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Questo studio prende in considerazione l’aiuto internazionale, ovvero le forme istituzionalizzate con cui si migliorano le condizioni delle persone. Esamina i sistemi di beneficenza dal punto di vista del potere politico, partendo dal concetto che l’aiuto internazionale è nato storicamente, nello spirito delle relazioni internazionali, insieme alla comparsa dell’idea di cosa pubblica e di servizio pubblico. In questo senso, quindi, esso è un elemento della politica, il cui ambito originario è sorto dall’interazione tra le nazioni e tuttora si manifesta in modo significativo tra gli Stati e le formazioni politiche.
Ma fino a che punto la forza politica fa rientrare questo elemento nell’orizzonte dei propri scopi? Quella dell’aiuto può essere una «istituzione» politica che non segue la logica del potere? Possiamo parlare di altruismo, di rapporti disinteressati all’interno di una sovrastruttura che trae forza e costruisce sul dominio? Può esistere un aiuto disinteressato che lasci da parte la forza, che non ponga condizioni politico-economiche? In altre parole, è mai possibile «dare» senza «chiedere» qualcosa in cambio?
Abbiamo scelto di affrontare questo argomento supponendo che la forza della parte che aiuta – cioè il donatore – e la sua posizione di potere che si manifesta nei confronti della parte che viene sostenuta – il beneficiario – siano forse la caratteristica più significativa delle relazioni di aiuto, un elemento chiave della proficua cooperazione tra le due parti.
Pensieri introduttivi sul potere
La classica filosofia della natura ci aiuta a riconoscere, a mo’ di premessa, che le cose hanno una certa qualità, una natura (physis) per cui sono state progettate e che le caratterizza al meglio. Se, applicando sinteticamente questo concetto agli affari di Stato, è nella natura della «politica» (e dei politici) sforzarsi di avere potere, di prendere decisioni, di prevalere sugli avversari, quale può essere allora la natura degli aiuti internazionali, nati all’interno della sovrastruttura politica? Prima però di parlare dei rapporti di potere che si generano nella dinamica dell’aiuto, ci pare opportuno riandare rapidamente alle fonti, ossia al modo in cui sono venuti alla luce il potere degli esponenti politici e i suoi meccanismi decisionali. Su queste basi ci sarà poi possibile delineare la storia della formazione del regime di aiuto.
Quella di chi sia il nemico, e con quale forza sia in grado di nuocere, è una questione chiave che attiene al funzionamento di quei sistemi che sono costituiti da soggetti che hanno un’identità organizzata (regni, nazioni, Stati): comunità, cioè, che tutelano la propria autonomia politica e legale. Potremmo anche esprimere in questo modo tale concetto: chi ha il potere? Chi è che guida, che dirige, chi ha il diritto e la facoltà di decidere, e chi potrebbe eventualmente insidiarli? In ogni epoca il rapporto tra le nazioni, tra i regni e poi tra gli Stati è stato determinato dalla forza, dalla capacità di perseguire i propri interessi. Prima che si affermasse l’idea moderna di Stato – cioè a partire dalle civiltà antiche fino al XVIII secolo – il sovrano e la dinastia regnante erano padroni del loro territorio e non ritenevano di avere alcun obbligo nei confronti dei propri sudditi. Come fa notare Pál Engel[1], quei sistemi politici erano sottoposti alla libera scelta del sovrano e mai sono stati sfiorati dall’idea di servire il bene comune.
Fanno eccezione le antiche comunità civili ateniesi e romane, all’interno delle quali si configurava una responsabilità reciproca, che tuttavia era piuttosto ristretta e circoscritta all’ambito territoriale e a quanti ne traevano beneficio, perché le «opportunità» della democrazia ateniese si applicavano solo ai cittadini della polis e le posizioni di comando erano riservate all’élite.
D’altra parte, è importante evidenziarne l’esistenza per quello che qui ci interessa, perché è in quel momento che fece la sua comparsa l’istituzione della res publica, cioè della «cosa pubblica». Pertanto possiamo affermare che lo sforzo per raggiungere o mantenere il potere (e obbedirvi) ha permeato il pensiero politico di tutti i tempi, ed è qui che trovano fondamento le relazioni internazionali. Così scriveva Tucidide a proposito del «principio di Stato» usato dagli Ateniesi nella guerra del Peloponneso: «Nelle considerazioni umane il diritto è riconosciuto in seguito a una uguale necessità per le due parti, mentre chi è più forte fa quello che può, e chi è più debole cede»[2]. Anche nei discorsi di Demostene, politico ateniese, il dilemma dell’ingiustizia, causato dallo squilibrio di potere esistente tra il forte e il debole, acquistò un particolare rilievo: «I diritti sono spesso determinati dal comportamento dei forti nei confronti dei deboli»; «Le leggi non hanno la necessaria considerazione per la situazione disuguale creatasi tra i deboli e i forti»; «Gli Stati possono acquisire forza e potere nella misura delle loro forze». Demostene espresse questi concetti nella sua orazione Per i Megalopolitani (353 a.C.).
Tuttavia, nella pratica dell’antica diplomazia greca e romana l’idea della convivenza pacifica si manifestò in varie forme. Nel sistema delle relazioni estere e dei contatti ufficiali acquistarono un significato speciale il rispetto e l’apprezzamento dell’altra parte, come pure la disponibilità ad aiutarla, se necessario. Sebbene la cooperazione economica, politica e difensiva – soprattutto in conseguenza del conflitto greco-persiano – fosse sempre considerata un argomento di particolare importanza, nelle relazioni bilaterali primeggiavano anche i temi relativi alle alleanze, alle amicizie e ai reciproci favori. Fu in quel momento che nacque l’archetipo della diplomazia che tuttora adottiamo e che si sviluppò ulteriormente nel periodo dell’Impero Romano d’Oriente (con la diplomazia bizantina).
A quell’epoca fu sancito il principio della necessità di una cooperazione priva di secondi fini, per garantire che le relazioni intrecciate nel bacino del Mediterraneo, nel Nord Africa e nel Vicino Oriente (Asia Minore), ossia su un territorio ampio e molto diversificato, potessero essere stabilite e mantenute. Tuttavia questa politica che, oltre al riconoscimento dell’altra nazione come amica, conteneva anche elementi di servizio pubblico, scomparve quasi del tutto in seguito, per riapparire soltanto dopo il XVII secolo. In sostanza, i regni istituiti nell’Alto Medioevo erano organizzati secondo il principio del regnum, ossia del Paese sotto il dominio del rex (il re). In questo sistema il regnum costituiva il possesso del re, il quale poteva non agire per il bene comune, ma deteneva in ogni caso il potere su quel determinato territorio senza obbligo alcuno verso gli abitanti.
I secoli XVII e XVIII – in particolare la pace di Westfalia del 1648 – possono essere considerati una pietra miliare nella storia dell’istituzione statale: fu in quel periodo che nacque lo Stato attuale o, per essere più precisi, il concetto di Stato che più o meno continuiamo a usare oggi (in lingua ungherese la parola che significa Stato è nata solo nell’era del «rinnovamento linguistico», come ungarizzazione dello status latino e dello Staat tedesco).
Sebbene in Europa esistessero ancora monarchie assolute, questa nuova nozione era fondamentalmente diversa dalle basi su cui si erano rette le istituzioni delle epoche precedenti: il sovrano doveva servire il bene del suo Paese e agire nei suoi interessi pubblici. Questo principio raggiunse il suo apice durante l’Illuminismo francese: i cittadini dello Stato sono uguali; quindi lo Stato ha il compito di porsi al loro servizio (nell’interesse del bene comune). Le formazioni «di tipo imperiale» vennero sostituite da sistemi di Stati-nazione senza un governante comune.
Joseph S. Nye, politologo americano, al quale dobbiamo il concetto di hard power e soft power, spiega: «Nella politica internazionale nessuno ha il monopolio dell’uso della forza, […] è il regno dell’auto-aiuto»[3]. Durante l’Illuminismo venne promossa l’istituzione di sistemi basati sulla cooperazione e sull’accordo. È questo il contesto in cui il sistema degli Stati fu ricostruito nel quadro di un nuovo «contratto sociale» (Hobbes, Locke, Rousseau).
Così, nel XIX secolo si delinearono due percorsi nettamente distinti l’uno dall’altro: da un lato, la scuola del realismo politico, secondo la quale il grande e provvido Stato protegge i suoi cittadini con una forza militare e un potenziale difensivo significativi e indipendenti; dall’altro, la scuola liberale, che crede piuttosto nella società globale e nel ruolo di raccordo delle organizzazioni internazionali.
Tra gli Stati che hanno cercato di percorrere una propria strada, possiamo menzionare il Giappone. Inizialmente, negli anni Trenta del XX secolo la sua politica estera mirava all’occupazione territoriale; poi, dopo i colpi subiti durante la Seconda guerra mondiale, quello Stato-nazione insulare è divenuto una delle principali potenze commerciali, prive di una forza militare. È stato Keizo Obuchi, quando era primo ministro giapponese, a toccare il culmine di questa «conversione», quando, alla fine degli anni Novanta, in una conferenza sul futuro dell’Asia, affermò: «Sono profondamente convinto che gli esseri umani dovrebbero poter condurre le loro vite nella creatività, senza che la loro sopravvivenza venga minacciata e senza che la loro dignità venga compromessa»[4].
Tuttavia il potere è rimasto la condizione fondamentale per poter decidere e per rispettare quanto si è deciso; è l’obiettivo di colui che si impegna in politica, che, dopo averlo conquistato, dovrà anche essere capace di mantenerlo di fronte agli altri. Secondo la definizione classica di Max Weber, «il potere […] è la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto»[5]. Quindi, per il sociologo tedesco il potere è uno strumento – o, come spesso egli diceva, una opportunità – con cui possiamo imporre la nostra volontà anche di fronte alla resistenza altrui.
Tutto ciò ha condotto la politica internazionale ad attribuire un’importanza sempre maggiore a questioni morali come la responsabilità per gli altri, la democrazia globale, il cosmopolitismo. Gli anni Sessanta hanno visto salire alla ribalta organizzazioni internazionali, istituite nello spirito della responsabilità reciproca (come il Fmi, l’Ocse e la Banca mondiale), nonché per favorire le relazioni fra gli Stati.
L’età dell’amore sociale?
Per «aiuto internazionale» intendiamo quelle relazioni di cooperazione per mezzo delle quali enti statali ufficiali – ma talvolta anche organizzazioni non governative (religiose o civili) – forniscono a un altro Paese, a rappresentanti della società o di istituzioni religiose risorse, denaro, materiale, aiuti, supporto professionale o tecnologico, al fine di potenziarne le capacità. Questa cooperazione può svolgersi in un cosiddetto «aiuto umanitario immediato», fornito durante una catastrofe umana o naturale, o in un sostegno per il consolidamento e la ripresa dello sviluppo.
Tutto ciò può essere realizzato sotto forma di donazione o di credito, attraverso l’attuazione di progetti o programmi o, talvolta, anche con soccorsi in natura. In casi del genere il soggetto bisognoso di aiuto (destinatario) esprime la propria richiesta, che il soccorritore (donatore) soddisfa prontamente, sovvenendo a quelle esigenze senza porre condizioni. A guidare tale gesto è l’atteggiamento altruistico del donatore, che a volte lo compie anche a proprio danno (cioè non ne trae profitto; anzi, deve affrontare spese, lavoro e fatica). Chi si comporta in questo modo è spinto ad agire dal proprio sistema di valori, da un imperativo della coscienza o da un comportamento guidato da princìpi religiosi. Compie questi gesti in conseguenza dell’assunzione di responsabilità, per il bene, senza secondi fini, per amore del prossimo.
Ma le relazioni di aiuto che rientrano nella descrizione appena tratteggiata si verificano soltanto in rari casi. Nel caso dell’aiuto bilaterale, in genere il donatore collega il proprio aiuto a una condizione che soddisfi i propri interessi. Nel corso di tali tipi di cooperazione, sebbene le necessità del sostenitore possano essere comprensibili, il principio dell’altruismo viene violato, e fa la sua comparsa qualche elemento di potere.
Eccoci quindi tornati a una delle nostre domande fondamentali: che cosa, sotto il profilo filosofico, caratterizza la natura dell’aiuto? O, in termini più semplici, qual è il suo scopo?
Lo scopo dell’aiuto
Le motivazioni per dare aiuto variano notevolmente, a seconda del momento e del Paese (e spesso anche del donatore). Possiamo tuttavia chiederci se sia appropriato un approccio del genere, che, pur in tutta la sua varietà, si basa principalmente su aspetti individuali, ma è guidato anche da interessi. In fin dei conti, l’essenza dell’aiuto, nel senso più ampio, dovrebbe essere semplicemente quella di sostenere chi ha bisogno con beni materiali o intellettuali, di soccorrere chi si trova in difficoltà. Prestare aiuto è un processo dal quale chi aiuta non trae alcun vantaggio. Il contributo che egli dà viene fornito direttamente, in forma personale, ma è il destinatario a trarne un beneficio diretto.
Questo concetto, che nel pensiero platonico veniva considerato un fondamento dell’etica, in seguito è stato continuamente riconosciuto nel diritto e nella teoria dello Stato. Secondo la definizione di Ulpiano, «la giustizia è la costante e perpetua volontà di riconoscere a ciascuno il proprio diritto» (Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi). Secondo la terminologia e il pensiero morale cristiano, nel contesto della creazione di Dio essa è un atto di equa distribuzione (iustitia distributiva), con cui diamo al nostro prossimo (che Dio ha creato a sua somiglianza) ciò che spetta alla sua dignità umana.
Nel pensiero cristiano, quindi, la giustizia sociale è un antico principio fondamentale, una legge morale naturale, una delle virtù cardinali, che nel suo esercizio viene integrata dalla virtù della prudenza (prudentia). Tramite queste virtù facciamo quanto sta a noi per elevare l’altro, con la nostra capacità razionale, stimolata dall’amore. Con l’espressione «amore sociale» (dilectio socialis) san Tommaso d’Aquino ha designato l’atto di piegarsi verso l’altro secondo l’insegnamento della giustizia sociale cristiana; grazie a questo amore sociale, l’uomo può realizzarsi liberamente[6].
Gli esseri umani sono esseri sociali (socii); quindi, all’interno della società, individuo e comunità sono interdipendenti: sant’Agostino descrive così la giustizia dello Stato. Per lui, le comunità politiche, se mancano di giustizia sociale – ovvero di una condizione richiesta dalla loro struttura e natura –, non sono nient’altro che gruppi di furfanti: «Se non è rispettata la giustizia, che cosa sono gli Stati se non delle grandi bande di ladri?»[7].
Sull’amore sociale, come criterio più alto e universale dell’etica sociale, così rifletteva papa Pio XI: «È necessario che alla giustizia sociale si ispirino le istituzioni dei popoli, anzi di tutta la vita della società; e più ancora è necessario che questa giustizia sia davvero efficace, ossia costituisca un ordine giuridico e sociale a cui l’economia tutta si conformi. La carità sociale poi deve essere come l’anima di questo ordine, alla cui tutela e rivendicazione efficace deve attendere l’autorità pubblica»[8].
Al crocevia della solidarietà globale
Nel XX secolo, gli aiuti internazionali improntati all’ethos dell’altruismo sono riemersi dopo un lungo silenzio storico. Alla loro origine troviamo il cosiddetto «Discorso dei quattro punti», che il presidente degli Stati Uniti Harry S. Truman pronunciò il 20 gennaio 1949, all’inizio del suo secondo mandato presidenziale[9]. In esso poneva le basi di una nuova prospettiva riguardo agli Stati che non fanno parte dell’Occidente (sviluppato). Annunciava un «nuovo audace programma», di cui prometteva che si sarebbero visti presto gli effetti. L’European Recovery Program, legato al nome di George C. Marshall, Segretario di Stato statunitense, ha fornito la cornice nella quale queste idee hanno trovato una realizzazione concreta, ed è stato garantito il sostegno allo sviluppo internazionale con il sistema degli aiuti internazionali. È attingendo a questa linea di pensiero che istituzioni multilaterali come il Fmi, l’Ocse o la Banca mondiale hanno stabilito le loro prassi di sviluppo internazionale[10].
Tuttavia, già nel cosiddetto «Piano Marshall» venivano poste importanti condizioni per l’aiuto: la più significativa è che la firma dei contratti rendeva obbligatoria la collaborazione con aziende americane[11]. Nell’enorme programma di sussidi degli Stati Uniti – al di là dei sentimenti filantropici e degli obiettivi commerciali che sarebbero divenuti le motivazioni primarie dopo la Guerra fredda – si presentavano già gli interessi legati alla sicurezza nazionale e alla politica della sicurezza. «Soprattutto dopo il 1961, pur se l’accento è stato posto ufficialmente anche sui motivi morali e umanitari, nella pratica la distribuzione degli aiuti esteri è stata dettata in larga misura da considerazioni di sicurezza nazionale»[12].
Altri Stati si impegnarono a inserirsi nel sistema di alleanze dell’Europa occidentale. Tra essi ricordiamo la Germania dopo la Seconda guerra mondiale. Questa intenzione determinò la politica estera tedesca e gli aiuti internazionali per gli anni successivi, se non addirittura per decenni. Il Regno Unito e la Francia rivolsero l’attenzione molto più ai loro ex territori coloniali, ritenendo un proprio obbligo morale sostenere le nazioni che prima appartenevano al «corpo della nazione». «Gli Stati nordici, in crescita forte e continua, hanno stabilito il loro programma di aiuti esteri con un chiaro ed esplicito riferimento agli obblighi morali e umanitari. L’idea di fondo era che i Paesi ricchi dovevano aiutare i Paesi poveri. Questo modo di pensare aveva già ispirato lo sviluppo degli Stati sociali nordici, che si erano dati l’obiettivo di migliorare le condizioni delle comunità povere e di scarse risorse all’interno delle loro popolazioni»[13].
Sebbene sia generalmente riconosciuto che l’offerta di aiuti dovrebbe, in linea di principio, attenersi soltanto alle esigenze a cui va incontro, tuttavia, quando si considerano tutti questi interessi, motivazioni e priorità, si constata che le forniture di aiuto incondizionate e disinteressate sono rare. In genere, l’idea di inviare aiuti può rispondere a una combinazione di desideri del sostenitore e di obiettivi umanitari che riflettono il bisogno di chi viene sostenuto. Nel 1969 la «Commissione Pearson» ha constatato che i progetti di aiuto che, oltre alle dimensioni etiche, sono contrassegnati da forti prospettive commerciali, in realtà nel lungo periodo rafforzano i donatori[14]. Anche l’analisi della «Commissione Brandt» ha riflettuto su questo aspetto ed è giunta alle stesse conclusioni, evidenziando come il continuo aiuto ai Paesi del Sud si traduca in una dipendenza dagli aiuti che arricchisce le economie dei Paesi donatori dell’emisfero settentrionale, perché le dota di fonti stabili[15].
L’interesse come strumento di potere
Nelle relazioni di aiuto, la parte che dona acquista un potere considerevole sulla parte che viene aiutata. In una certa misura, il ricevente rimane sempre vulnerabile, dipendente dal donatore. È dal donatore che il ricevente ottiene il proprio sostegno condizionato (spesso subordinato a condizioni di dettaglio e, frequentemente, erogato a posteriori), e deve renderne conto, fornendo un resoconto completo: deve soddisfare le aspettative di quello specifico donatore. Questa è senza dubbio una situazione di vulnerabilità, di dipendenza, così come, a livello personale, in una situazione di malattia il più vulnerabile è il paziente, perché costretto a contare sul personale e sulle capacità tecniche dell’istituzione sanitaria. E non abbiamo ancora accennato alle attese riguardanti la compatibilità.
Al riguardo, uno degli elementi più ricorrenti è a quale condizione possa essere rafforzata l’economia del partner in necessità. Il caso si dà, per esempio, quando gli attori economici del Paese in questione andrebbero coinvolti nella disposizione degli aiuti, ma questo non può avvenire per una serie di ragioni (per esempio, l’impossibilità di trasportare gli strumenti e il relativo servizio di assistenza, di fornire componenti, di installarli localmente ecc.). Di conseguenza, molto spesso una risposta data a un bisogno non può affatto soddisfare la cosiddetta «coerenza di sostegno» del donatore. È inutile prescrivere elementi di conformità nell’ambito di una gara o di un progetto (condizioni economiche o di trasparenza), se non possono essere realisticamente seguiti e rispettati. Dopotutto, le necessità non sorgono secondo il desiderio e la logica del donatore. In questi casi, chi aiuta dovrebbe orientare le proprie aspettative a una notevole flessibilità, nella piena consapevolezza della propria responsabilità.
Un punto altrettanto critico è l’imposizione a sottostare al sistema di valori del donatore. Questo costituisce un elemento condizionante, nel caso in cui il destinatario debba soddisfare aspetti etici o politici. In tale ambito gli elementi più ricorrenti sono la trasparenza finanziaria ed economica, la responsabilità, il rispetto delle norme occidentali in materia di prestazioni finanziarie o le attese relative a politiche democratiche, ma talvolta anche demografiche o espressioni di imposizioni ideologiche. Tuttavia, non di rado il modello di democrazia dell’emisfero settentrionale e il suo sistema di organizzazione sociale funzionano soltanto nel proprio contesto e non possono essere trapiantati nei Paesi del Sud[16]. Certe considerazioni «occidentali» sono semplicemente incompatibili con l’«Oriente», non possono essere applicate nei territori a cui si vuole indirizzare l’aiuto. È sempre in questione una responsabilità ampia, come è stato sottolineato con grande sensibilità da Amartya Sen, o nella Storia del pensiero politico di Alan Ryan, in cui l’autore, sulla scorta della propria esperienza del lavoro sul campo, sostiene che uno Stato o un’organizzazione non dovrebbero mai agire con superiorità morale o in un modo che soltanto loro ritengono giusto[17].
Considerazioni conclusive
In definitiva, l’aiuto internazionale è un processo multiforme, nel quale le posizioni estreme non sono affatto rare: per esempio, l’ungherese Peter Bauer (che prese parte anche al governo di Margaret Thatcher) e più tardi Friedrich von Hayek[18] hanno negato i fondamenti morali della motivazione dell’aiuto. Secondo loro, né gli individui né gli Stati hanno alcun obbligo morale di sostenere gli altri; l’idea della distribuzione dei beni, come principio, può emergere solo nel caso in cui la disuguaglianza sia ingiusta. Bauer non si è limitato ad affermare che un aiuto protratto può far cadere i Paesi che ne beneficiano in un circolo vizioso, ovvero in una trappola (dipendenza dagli aiuti), ma ha anche respinto categoricamente le politiche di sostegno dei Paesi sviluppati. Secondo lui, le differenze nella qualità della vita rispecchiano ciò che merita ogni singolo Paese, e devono provenire dall’impegno e dagli sforzi individuali[19].
Tutto ciò mette in luce la complessità del sistema delle relazioni internazionali e, all’interno di esso, la complessità dell’aiuto, rispetto al quale molto spesso le domande stesse sono divisive e le risposte sono decisamente conflittuali, come ha sottolineato Joseph S. Nye nel suo lavoro che abbiamo citato prima. I princìpi e le modalità di approccio differiscono; tuttavia, sulla base dell’«imperativo umanitario» – radicato nel cristianesimo e poi riscoperto nel XX secolo –, nessuno che sia interessato a fornire aiuti internazionali ha altra scelta se non quella di evitare ulteriori sofferenze a chi è vulnerabile e di contribuire, per quanto i suoi mezzi lo consentano, ad aiutare adeguatamente i bisognosi, nel modo ritenuto opportuno dai beneficiari dell’aiuto.
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CONSIDERATIONS ON POWER AND INTERNATIONAL AID RELATIONSHIPS
This article examines the forms and extent of power and force in international aid relations. It reflects on the notion that international aid is a part of politics and generally occurs between state-level partners. The discussion thus begins by examining power in the context of the overall system of international relations, and then looks at how it manifests itself in aid.
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[1]. Cfr P. Engel, Beilleszkedés Európába, a kezdetektol 1440-ig, Budapest, Háttér Lap- és Könyvkiadó, 1990.
[2]. Tucidide, La guerra del Peloponneso, Milano, Rizzoli, 1985, vol. II, l. V, 88-101, 935-945.
[3]. J. S. Nye, Understanding International Conflicts, New York, Harper Collins College, 1993, 3-10.
[4]. K. Obuchi, «Opening Remarks», in JCIE (The Asian Crisis and Human Security. An Intellectual Dialogue on Building Asia’s Tomorrow), Tokyo, Jcie, 18 s; cfr www.jcie.org/researchpdfs/crisis_human_sec/3_Part%201.pdf
[5]. M. Weber, Economia e società. Teoria delle categorie sociologiche, vol. 1, Milano, Edizioni di Comunità, 1961, 52.
[6]. Tommaso d’Aquino, s., De caritate, a. 9.
[7]. Agostino, s., La città di Dio, IV, 4, Roma, Città Nuova, 2006, 171.
[8]. Pio XI, Quadragesimo anno (1931), n. 89.
[9]. Cfr H. S. Truman, The Point Four Program, in www.trumanlibrary.gov/library/online-collections/point-four-program
[10]. Cfr M. Gronemeyer, «Helping», in W. Sachs (ed.), The Development Dictionary, London – New York, Zed Books, 1992, 55-74.
[11]. Cfr G. Behrman, The Most Noble Adventure: The Marshall Plan and the Reconstruction of Post-War Europe, London, Aurum, 2008.
[12]. J. Degnbol-Martinussen – P. Engberg-Pedersen, Aid: Understanding International Development Cooperation, New York, Zed Books, 2003, 8.
[13]. Ivi, 9.
[14]. Cfr L. B. Pearson, Partners in Development. Report of the Commission on International Development, New York, Praeger, 1969.
[15]. Cfr J. Degnbol-Martinussen – P. Engberg-Pedersen, Aid…, cit.
[16]. Cfr K. Griffin – J. Knight (edd.), Human Development and the International Development Strategy for the 1990s, London, Palgrave MacMillan, 1990.
[17]. Cfr A. Ryan, Storia del pensiero politico, Torino, Utet, 2017.
[18]. Cfr F. von Hayek, «Il miraggio della giustizia sociale», in Id., Legge, legislazione e libertà, Milano, Feltrinelli, 1973.
[19]. Cfr P. T. Bauer, Dissent on Development, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1976.
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