
|
Il retroterra storico
Gli antichi avevano ben presenti i molteplici aspetti della giustizia. Rileggendone i testi, colpisce la grande ricchezza e complessità di prospettive in essi presente.
La radice stessa del termine greco dikaiosynē (giustizia), dikē, fa riferimento a una molteplicità di significati operativi che riguardano anzitutto il rapporto con Dio e il governo di sé e che si esprime in sede operativa mediante direttive, ordini, disposizioni. Dike era la figlia mitologica di Giove e di Temi, dea delle leggi e dei tribunali. La si raffigurava con una spada e una bilancia, l’immagine con la quale ancora oggi si rappresenta la giustizia.
La giustizia è anzitutto la caratteristica propria di Dio, che ne è il fondamento, un aspetto che ritorna costantemente nella tradizione classica e biblica[1]; in questo senso, «giustizia», più che osservanza di una legge, è soprattutto una caratteristica dell’essere. La dikaiosynē consente di assegnare alle cose il loro posto «giusto», «vero»: è il posto che per la Bibbia spetta a ogni essere nell’armonia della creazione, rispettando l’ambito che gli è stato assegnato e contribuendo al grande disegno del Creatore.
A differenza degli altri esseri viventi, l’uomo è chiamato a mettere ordine nella propria vita, vivendo in armonia con se stesso e con gli altri. In questo senso la giustizia è il fondamento della civiltà, dell’autorità e del vivere comune. Ha anche un riferimento alla vita come vocazione, come capacità di collaborare al bene comune. Una visione ancora appartenente al patrimonio culturale odierno.
Il filosofo Alasdair MacIntyre riassume in questi termini il proprio percorso educativo: «Il mio immaginario di bambino si nutrì anzitutto di una cultura orale celtica, patrimonio di agricoltori e pescatori, poeti e cantastorie, una cultura in larga misura già perduta, ma alla quale alcuni anziani con cui entrai in contatto sentivano ancora di appartenere […]. Essere giusti significava giocare il ruolo a cui ciascuno era stato assegnato dalla comunità locale. L’identità di ciascuno derivava dal posto che l’individuo occupava nella comunità»[2]. Emerge in queste righe uno dei significati preponderanti della visione classica della giustizia: occupare il proprio posto nella società, nel mondo, mettendo a disposizione le proprie capacità per il bene comune, realizzando così se stesso. Una concezione sostanzialmente armonica di individuo e società, ben diversa dalla visione «selvaggia» della vita, propria dei sofisti, secondo la quale la giustizia è imposizione del volere del più forte. Una visione ampiamente ripresa dalla modernità e che trova il suo culmine in Nietzsche e nella concezione positivista del diritto, dove il criterio supremo è la correttezza procedurale, e che espone a gravi aporie, che rendono estremamente problematico il vivere comune, come si è avuto modo di notare[3].
Già Platone aveva mostrato quanto tale visione fosse nociva per la società e, prima ancora, per il bene del singolo. Nella Repubblica egli presenta in maniera avvincente queste due visioni della giustizia, mettendo a confronto Socrate e Trasimaco. Socrate obietta al sofista che la giustizia si attua solo quando si dà priorità ai beni dell’anima (in particolare alla sapienza), ascoltandone la voce come criterio di governo di sé e delle proprie scelte[4]. Una coerenza che rende capaci di sopportare ingiustizie gravi, come è appunto accaduto a Socrate. Il processo da lui subìto è per Platone la violazione di un ordine di giustizia superiore a quella umana, che è il vero criterio di giudizio delle azioni dei mortali.
Uno Stato può diventare giusto quando ogni uomo dà ascolto a questa voce che risuona nella sua anima, mettendo armonia tra le sue varie parti (sensibilità, affetto e ragione). In questo senso lo Stato è «un uomo in grande», e la giustizia sociale è parte del contributo di ogni uomo giusto. La legge non basta: per adempiere la giustizia è necessario educare alla bellezza di una vita buona[5].
Questi aspetti vengono ripresi da Aristotele. Egli considera la giustizia come la virtù pratica più importante, perché verte su tutti gli aspetti della morale. A lui si deve la distinzione tra giustizia distributiva e commutativa: la prima mira ad assegnare i beni in base al rango, al posto occupato nella società; la seconda invece è frutto di uno scambio tra contraenti considerati alla pari. In linea con la riflessione dei pitagorici, Aristotele chiama la prima giustizia «geometrica», la seconda «aritmetica» (Etica Nicomachea, 1131 a 10 – 1132 b 9). Per lo Stagirita, riprendendo l’ Antigone di Sofocle, c’è un senso di giustizia presente in ogni uomo, il nucleo di ciò che verrà chiamata la «legge naturale» («un giusto e un ingiusto per natura di cui tutti hanno come un’intuizione e che a tutti è comune», esplicitata nella norma, Retorica, 1373b 7-10) e che rende l’azione equa, capace cioè di attuare la giustizia nella situazione concreta, cosa che la legge positiva non è in grado di fare.
Aristotele porta l’esempio dei buoni architetti che operavano a Lesbo: essi usavano un regolo di piombo non rigido, capace di adattarsi alla forma della pietra su cui costruire. L’equo è superiore al giusto proprio per la sua capacità di comprendere la situazione concreta e deliberare su ciò che è meglio nel caso specifico (Etica Nicomachea, 1137 b 12-14.27-32).
Il contributo degli autori latini è volto soprattutto a precisare la dimensione giuridica della giustizia. Si può ricordare soprattutto la celebre definizione di Ulpiano (170 ca. – 228 d. C.): «volontà costante e perpetua di riconoscere a ciascuno il suo diritto» (Digesto, 3.1.1.1), che diviene l’incipit del Corpus Juris Civilis di Giustiniano e sarà presente nella maggior parte dei trattati medievali.
La riflessione di san Tommaso
Anche san Tommaso inizia il suo trattato riprendendo la definizione di Ulpiano, ma la rilegge all’interno della prospettiva morale della giustizia come virtù cardinale: «La giustizia è un habitus dal quale derivano certe operazioni dei giusti, e mediante il quale essi operano e vogliono le cose giuste» (Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 1, definizione ripresa dal Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1807).
È una concezione molto vicina ad Aristotele, mirante soprattutto a mostrare le caratteristiche della persona giusta, educata secondo le varie virtù (cfr Etica Nicomachea, 1105 a 31 – 1105 b 8). Tommaso tuttavia amplia notevolmente la sua prospettiva, e fa della giustizia una virtù «analoga», ricomprendendo sotto questo termine anche la dimensione linguistica e spirituale. La giustizia è la manifestazione di un animo retto, capace di decidersi per il bene, proprio e dell’altro. Per questo è riflesso della bontà di animo: «Come afferma Cicerone, “gli uomini si dicono buoni specialmente per la Giustizia”» (Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 3).
D’altra parte, la giustizia si manifesta nelle azioni e nelle opere esteriori, in relazione alle altre persone, indipendentemente da ciò che si prova nei loro confronti. A differenza delle altre virtù, la sua moralità si mostra essenzialmente all’esterno, concerne il comportamento e il bene da compiersi, individuato dalla saggezza, rendendo retto il soggetto.
Per Tommaso, il carattere essenziale della giustizia è di «rendere a ciascuno il suo» (Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 11). La giustizia nasce come istanza del dovere comandato dallo jus. Il punto capitale della questione è stabilire cosa significhi «rendere il suo»; in altre parole, precisare il suffisso jus di jus-titia, il fondamento del diritto di riconoscere ciò che spetta a ciascuno. Dove c’è jus, un diritto, ipso facto c’è un debitum, un dovere di adempimento[6]. Ma in forza di cosa si fonda tale diritto? Come si può stabilire che qualcosa «spetta» a qualcuno considerato portatore di diritti? Questo è il punto centrale per comprendere la portata di tale virtù, il che pone la riflessione su un piano molto più ampio dell’ambito giuridico-contrattuale[7].
La derivazione latina del termine lo metteva in riferimento alla divinità: una delle possibili etimologie di «giustizia» sarebbe il composto di Iove e iusta (cfr A. Emout – A. Meillet, Dictionnaire Etymologique de la Langue Latine, Paris, Klincksieck, 1939, 506). In pratica, avrebbe alle origini il nome di Giove come garante del diritto.
Per Tommaso, tale fondamento può essere riscontrato solo in sede teologica: «È con la creazione che l’essere creato comincia per la prima volta ad avere qualcosa di proprio» (Summa contra Gentiles, II, 28). Per il fatto di esistere, di essere creati a immagine e somiglianza di Dio, si è portatori di diritti, una situazione che precede e fonda l’ambito giuridico. È la verità creaturale che caratterizza ogni uomo, indipendentemente dalla sua condizione economica, sociale, dalla cultura e dal posto occupato nella società: per il fatto di nascere, si è portatori di diritti naturali. Questa attenzione aiuta anche a comprendere la giustizia come giustificazione in senso teologico[8], e apre alla considerazione dell’uomo come persona, essere di valore incomparabile e perciò portatore di diritto: parafrasando Kant, egli è fine in sé e mai riducibile a mezzo.
Da qui lo stretto rapporto della giustizia con il tema della verità e della relazione con Dio. La giustizia biblica (sedaka) è anzitutto un’azione salvifica con la quale Dio rende l’uomo giusto, lo risana nell’essere. Un aspetto che pone la riflessione su un piano misterico, difficilmente precisabile non soltanto sul piano filosofico, ma anche su quello linguistico: «Quanto questa giustizia oltrepassi quella umana sta a dirlo l’assenza nel nostro linguaggio della locuzione contraria a “commettere un’ingiustizia”, vale a dire “commettere una giustizia”. Questa potrebbe essere l’espressione appropriata della giustizia divina, nel senso appunto di “rendere giusti”, stabilire qualcuno nel diritto ignorato, disconosciuto, perduto. È questa l’azione della giustizia di Dio verso il popolo che subisce l’oppressione (Sal 98,2). Verso il povero, il debole e l’emarginato (Sal 103,6)»[9].
Le caratteristiche della giustizia
La giustizia presenta tre caratteristiche fondamentali. Essa è anzitutto virtus ad alterum, la sua materia concerne le relazioni, riguarda altri soggetti. Ma per vivere correttamente le relazioni con gli altri è necessario essere giusti con se stessi; in altre parole, essere persone rette che sanno dare il corretto spazio alle differenti facoltà del proprio essere. Questo è l’aspetto di giustizia come giustificazione nel senso sopra ricordato. Per questo essa necessita delle altre virtù cardinali, mostrando la circolarità propria della vita morale e il senso di unificazione interiore proprio dell’agire virtuoso[10]. Questa giustizia «figurata» ha trovato molteplici modalità di attuazione, in sede terapeutica e, ben prima di essa, nella pratica dell’accompagnamento spirituale.
In secondo luogo, la giustizia prescrive un obbligo verso ciò che è dovuto e che non può essere lasciato a una soggettiva condiscendenza. Come è stato notato, è più spontaneo essere caritatevoli che giusti, spacciando la liberalità per grettezza d’animo. È il motivo per cui Tommaso ha cura di separare la giustizia dalla generosità; la giustizia fa valere l’istanza del dovuto, dell’obbligatorietà del bene, così da sottrarlo all’arbitrarietà del sentimento e della convenienza[11].
Grazie a essa la virtù può raggiungere il suo apice: la giustizia ha infatti a che fare con tutti gli aspetti del bene da compiersi e nella classificazione delle virtù cardinali viene subito dopo la saggezza e prudenza e prima della fortezza e temperanza; la prudenza e la giustizia hanno infatti il compito di mettere direttamente l’uomo in rapporto con il bene, «le altre virtù, invece [sc. fortezza e temperanza], servono a preservare il bene regolando le passioni in modo da impedire che l’uomo devii dal bene della ragione» (Sum. Theol. II-II, q. 123, a. 12; cfr q. 157, a. 4). Inoltre la giustizia, a differenza delle altre virtù, ha in vista il bene comune, non semplicemente il bene del singolo (ivi, q. 58, a. 12). Ha soprattutto un riscontro oggettivo, è un atto visibile indipendente dai sentimenti che si possono provare al riguardo: «Non mi è dato sapere se uno sia dotato di fortezza o temperanza semplicemente da quello che fa; occorre piuttosto che lo conosca già e sappia in quale stato d’animo si trovi […]. Al contrario, è impossibile immaginare un’azione moderata, ad esempio di fronte al cibo, senza conoscere le particolari capacità o disposizioni di una persona moderata. Per contro, la giustizia di un’azione può essere valutata solo dall’esterno: ovunque vi sia azione esteriore, sempre sono in gioco giustizia o ingiustizia. Tutta la sfera della vita attiva ha a che fare con la giustizia»[12].
Affermare questo non significa però ridurre tale azione all’ambito meramente legale-procedurale. La giustizia nasce dalla volontà, centro spirituale dell’uomo, «la parte più nobile dell’anima» (Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 12; cfr I-II, q. 66, a. 1); perché si attui in maniera coerente, essa deve contrastare l’avidità e la bramosia egoistica. In quanto ha sede nella volontà, la giustizia è espressione del dominio di sé e del governo sulle varie facoltà dell’essere umano (quella che sopra è stata chiamata «giustizia metaforica o interiore»): in questo senso le passioni educate costituiscono un indubbio aiuto per la sua attuazione[13].
Compiere ingiustizia è perciò l’azione più contraria alla retta ragione (cfr Sum. Theol. II-II, q. 55, a. 8); non a caso la riforma di vita, in senso spirituale, passa anzitutto per la rettitudine nel contesto delle relazioni e dell’uso dei beni (cfr Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, nn. 189; 343).
L’importanza di una vita interiore ordinata per compiere la giustizia si rende ancora più evidente qualora si consideri il costo che non di rado essa richiede. Tommaso lo aveva notato precisando un’altra caratteristica peculiare della giustizia: quella di non essere, come le altre virtù, via di mezzo tra due estremi negativi. «La giustizia non è medietà fra due vizi […], la sua azione è l’operazione giusta, che è il mezzo fra l’operare ingiusto e il sopportare l’ingiusto. La prima di queste due azioni, l’ingiustizia attiva, riguarda il vizio dell’ingiustizia che appartiene alle realtà esterne, in quanto riceve per sé troppi beni e troppo pochi mali. Ma l’altra, cioè la sopportazione dell’ingiustizia, non è un vizio, ma piuttosto una pena» (Commento all’Etica nicomachea, l. 5, 1,10: c. 993; cfr Sum. Theol. I-II, q. 64, a. 2). Nell’adempimento della giustizia c’è una dimensione di sofferenza che la pone in relazione con la spiritualità cristiana, specialmente quando è in gioco la propria vita. Per questo Tommaso, nella sua trattazione sulla fortezza, fa riferimento alla beatitudine di coloro che hanno fame e sete della giustizia, come a ricordare la necessità di una prospettiva trascendente per il pieno adempimento del «desiderio insaziabile» di compiere la giustizia (cfr Mt 5,6; Sum. Theol. II-II, q. 139, a. 2).
Infine, a livello collettivo, si può parlare di giustizia quando le tre relazioni fondamentali sono tra loro ordinate: relazioni tra singoli (giustizia commutativa, che Aristotele chiamava «aritmetica»); relazioni della società verso i singoli (giustizia distributiva o «geometrica»); relazioni dei singoli verso la società (giustizia legale o «generale»)[14].
Vizi contrari e virtù annesse alla giustizia
Pur non essendo medietà tra due mali, la giustizia conosce tuttavia due vizi opposti, entrambi riguardanti quel nucleo morale universale della legge naturale che è espresso dalla cosiddetta «regola d’oro». L’omissione e la trasgressione contraddicono rispettivamente la sua versione positiva («fai il bene!») e negativa («non fare il male!»)[15]. Inoltre Tommaso inserisce negli atti contro la giustizia l’uso scorretto della parola, come l’insulto e la maldicenza (da attribuirsi anche a chi vi collabora ascoltandole: cfr Sum. Theol. II-II, q. 72, a. 2; q. 73, aa. 1 e 4), la mormorazione e la derisione (cfr ivi, q. 74, a. 1; q. 75, a. 2), la menzogna e l’ipocrisia (cfr ivi, q. 110 a. 1; q. 111 a. 2). Colpisce l’accurata enumerazione delle possibili espressioni verbali, confermando il profondo legame esistente tra giustizia e verità. Una lettura, anche in questo caso, molto in linea con la prospettiva evangelica, che a più riprese stigmatizza la violenza verbale (cfr Mt 5,20-21; 2 Cor 12,20; Gal 5,20-21; Gc 3-4).
Alla giustizia fanno riferimento molte virtù. Tommaso vi dedica più di 40 questioni, a conferma della sua importanza e molteplicità di ambiti di attuazione. Nell’enumerarle egli fa riferimento soprattutto ad autori pagani, per dimostrare che si tratta di valori universalmente riconosciuti[16]. Tra essi spicca la religiosità, come dovuto riconoscimento dei beni ricevuti, a cominciare dalla vita, a Colui che ne è la sorgente e la suprema autorità, e si traduce nel culto e nel sacrificio, tematiche oggi poco apprezzate, ma insieme molto presenti nell’immaginario attuale, specialmente giovanile, per lo più nelle loro versioni distruttive, come la magia e la criminalità[17].
Trattando della preghiera, atto essenziale della religione, Tommaso ne dà una definizione intrigante: è imparare a pensare bene[18]. Un significato che gioca sul binomio ratio–oratio e si ritrova in diverse lingue moderne come l’inglese (to think–to thank) e il tedesco (Denken ist Danken, come notava Heidegger).
Una sintesi ancora attuale
Come si può notare anche da questa sommaria presentazione, il trattato di san Tommaso si presenta estremamente complesso ed elaborato; in esso confluiscono riflessione filosofica, tradizioni storico-giuridiche e rivelazione biblica: «S. Tommaso d’Aquino ha mostrato una particolare finezza psicologica nella parte pratica della Summa Theologiae. Molte questioni che trattiamo della Filosofia del Diritto, nel Diritto pubblico, nella Sociologia e molte altre questioni che non trattiamo mai, gli scolastici includevano nel trattato De Virtutibus, e quando arrivavano al trattato De Iustitia, vi includevano un cumulo di dottrine sociali e religiose. L’Aquinate, infatti, pur non essendo un giurista di professione, si occupò, come filosofo e teologo moralista, del diritto, con il fine di salvare il carattere morale del diritto e dell’ordine giuridico, problema questo tra i più importanti della filosofia del diritto. Diritto naturale, legge naturale e verità sono un’identica cosa; senza verità, anche il diritto diventa privo di giustizia e di moralità; anche la verità è infatti legge di giustizia»[19].
Nonostante il notevole incremento della ricerca a livello filosofico, giuridico e sociale, questo trattato medievale continua a stupire per l’equilibrio e la capacità di considerare aspetti tanto diversificati ma essenziali per una corretta comprensione di questa virtù, in particolare la giustificazione dei diritti umani, nucleo di quello jus che la giustizia dovrebbe garantire in ogni luogo e tempo. La prospettiva di Tommaso si pone sul piano specificamente morale; per questo non entra volutamente in merito ai molteplici aspetti giuridici, pur presenti nelle opere da lui esaminate.
Oggi la trattazione risulta essere indubbiamente molto più specializzata, ma non di rado carente nella visione d’insieme. Da qui la difficoltà a riconoscere, ancora prima che applicare, questa virtù fondamentale, perché la giustizia si regge su alcuni pilastri non contrattabili, in mancanza dei quali diviene estremamente problematico giustificarne gli assunti.
Uno di essi è appunto la legge naturale. Per Tommaso essa è partecipazione della legge eterna inscritta nell’animo umano, è una luce che consente di discernere ciò che è bene e giusto, anche senza aver ricevuto una dettagliata istruzione (cfr Sum. Theol. I-II, q. 10, a. 1; q. 91, a. 2). La vicenda di Antigone, sopra ricordata, mostra in maniera esemplare l’esigenza di riconoscere la legge non scritta, insita nella coscienza dell’uomo, che indica ciò che è giusto e che la legislazione statale può riconoscere ma non violare, pena la sua perdita di legittimità.
Nel momento in cui questa tematica cade nel dimenticatoio, diviene più difficile proteggere l’uomo da forme di ingiustizia sottili, ma che con il tempo si rivelano devastanti, «quel genere d’ingiustizia che nasce quando l’uomo ha perduto ogni rapporto con la verità; e pertanto la questione se qualcuno abbia o meno diritto a una cosa viene da lui considerata come del tutto irrilevante. Qualcosa di profondamente disumano viene qui in luce ancor più che nella formale ingiustizia»[20]. Joseph Pieper, scrivendo il suo commento al trattato tomista, aveva ben presenti le derive della dittatura nazista, che aveva posto il fondamento della legge nella mera decisione della volontà: una volontà che, a differenza di Tommaso, non è informata dalla ragione (cfr Sum. Theol. I-II, q. 17, a. 1) ma si pone come irrazionale volontà di potenza, fine a se stessa.
In Italia, un esempio eloquente di tale «profonda disumanità» è stata la promulgazione delle leggi razziali nel 1938. Purtroppo anche chi denunciò apertamente l’iniquità di tale arbitraria iniziativa, pur mostrando rettitudine e coraggio ammirevoli, per lo più non fece riferimento alla motivazione decisiva: la dignità di ogni essere umano in forza dell’essere immagine e somiglianza di Dio. E il permanere delle derive razziste ed eugenetiche nelle odierne società democratiche mostra quanto sia indispensabile riprendere la riflessione sui fondamenti della giustizia.
Il ricorso a un principio metafisico, irriducibile alla puntuale situazione storica, rimane la migliore garanzia per tutelare la dignità umana di fronte agli interessi di parte o alle brutali contrapposizioni etniche[21].
Copyright © La Civiltà Cattolica 2021
Riproduzione riservata
***
[1]. «La concezione greca della giustizia è incardinata sui concetti di misura e limite. Limite è ciò che circoscrive l’esserci di ciascuna cosa nell’Universo, ma anche il posto a ciascuno assegnato dagli dei, e la porzione – di beni, di mali, di vita – che a ciascuno spetta. Il rispetto del limite segna la misura del lecito. Tutta la cultura greca è pervasa da questo senso del limite, e dalla percezione della sua violazione come illecito» (www.treccani.it/enciclopedia/giustizia_Dizionario-di-filosofia). Cfr G. Del Vecchio – F. Viola, «Giustizia», in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, 2006, vol. 5, 4877 s.
[2]. A. MacIntyre, «Nietzsche o Aristotele», in G. Borradori, Conversazioni americane, Roma – Bari, Laterza, 1991, 171.
[3]. Cfr G. Cucci, «La giustizia. Una virtù scomoda», in Civ. Catt. 2021 III 121-133. Un frammento di Nietzsche mostra in maniera eloquente la sua critica feroce allo spirito debole proprio dell’istituzione politica, sostenuta dalla scienza moderna e soprattutto dal cristianesimo: «Istintiva congiura universale del gregge contro tutto ciò che è pastore, animale da preda, solitario e Cesare, per la conservazione e la vittoria di tutti i deboli, gli oppressi, i malriusciti, i mediocri, i semi-falliti, come una sollevazione di schiavi protratta in lungo, prima inavvertita e poi sempre più consapevole, contro ogni specie di signori e alla fine contro il concetto stesso di “signori”» (F. Nietzsche, Frammenti Postumi. 1885-1887, in Id., Opere, Milano, Adelphi, 1975, vol. VIII/1, n. 13; il tema attraversa l’intera opera di Nietzsche). La congiura contro i forti ha portato a negare i valori vitali che il filosofo tedesco vorrebbe invece riabilitare.
[4]. «Per la verità la giustizia […] non riguarda il comportamento esteriore dell’individuo, bensì quello interiore, che coinvolge veramente l’individuo stesso e la sua personalità. Grazie ad essa l’uomo giusto […] diventa governante, ordinatore e amico di se stesso e accorda le sue tre facoltà interiori. Questo sarà, d’ora in poi, il suo modo di agire, si tratti dell’acquisto di ricchezze, della cura del corpo, della vita politica o degli accordi privati, poiché in tutto ciò egli ritiene e chiama giusto e onorevole il comportamento che mantiene l’equilibrio interiore e contribuisce a realizzarlo, e sapienza la scienza che presiede a questo comportamento, mentre ritiene e chiama ingiusto il comportamento che rovina tale equilibrio, e ignoranza l’opinione che suggerisce un comportamento simile» (Platone, Repubblica, l. IV, 443c – 444a; cfr I, 353).
[5]. Cfr G. Cucci, «La prudenza. Una virtù scomparsa?», in Civ. Catt. 2021 III 11-22.
[6]. «Per l’esattezza: Jus-titia. Più precisamente: Jus – stat – ia. Il torto, il danno, la lesione, il non adempimento a una pretesa, eccetera hanno bisogno di legittimare una richiesta di bilanciamento degli interessi. E si vedrà come anche una possibile definizione del diritto debba tener conto di quanto evidenziato, del concetto di moto e di altro, della imprescindibile presenza in sé d’un valore, d’un fondamento prossimo e remoto; d’un riferimento giustificativo, di una norma, per qualunque tipo di ordinamento possibile» (E. Cianciola, «La “non automaticità” dei provvedimenti giurisdizionali in tema di tutela dei Diritti fondamentali dell’ambiente», in Id., Ionicae Disputationes, Taranto, Uomo e Ambiente, 2008, 79 s).
[7]. «Se l’atto della giustizia consiste nel dare a ciascuno ciò che è suo, prima ancora di esso viene quell’atto in virtù del quale alcunché diventa per uno il suo» (Summa contra Gentiles, II, 28). Cfr J. Pieper, Sulla giustizia, Brescia, Morcelliana, 1956, 29-33.
[8]. «La giustizia che si attua in noi mediante la fede è quella che determina la giustificazione del peccatore, la quale consiste nel debito ordine delle varie parti dell’anima» (Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 2, ad 1).
[9]. M. Cozzoli, «Giustizia», in P. Benanti – F. Compagnoni – A. Fumagalli (edd.), Dizionario di teologia morale, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2019, 442. Cfr G. Schrenk: «La δικαιοσύνη θεού comprende la giustificazione. Al fedele viene giuridicamente assicurata la giustizia, e questa gli viene comunicata come nuova qualità agli occhi di Dio» («δικαιοσύνη», in G. Kittel – G. Friedrich, Grande lessico del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia, 1966, vol. II, 1271). Cfr anche J. Pieper: «La Bibbia parla più di 800 volte della giustizia e del giusto, intendendo con questo l’uomo buono e santo» (Sulla giustizia, cit., 61).
[10]. «In senso figurato si possono considerare i diversi principi operativi di un medesimo uomo, p. es., la ragione, l’irascibile e il concupiscibile, come fossero altrettante “persone”, cioè soggetti operativi distinti. Ecco perché metaforicamente si può parlare della Giustizia di un uomo verso se stesso, in quanto la ragione comanda all’irascibile e al concupiscibile, e in quanto essi obbediscono alla ragione, e genericamente in quanto ad ogni facoltà umana viene attribuito ciò che le conviene. Non per nulla il Filosofo chiama “metaforica” questa Giustizia» (Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 2).
[11]. «Sebbene la Generosità “giusta” dia solo del proprio, tuttavia lo fa mirando al bene della propria virtù. La Giustizia invece dà ad altri ciò che loro appartiene, mirando al bene comune. Inoltre l’atto della Generosità deve fondarsi sull’atto della Giustizia: infatti, come nota Aristotele, “non sarebbe una donazione generosa, se uno non desse del proprio”. Perciò la Generosità non potrebbe esistere senza la Giustizia, la quale stabilisce ciò che appartiene a ciascuno. Invece la Giustizia può esistere anche senza Generosità. Quindi la Giustizia di per sé è superiore alla Generosità, perché più comune e fondamento di essa: tuttavia la Generosità è superiore secundum quid, essendo come una rifinitura della Giustizia, e un complemento di essa» (Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 12; cfr a. 3).
[12]. J. Pieper, Sulla giustizia, cit., 44. Cfr R. Cessario, Le virtù, Milano, Jaca Book, 1994, 144; Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 9.
[13]. «Perciò la guida regolata delle nostre azioni, in quanto queste hanno il loro termine nelle cose esterne, appartiene alla giustizia: ma, in quanto nascono dalle passioni, appartiene alle altre virtù morali, che hanno per oggetto le passioni» (Sum. Theol. II-II, q. 58, a. 9, ad 2; cfr I-II, q. 60, a. 2; De virtutibus in communi, 9).
[14]. Cfr Sum. Theol. I-II, q. 114, a. 1; II-II, q. 61, a. 1; q. 63 a. 1; q. 65, a. 2, ad 2.
[15]. Cfr ivi, II-II, q. 79, aa. 2-3. Le versioni più diffuse della regola d’oro sono infatti due: in negativo («Non fare al tuo prossimo ciò che detesteresti che ti fosse fatto»: Talmud di Babilonia, «Shabbat», 31a), e in positivo («Come volete che gli uomini facciano a voi, così voi fate a loro»: Lc 6,31; Mt 7,12). Cfr C. Vigna – S. Zanardo (eds), La regola d’oro come etica universale, Milano, Vita e Pensiero, 2005; Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2009.
[16]. «Cicerone ne enumera sei, e cioè: la Religiosità, la Pietas, la Gratitudine, la Correzione, la Riverenza, la Sincerità. Macrobio aggiunge la Affabilità. Il peripatetico Andronico aggiunge la Generosità. Aristotele aggiunge l’Equità» (Sum. Theol. II-II, q. 80, obb. 1-2; 4-5).
[17]. Cfr ivi, II-II, q. 81; G. Cucci, «Il sacrificio: un tema insidioso e necessario», in Civ. Catt. 2018 III 131-140.
[18]. «Non presentiamo delle preghiere a Dio per svelare a lui le nostre necessità e i nostri desideri, ma per chiarire bene a noi stessi che in codesti casi bisogna ricorrere all’aiuto di Dio» (ivi, II-II, q. 83, a. 2, ad 1).
[19]. M. F. Carnea, «Il concetto di giustizia in S. Tommaso d’Aquino», M. Cordovani, «Prolusione all’università di Firenze», in Memorie domenicane 1 (1933) 164.
[20]. J. Pieper, Sulla giustizia, cit., 19 s. Cfr G. Cucci, «La giustizia. Una virtù scomoda», cit.
[21]. Pio XII, prendendo posizione contro le leggi razziali, fece appello proprio al tema della legge naturale: «La radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l’oblio della stessa legge naturale. Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, creatore onnipotente e padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il lecito e l’illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni davanti a un Giudice supremo» (Pio XII, Enciclica Summi Pontificatus, 20 ottobre 1939, n. 12). Cfr G. Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano, Milano, Jaca Book, 2009.
***
THE VARIED ASPECTS OF JUSTICE. The reflection of Thomas Aquinas
After showing certain problematic aspects of the neo-contractualist vision of justice, this paper traces the historical process of elaboration of this fundamental virtue for ethical action. For the Greeks, as for the Bible, justice is to be referred first of all to God. For the fact of being created in God’s image, Thomas specifies, the human person is the bearer of rights. This is the basis of the suffix jus of jus-titia, which in turn refers to the theme of natural law, which was complex but well known to the ancients. In the absence of such presuppositions, it becomes more difficult to protect man from subtle injustices that in time prove to be devastating, as we saw during the totalitarianisms of the last century and can be seen in today’s political proposals.