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Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi studi sulla «genealogia» del pensiero di Jorge Mario Bergoglio. A questo riguardo un libro di Massimo Borghesi ha esercitato un forte influsso[1]. Lo sfondo implicito nel quale si colloca il pensiero di Bergoglio sembra ispirarsi soprattutto all’antropologia di Romano Guardini e all’interpretazione che il filosofo Gaston Fessard ha dato degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola. Oltre a sottolineare l’influenza avuta su di lui da p. Miguel Ángel Fiorito, Francesco ha confessato, quando era già Sommo Pontefice, di avere una particolare ammirazione per due gesuiti francesi: Henri de Lubac e Michel de Certeau[2].
Sembra, quindi, che la «fenomenologia ermeneutica» di Paul Ricœur, se così possiamo chiamarla, non faccia parte dell’elenco delle correnti teologiche e filosofiche del percorso intellettuale di Bergoglio. Tuttavia, la presenza nel suo magistero del pensiero di questo filosofo protestante è indiscutibile.
In questo senso, ci proponiamo di approfondire qui le tre esplicite citazioni di Paul Ricœur che compaiono nei documenti del magistero di papa Francesco. Quindi cercheremo di mostrare due aspetti, inscindibilmente connessi tra loro, del magistero della Chiesa contemporanea. Da un lato, osserviamo che i riferimenti all’opera di Ricœur appaiono in un momento in cui il Papa sembra voler valorizzare il ruolo delle mediazioni istituzionali in relazione alla pratica concreta, stabile e duratura della carità. Dall’altro lato, la filosofia di Ricœur viene utilizzata nel contesto dell’affermazione di un’identità non sclerotizzata, tanto della persona umana quanto della Chiesa stessa. Nella forma di «identità narrativa», la Chiesa assume un’identità che è al tempo stesso ereditata dal passato e ancora da creare nel tempo a venire.
Vicinanza personale e istituzioni giuste: due dimensioni della carità
Nell’ultima enciclica di papa Francesco, Fratelli tutti (FT), il riferimento a Ricœur compare per la prima volta nel n. 102. Affermando esplicitamente in una nota di essere stato «ispirato» da un testo di questo filosofo, il Papa discerne nella parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37) la critica a un mondo in cui non c’è spazio per lo sviluppo della vicinanza personale, senza la quale non ci può essere la vera carità cristiana.
Chiusi nel loro status sociale, il levita e il sacerdote non si avvicinano a colui che giace «mezzo morto» sulla strada. In questo modo preservano i diritti che la società ha loro concesso, a scapito della vicinanza personale all’individuo concreto che, pur essendo di diversa condizione sociale, vive lo stesso mondo e percorre la stessa strada. All’interno della narrazione parabolica di Gesù si rivela soprattutto una contrapposizione tra «il mondo del socius», cioè la «sociologia dei rapporti umani», da un lato, e la «teologia della carità», dall’altro.
Mentre la domanda del dottore della Legge: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29) è puramente sociologica, Gesù, attraverso la parabola del samaritano, racconta la storia di una vicinanza effettiva che si concretizza nel corso di un incontro. Mentre il dottore della Legge fa «una inchiesta sociologica su un certo oggetto sociale, su una categoria sociologica eventuale suscettibile di definizione, di osservazione e di spiegazione»[3], Gesù rivela l’esperienza soggettiva della vicinanza in prima persona. Così, invece di definire il prossimo come un terzo, esterno alla vita concreta e alla vicinanza delle relazioni dell’«io» che si interroga, il samaritano cambia la direzione del cammino che aveva precedentemente programmato, per seguire la chiamata di un «tu».
Nel caso specifico, la parabola del Vangelo sembra escludere qualsiasi «sociologia del prossimo», perché si riferisce «al modo personale in cui incontro l’altro, al di là di ogni mediazione sociale; nel senso, infine, che il significato di questo incontro non deriva da nessun criterio immanente alla storia»[4]. Del resto, Ricœur sottolinea che il criterio escatologico della salvezza, esplicitamente richiesto dal Vangelo, consiste nella pratica concreta della carità. Riferendosi alle opere di misericordia presentate nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo, egli mostra il significato e gli eventi «nascosti» di coloro che sono i «piccoli» personaggi della storia umana. Nonostante la loro pochezza, vulnerabilità o fragilità, secondo Gesù sono questi piccoli che saranno in grado di dare una risposta soddisfacente alla domanda: «Signore, quando ti abbiamo visto avere fame e sete?»[5].
Grazie alla riflessione di Ricœur, questo brano entra in risonanza con la dichiarazione fatta dal Papa in occasione della proclamazione del Giubileo Straordinario della Misericordia: «Non possiamo sfuggire alle parole del Signore, e in base ad esse saremo giudicati: se avremo dato da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete. Se avremo accolto il forestiero e vestito chi è nudo. Se avremo avuto tempo per stare con chi è malato e prigioniero»[6].
Il rapporto tra i consigli evangelici di Matteo e la parabola del buon samaritano di Luca appare sia nel testo di Ricœur sia nell’ultima enciclica sociale di Francesco. Dato che si tratta di «riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso»[7], la prossimità immediata della carità, ossia del rapporto effettivo con gli altri, precede e supera ogni sociologia o solidarietà politica.
La lunga strada delle mediazioni sociali
Nonostante tutto, lo scopo del testo di Ricœur ripreso dal Papa è di mostrare quanto «l’opposizione del prossimo al socius sia […] solo una delle possibilità, la più spettacolare e la più drammatica, ma non la più significativa, della dialettica storica della carità»[8]. In questo senso, è importante capire come il filosofo francese cerchi una posizione intermedia tra due estremi. Da un lato, egli rifiuta «l’atteggiamento radicalmente antimoderno» di un certo cristianesimo profetico, le cui «piccole comunità non tecniche» si collocherebbero «ai margini della storia», affermando una radicale opposizione al «mondo del socius», perché in definitiva «occorre scegliere tra il prossimo e il socius»[9]. Dall’altro lato, egli rifiuta anche l’estremo opposto della critica di stampo più marxista, secondo la quale «la categoria del prossimo» non è né funzionale né ragionevole. Classificata come «obsoleta», la categoria del prossimo, così come quella della compassione, non aiuterebbe in alcun modo lo sviluppo della storia verso un quadro istituzionale dove la carità non sarà più necessaria, in quanto la miseria e la povertà saranno scomparse[10].
Secondo Ricœur, questi due atteggiamenti concordano nell’opporre, in un dualismo radicale, il «mondo del socius» e la «teologia della carità». Si tratta, in altre parole, di contrapporre istituzioni sempre più complesse e astratte, con regole proprie, formali e razionali, alla prossimità personale richiesta dalla carità concreta.
In quanto credente impegnato in un cristianesimo sociale[11], Ricœur ritiene che il «rapporto di mediazione» delle istituzioni non si opponga alla pratica concreta della carità. Piuttosto che contrastarla, queste mediazioni sociali o istituzionali rafforzano la sostenibilità dell’azione caritatevole. Non c’è quindi contrapposizione tra il socius e il prossimo, in quanto essi corrispondono alle «due dimensioni della stessa carità»[12]. Affinché «la teologia del prossimo» possa assumere tutta la sua vastità, è necessario integrare «la diversità delle nostre relazioni con gli altri» in un quadro più ampio di quello della sola relazione immediata[13]. Così facendo, «la lunga via dell’istituzione» emerge all’orizzonte del pensiero, ed è la carità che le dà «senso». Per quanto l’evento dell’incontro sia fugace e fragile, la carità si concretizza in modo duraturo e coerente, facendo leva su istituzioni giuste nei loro princìpi e nelle loro solide strutture.
Viceversa, la compassione e la carità devono essere sempre tenute presenti da tutti coloro che operano in queste istituzioni, in quanto i princìpi razionali e astratti della giustizia, «a livello di riflessione», sono vuoti quando sono privati dell’efficacia del concreto rapporto con gli altri[14]. Per questo Ricœur ritiene che «in effetti, molto spesso, la via lunga dell’istituzione sia il normale percorso dell’amicizia»[15].
Accade lo stesso per papa Francesco, quando associa intrinsecamente la «fraternità universale» all’«amicizia sociale»[16]. Senza dubbio egli fa propria la posizione equilibrata di Ricœur. Nell’enciclica Fratelli tutti, afferma che «la carità riunisce entrambe le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale – dal momento che implica un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli apporti professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e così via. Perché [come afferma Ricœur] “non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza politica”»[17].
Acquista così un senso l’ermeneutica della parabola del buon samaritano che il Papa sviluppa, avvalorando la posizione di Ricœur. Si tratta del rilievo che Francesco attribuisce all’«albergatore» come figura indispensabile nella pratica della carità. Il samaritano, infatti, non soltanto entra immediatamente in relazione con l’uomo «mezzo morto», ma entra anche in relazione con l’albergatore, utilizzando le sue risorse a beneficio di chi si trova in una situazione di bisogno. «Anche il buon samaritano – afferma il Papa – ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizione di assicurare. L’amore al prossimo è realista e non disperde niente che sia necessario per una trasformazione della storia orientata a beneficio degli ultimi»[18].
Questa affermazione richiama chiaramente un elemento essenziale del pensiero di Ricœur, cioè che l’etica, intesa come «scopo della “vita buona”», precede la morale, vale a dire il sistema di norme da osservare. In questo senso, il magistero di papa Francesco concorda pienamente con l’affermazione del «fine etico», su cui il filosofo francese insiste più volte nel corso della sua opera: «vivere una “vita buona” con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste»[19].
Inoltre, mentre Ricœur afferma – a partire dal legame inscindibile tra il percorso breve o immediato e quello lungo o mediato – la possibilità di «giustificare», di «modificare» o di «criticare un’istituzione», papa Francesco considera necessaria, in funzione dello stesso legame, «una riforma “sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni”»[20].
L’identità narrativa della Chiesa
Apparso in Histoire et Vérité, il testo «Le “socius” et le prochain» esprime, seppur implicitamente, uno dei concetti principali dell’opera di Ricœur: quello di «identità narrativa». Infatti, nella misura in cui, nel Vangelo di Luca, Gesù risponde alla domanda del dottore della Legge con la parabola del buon samaritano, ci muoviamo «a livello della narrazione». La parabola ribalta la domanda che era stata posta. Invece di una definizione oggettiva, statica e sociologica del prossimo, questo viene presentato nella «struttura della narrazione». Invece di sapere a priori chi è il mio prossimo, si tratta di comportarsi come il prossimo degli altri, man mano che si svolge la narrazione della nostra vita. Secondo l’espressione lapidaria di Ricœur: «Non esiste un prossimo; io divento il prossimo di qualcuno»[21]. Inoltre, in relazione all’invito che Gesù rivolge al dottore della Legge alla fine del racconto – «Va’, e fa’ anche tu lo stesso» (Lc 10,37) –, il filosofo nota una tensione tra l’evento raccontato nel presente e il futuro che è ancora da costruire.
Considerando che Histoire et Verité ha ricevuto il premio Hegel nel 1985[22], non dobbiamo perdere di vista il «senso della storia» che Ricœur ha presente nel suo testo. In altre parole, nel quadro narrativo dei Vangeli, non sono i «grandi uomini», ma i «piccoli» – ignorati, come individui, dalle analisi sociologiche – che sono in grado di dispiegare il «significato» e la «storia»[23]. Ora, se «il senso di compassione nel presente è permeato da un senso escatologico che lo supera», ci troviamo di fronte non soltanto a una «parabola», ma anche a una «profezia»[24].
L’identità del samaritano subisce quindi una metamorfosi nel corso della narrazione. Senza confondersi con l’identità sostanziale e fissista delle cose, questo personaggio si fa prossimo di un estraneo. In questo modo assume un’identità temporale in cui il soggetto, in quanto personaggio di una narrazione, si trasforma senza mai cessare di essere se stesso in ogni circostanza. Si tratta di essere se stessi senza rimanere per sempre gli stessi nel corso della narrazione della propria vita.
Un’identità che non fa a meno dell’alterità
Questa identità narrativa si collega poi con un altro concetto di Ricœur – quello dell’«uomo capace» –, che viene utilizzato anche da papa Francesco nel suo magistero. Come ha affermato il teologo Philippe Bordeyne, l’obiettivo della progressiva formazione dell’«habitus del bene» in Amoris laetitia nasce dal legame tra l’attuale pontificato e la filosofia di Ricœur[25]. Del resto, se nel filosofo francese la persona umana «scopre la sua vocazione nel rapporto con l’altro»[26], l’attuale Pontefice non si limita soltanto ad applicare questo principio nei gesti e nelle parole. Inoltre, nell’enciclica Laudato si’, Francesco cita direttamente Ricœur, quando afferma che «l’essere umano impara a riconoscere se stesso in relazione alle altre creature: [come dice Ricœur] “Io mi esprimo esprimendo il mondo; io esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo”»[27].
Citando il secondo volume della Philosophie de la volonté: Finitude et culpabilité, il Papa fa riferimento a un passo in cui Ricœur smantella la demitizzazione nelle sue spiegazioni cosiddette «moderne e scientifiche» del mondo e della persona umana. Secondo il filosofo francese, il «diventare se stessi» non si oppone alla «funzione cosmica dei simboli. […] Cosmo e Psiche sono i due poli della stessa “espressività”; io mi esprimo esprimendo il mondo; esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo»[28].
Così, oltre all’identità temporale, quella della persona umana non si instaura indipendentemente da ogni alterità. E Francesco sottolinea proprio tale identità, che si stabilisce in funzione del rapporto con gli altri. Come per Ricœur, il «diventare se stessi» si realizza in relazione alle altre persone e considerando tutte le creature come intrinsecamente legate al proprio essere.
In Fratelli tutti, l’obiettivo di una «fraternità universale» non si basa soltanto sulla paternità divina. Oltre a questo fondamento, radicato nella relazione verticale tra Dio e l’umanità, si deve anche riconoscere che, a livello orizzontale, l’identità propria di ogni persona umana si connette in modo inscindibile con l’alterità degli altri.
Se Ricœur si rende conto «che l’alterità non si aggiunge dall’esterno all’individualità […], ma appartiene alla struttura del significato e alla costituzione ontologica dell’identità»[29], il Papa fa risuonare questa filosofia del «sé come un altro», quando dichiara: «In realtà, una sana apertura non si pone mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di diversa provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione, bensì integra le novità secondo modalità proprie»[30].
Lo stesso accade per la «nozione di popolo», che Francesco riprende in Fratelli tutti. L’idea secondo cui «essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali»[31] si ricollega al concetto di Ricœur di «comunità storica», all’interno della quale l’individuo diventa cittadino. Realizzando le sue «potenzialità umane» attraverso la mediazione di questa «comunità storica: popolo, nazione, regione, classe ecc.», l’individuo diventa se stesso senza mai staccarsi dal legame che lo unisce alla comunità a cui appartiene e che promuove il rapporto con gli altri[32].
Un’identità ospitale
Inoltre, papa Francesco mette in gioco anche la nozione di «ospitalità linguistica» che, Ricœur utilizza nella sua analisi del fenomeno della traduzione. In effetti, un altro riferimento al filosofo protestante nel magistero di Francesco lo troviamo nella Lettera apostolica Scripturae Sacrae Affectus, pubblicata il 30 settembre 2020, in occasione del XVI centenario della morte di san Girolamo. Parlando di «traduzione come inculturazione», il Papa afferma: «È stato ricordato, a ragione, che è possibile stabilire un’analogia fra la traduzione, in quanto atto di ospitalità linguistica, e altre forme di accoglienza»[33]. Citando esplicitamente, nella nota 48, l’opera di Ricœur Sur la traduction, pubblicata dall’editore Bayard nel 2004 – un anno prima della scomparsa del filosofo –, Francesco interpreta l’atto del tradurre come un paradigma di ospitalità che può essere vissuto e approfondito dalla Chiesa del futuro. L’atto del tradurre un testo, trasponendolo in una lingua diversa da quella in cui è stato concepito, implica una «ospitalità linguistica». In questo modo, così come la traduzione fa parte di un processo in cui il discorso umano ricostruisce un’unità plurale, il dialogo fraterno auspicato dal Papa nelle relazioni ecumeniche e interreligiose apre la strada a un’etica dell’accoglienza.
I gesti e le parole profetiche di papa Francesco diventano più comprensibili alla luce di questa prospettiva ricœuriana. In particolare, il Documento sulla Fraternità umana per la pace mondiale e la convivenza comune – firmato insieme al Grande imam Ahmad al-Tayyeb – va letto in base a questa identità narrativa e dell’etica dell’ospitalità. Se «non si è trattato di un mero atto diplomatico, bensì di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto»[34], l’appello al dialogo e alla collaborazione a favore del bene comune nasce soprattutto e prima di tutto dal fatto biblico dell’incontro tra culture diverse che raggiungono una comunione. E allora, se il Papa si ispira non soltanto a san Francesco d’Assisi e a Charles de Foucauld, ma anche, seppure a un altro livello, a personaggi come Martin Luther King, Desmond Tutu e il Mahatma Gandhi, questo fatto rientra nel quadro di una narrazione che si traduce in altre culture, integrandole nella propria narrazione.
In fondo, si tratta del gesto del samaritano in cammino. Notiamo, a tale proposito, quanto l’esistenzialismo e il personalismo cristiani ritornino più esplicitamente nel pontificato di Francesco. Lo dimostra il riferimento a Gabriel Marcel, una delle figure più importanti nello sviluppo del pensiero ricœuriano, al n. 87 di Fratelli tutti: «Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza “se non attraverso un dono sincero di sé”. E ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non nell’incontro con gli altri: [come dice Gabriel Marcel] “Non comunico effettivamente con me stesso se non nella misura in cui comunico con l’altro”. Questo spiega perché nessuno può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare»[35].
Queste correnti umanistiche, esistenzialiste e personaliste, che hanno influenzato profondamente la lettera e lo spirito del Concilio Vaticano II, partono dall’inviolabile dignità della persona umana, immagine di Dio in ogni circostanza. Ciò alimenta la ricerca del «raggio di verità che illumina tutti gli uomini», compresi quelli che professano un altro credo religioso.
Conclusione
Che si tratti della lavanda dei piedi di una donna musulmana il Giovedì Santo, dell’accordo con l’imam al-Tayyeb per la fratellanza umana, o della contestazione di populismi e nazionalismi esclusivisti, tutto questo lo si comprende all’interno di un’identità narrativa che la Chiesa cerca di costruire, facendo affidamento sulla grazia divina e nella fedeltà al racconto evangelico.
A tale proposito, notiamo come il Papa cerchi di trasmetterci il ricordo del dramma delle guerre mondiali del passato, la cui importanza può essere trascurata o addirittura dimenticata dalle giovani generazioni. In un’intervista a La Stampa egli ha affermato: «Il sovranismo è un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. Prima noi. Noi… noi: sono pensieri che fanno paura»[36].
Quanto a Ricœur, che appartiene a «quella generazione» che stava per scomparire quando egli ebbe una conversazione con François Azouvi e Marc de Launay, cioè a quella generazione che è stata «l’ultima ad aver assistito agli orrori compiuti tra il 1933 e il 1945», notiamo l’importanza da lui attribuita alla «memoria collettiva» di quegli eventi[37]. E mentre il filosofo francese condanna il nazionalismo «pseudo-universale» del fascismo[38], Francesco fa appello alla «fraternità universale», dove la narrazione cristiana può prendere forma e diventare sempre più la nostra vita.
Dobbiamo allora notare quanto la «cultura dell’incontro», di cui parla spesso papa Francesco, sia vicina al pensiero di Ricœur. Essa infatti promuove un «riconoscimento reciproco», capace di superare la logica secondo la quale occorre trovare una parte perdente a vantaggio di un unico vincitore. Così, nella misura in cui la missione della Chiesa si realizza man mano che si porta avanti la narrazione della storia raccontata da Gesù, i riferimenti espliciti a Ricœur nel corpus del magistero dell’attuale pontificato assumono il loro significato all’interno di un’identità che non è indipendente dall’alterità. L’identità della Chiesa non è quindi un dato piovuto dall’alto: piuttosto, è un processo che funziona come una narrazione in cui Dio apre strade per noi che ci troviamo in essa come personaggi passivi e attivi. Lo testimonia il principio formulato da Francesco, secondo il quale «il tempo è più grande dello spazio»[39].
Al di là della rigidità delle ideologie che intendono fissarci e integrarci nel presente, e al di là delle utopie che si contrappongono alla cristallizzazione ideologica, la categoria – di carattere religioso – della «promessa» ci spinge verso il futuro, impegnandoci nell’azione caritativa richiesta nel presente in cui viviamo. Questo impegno di amore vissuto, che possiamo esprimere qui e ora verso tutte le creature, figlie dello stesso Padre che è nei cieli, è alimentato da questa promessa del futuro che ci attende, di piena comunione con Dio e con tutta l’umanità, in armonia con il creato.
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PAUL RICŒUR IN THE MAGISTERIUM OF POPE FRANCIS
Although the philosopher Paul Ricœur does not seem to have been one of the authors who shaped Pope Francis’ thinking, Pope Francis mentions him in some key documents of his magisterium. In this sense, we can see how Francis uses Ricœur’s philosophy in order to show the importance of mediations for the practice of charity and to indicate that the identity of the Church can be understood as a “narrative identity.” In this way, the Church is able to free itself from ideologies and follow the Spirit that animates it.
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[1]. Cfr M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Milano, Jaca Book, 2017.
[2]. Cfr A. Spadaro, «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449-477.
[3]. Cfr P. Ricœur, «Le “socius” et le prochain», in Id., Histoire et Vérité, Paris, Seuil, 1955, 214 (in it. «Il “socius” e il prossimo», in Storia e verità, Milano, Mondadori, 1994).
[4]. Ivi, 217.
[5]. Cfr ivi.
[6]. Francesco, Misericordiae Vultus. Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia (Roma, 11 aprile 2015), n. 15.
[7]. FT 85.
[8] . P. Ricœur, «Le “socius” et le prochain», cit., 224.
[9] . Ivi, 219.
[10]. Cfr ivi, 219 s.
[11]. Cfr F. Dosse, Paul Ricœur. Les sens d’une vie (1913-2005), Paris, La Découverte, 2001, 170-175; 289-299.
[12]. P. Ricœur, «Le “socius” et le prochain», cit., 220.
[13]. Cfr ivi, 221.
[14]. Cfr ivi, 223 s.
[15]. Ivi, 223.
[16]. Cfr FT 142.
[17]. FT 164.
[18]. FT 165.
[19]. P. Ricœur, Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990, 20 (in it. Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 2020).
[20]. FT 173.
[21]. P. Ricœur, «Le “socius” et le prochain», cit., 214.
[22]. Cfr F. Dosse, Paul Ricœur…, cit., 565.
[23]. Cfr P. Ricœur, «Le “socius” et le prochain», cit., 216 s.
[24]. Cfr ivi, 217.
[25]. Ph. Bordeyne, «Une philosophie de l’homme capable: le Pape François et Paul Ricœur», in E. Falque – L. Solignac (edd.), François philosophe, Paris, Salvator, 2017, 29.
[26]. Ivi, 17.
[27]. Francesco, Enciclica Laudato si’, n. 85.
[28]. P. Ricœur, Philosophie de la volonté: Finitude et culpabilité. II. La symbolique du mal, Paris, Montaigne, 1960, 20 (in it. Finitudine e colpa, Bologna, il Mulino, 1970).
[29]. P. Ricœur, Soi-même comme un autre, cit., 367.
[30]. FT 148.
[31]. FT 158.
[32]. Cfr P. Ricœur, «Qui est le sujet du droit?», in Id., Le juste, Paris, Éditions Esprit, 1995, 37 (in it. Il Giusto, Cantalupa [To], Effatà, 2005).
[33]. Francesco, Lettera apostolica Scripturae Sacrae Affectus, nel XVI centenario della morte di San Girolamo, 30 settembre 2020.
[34]. FT 5.
[35]. FT 87.
[36]. D. Agasso Jr., «Papa Francesco: “Il sovranismo mi spaventa, porta alle guerre”», in La Stampa, 9 agosto 2019.
[37]. Cfr P. Ricœur, La critique et la conviction. Entretien avec François Azouvi et Marc de Launay, Paris, Calmann – Lévy, 1995, 188.
[38]. Cfr Id., «Emmanuel Mounier: une philosophie personnaliste», in Id., Histoire et Vérité, cit., 111
[39]. Cfr Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium (24 novembre 2013), nn. 222-225.