricerca artistica per molti anni, per poi riprenderla, misurandosi con tecniche nuove, riutilizzando materiali di scarto, dando sempre una grande attenzione alla potenza espressiva della materia, di cui occorre restituire la voce, far percepire la vita. Se il punto di partenza della ripresa sembra riferirsi alla pittura d’azione di Pollock, il recupero di antichi materiali fa invece pensare ad Alberto Burri, mentre la ricerca sui tessuti sembra piuttosto evocare i lavori di Maria Lai, Marisa Merz e Carol Rama. Di fatto, Fila testimonia come la superficie di un quadro non sia fatta necessariamente di tela e di colori, ma di diversi materiali, come fili, spago, tessuti.
La sua attività espositiva è davvero instancabile. Dal 2007, da quando Sidival ricomincia a operare nel campo artistico, il suo lavoro è presentato in numerosi spazi pubblici e privati, riscuotendo sempre un grande interesse e successo. Espone al Macro di Roma e al Madre di Napoli (2010); al Museo Bilotti di Roma (2015); al Centro della Sankt Peter Kunst-Station di Colonia (2017); alla Galleria San Fedele di Milano (2018), in dialogo con artisti come Lucio Fontana e Jannis Kounellis; al Palazzo ducale di Sassuolo (2018); alla Biennale di Venezia (2019); e poi a Trento, Parigi, Miami… La sua attività è sempre rivolta a cercare nuovi significati, a suscitare nuove esperienze, a porre continui interrogativi.
Filare, tessere… la vita
Il lavoro di Fila è apparentemente molto semplice. L’artista prende una tela, la piega, creando pieni e vuoti, la modella e la ridipinge. In seguito la ricuce minuziosamente, ricongiungendone i diversi punti, ricostruendone la tessitura. Già dagli anni Cinquanta del secolo scorso, artisti come Piero Manzoni ed Enrico Castellani hanno fatto ricorso alla piega, promuovendo un’idea plastica della superficie. Allo stesso modo Fila, sin dal 2007, introducendo la cucitura tra le pieghe, dà vita a un’opera dotata di introflessioni. Tuttavia, nel suo caso, la superficie non coinvolge solo il tessuto, ma i fili della cucitura, che costituiscono la trama di una nuova superficie che viene così a crearsi, costituendo un velo leggero, sottile, quasi trasparente: una sorta di tenda protettiva. In questo modo la spazialità si anima di luci e di ombre, che restituiscono nuova esistenza all’immagine. Il tessuto originario si mostra velato, come se lo si potesse solo intravedere.
Qual è il senso di questo lavoro di tessitura, compiuto da Fila come da un paziente amanuense, riprendendo tessuti, manipolandoli e ricreandoli? Non si tratta certo soltanto di un lavoro formale o concettuale o puramente estetico. Riprendere un materiale già utilizzato, consunto, è un gesto di pietas, in cui l’artista brasiliano raccoglie un materiale che ha già assolto alla funzione per cui è stato creato, un oggetto scartato, ormai giunto alla fine del suo viaggio. Ridipingerlo, piegarlo, ricucirlo, ricongiungerne le parti mancanti significa trasformarne il significato, immergendolo nella trasfigurazione della dimensione estetica. Attraverso i pigmenti, dai colori virginei, con l’uso di ago e filo, con la seta e la poliamide, Fila riscatta la materia, ridonandole vita e significato. Un tessuto, che ha un proprio carattere funzionale, ora è immesso nella sfera dell’arte. Quel tessuto, grazie al gesto dell’artista, si fa oggetto di contemplazione.
Certo, già Marcel Duchamp (1887-1968) ha compiuto questo gesto di «battesimo» agli inizi del Novecento, riprendendo oggetti d’uso corrente ed esibendoli come opere d’arte, dando così avvio all’arte oggettuale. In Fila, però, questa «ricreazione» non è un gesto compiuto dalla volontà dell’artista, ma nasce da un meticoloso lavoro di artigiano, da un calmo chinarsi sul tessuto, in un lento passare del tempo che è quello del filare, del tessere, del cucire e del ricucire. L’artista si prende cura della tela, riflette con attenzione alle sue possibilità nello spazio, al suo variare nella luce per potenziarne la carica espressiva. L’opera è trasformata grazie a una temporalità che, come quando si sgranano i rosari facendo scorrere tra le dita i grani della corona, è simile a quello della preghiera, della contemplazione.
Un tempo si ripete apparentemente sempre uguale, nell’operare con quell’ago e con quel filo infinite volte, per decine di metri. Tuttavia, come per magia o per gioco, questo gesto umile e paziente, semplice e intimo conduce alla creazione di un nuovo mondo. L’opera nasce da questo prendersi cura, da una preghiera che segue il lento ricucire delle diverse parti della tela, facendone scaturire la bellezza, l’armonia e la sacralità. Quel filo che ricompone, ricongiungendo e riconnettendo le diverse parti, diventa così quello della grazia che rimargina ferite, creando impensati equilibri, fondando nuove simmetrie e chiaroscuri, plasmando identità finora sconosciute. Questo filo dà vita a nuovi riflessi e a impensate vibrazioni, modula nuovi contrappunti. È il filo che ricuce ogni trama dell’esistenza, anche quella più consunta e rovinata, strappata o macchiata, affinché nulla vada perduto. In questo senso, l’operare artistico si fa gesto redentivo.
Questo filo non copre il tessuto, ma come un filtro leggero lascia che la tela sottostante respiri, dia origine a trasparenze sottili, si animi al cambiare della posizione dell’osservatore e al costante mutare della luce. Questo «velo» non gli si sovrappone, ma lo protegge, lo accudisce. Il nuovo universo ricreato da Fila diventa così metafora della vita, consegnata alla luce della grazia che ci accompagna. Il tempo della visione della tela diventa quello di una contemplazione festiva, in quanto ogni frammento della vita è riconsegnato al filo luminoso del mistero.
Arte e liturgia
Fila si confronta anche esplicitamente con la dimensione liturgica. È questo un tema particolarmente complesso, oggetto di riflessione soprattutto in questi ultimi decenni in cui ci si sta rendendo finalmente conto della drammatica inadeguatezza dell’arte sacra contemporanea. Tuttavia, per l’artista non si tratta di aggiornare nostalgiche e stanche iconografie. Nessuna rappresentazione oleografica o tristemente devozionale è presa in esame. A partire dal suo linguaggio artistico, Fila riflette su contenuti di senso che possano suggerire nuovi messaggi, annunciare profezie.
Almeno in un paio di occasioni, l’artista brasiliano riflette sulla relazione tra arte e fede. Così, al centro dell’area absidale della Sankt Peter Kunst-Station di Colonia – una chiesa neo-gotica dei gesuiti, spazio di sperimentazione di arte sacra – colloca una grande tela monocroma dal titolo Metafora Nero. Una struttura di fili tesi è poi collocata nella navata centrale. L’installazione crea connessioni tra i diversi spazi architettonici, e per il fedele non si tratta semplicemente di vedere le opere, ma di essere immerso in esse, come in una sorta di viaggio in cui tutto si ritrova connesso. I fili tesi collegano le diverse parti della chiesa, come un’esortazione all’uomo di oggi affinché viva le diverse dimensioni della vita in connessione.
Fila interviene ancora nella chiesa cinquecentesca di San Fedele di Milano, da anni luogo deputato all’accoglienza di opere di numerosi artisti contemporanei, come Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Claudio Parmiggiani, Nicola De Maria e David Simpson, invitati a creare un’opera liturgica in dialogo con gli spazi e con i capolavori del passato. Per la cripta della chiesa, dietro l’antico altare maggiore di epoca barocca, egli propone due lavori site-specific. Il primo è un dossale che fa da sfondo alla statua settecentesca di Cristo deposto dalla croce, collocata sotto la mensa d’altare. Come un telo sindonico quasi trasparente, fatto di fili sovrapposti, esso sembra trasfigurarne il corpo, dandogli luce, vita, come se fosse in attesa della risurrezione.
A questo lavoro, che sostituiva un recente dossale nero in legno dipinto, nella parte absidale Fila aggiunge un’interpretazione della Gerusalemme celeste, attraverso la realizzazione di un oggetto composto da un diafano parallelepipedo in ferro, avvolto da una molteplicità infinita di fili, da cui s’intravede al suo interno un altro oggetto geometrico di sei lati, in seta cucita. Arcano e segreto, quasi invisibile, esso si presenta come un altare, un tabernacolo, un’arca. Calati dall’alto, questi oggetti si manifestano come realtà ultraterrene, misteriose. Se la città dell’Apocalisse, meta finale del destino dell’uomo, segna il trionfo della luce che s’irradia dalla lampada dell’Agnello, tutto qui si fa evanescente, luminoso, impalpabile. I fili, che sembrano vibrare da luci fioche e leggere, suggeriscono una trama infinita di relazioni. Se la Gerusalemme celeste è la città della luce che scende dal cielo, qui tutto si fa connessione di luci, gioco di vibrazioni luminose. Ogni lotta appare conclusa, ogni conflitto sopito. Siamo negli spazi di una gloria intima e interiore. È la vittoria della luce!
Di fronte a tanta arte sacra che cerca la potenza dell’immagine nella riproposizione di stanche iconografie che sembrano sprofondare nel vuoto di un sacro privato di senso, Fila, con grande umiltà e discrezione, senza tradire la propria poetica, riesce a realizzare installazioni di grande potenza espressiva e di intensi significati per l’uomo contemporaneo così troppo frammentato e smarrito.
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SIDIVAL FILA. Art and faith: the same vocation
The artist Sidival Fila (1962), who was a Franciscan Friar Minor, has made an artistic adventure of his vocation for many years. In his work, everything seems to reveal an intense sense of peace and quiet. Fila, like a patient amanuensis, weaves, and does so by reusing waste materials that, thanks to his work, are thus placed into the sphere of art. The new universe he recreates becomes a metaphor for life, in which every fragment is returned to a luminous thread of mystery, which stitches and connects even the darkest and most contradictory dimensions.
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[1] Per approfondire l’opera di Fila, si veda E. Coletta, Sidival Fila, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2018.