|
La controversa figura di Benito Mussolini, l’uomo che «ha marchiato a sangue il corpo dell’Italia»[1], è riemersa dalle nebbie indistinte della Storia. Di recente, infatti, si sono occupati di lui e del movimento (poi partito politico) da lui fondato, il fascismo, non solo gli storici di professione, ma anche la stampa di grande divulgazione e alcuni importanti scrittori. Quest’anno il premio Strega 2019 è stato vinto da un romanzo, scritto da Antonio Scurati, che tratta della storia politica del Duce (dal 1919 fino agli inizi del 1925) e della sua vicenda umana[2]. Nel 2010 lo stesso premio era stato vinto da un altro romanzo su Mussolini, scritto da Antonio Pennacchi[3]. Questo interesse per il leader del fascismo è dovuto al momento storico che stiamo vivendo, segnato dalla crisi dei modelli democratici rappresentativi sviluppatisi nel lungo Novecento e dall’avanzata delle destre – anche quelle radicali, che si ispirano alla nefasta esperienza dei totalitarismi del XX secolo – in quasi tutti i Paesi dell’Europa, nonché da una sorta di fascinazione nei confronti dell’uomo forte, capace di prendere in mano il destino della nazione, come oggi si manifesta in diverse parti del Pianeta.
Mussolini non è stato il «male assoluto», metastorico e incomprensibile, come a volte acriticamente si è detto, ma semplicemente il «male storico», assurdo e colpevole allo stesso tempo. In ogni caso, non è certo un modello di cultura politica e civile da proporre alle nuove generazioni, e tanto meno ai nuovi governanti, che affollano, anche in Italia, la scena politica. La sua esperienza di governo (il cosiddetto «Ventennio fascista») è stata non solo dannosa, ma funesta e rovinosa, per il nostro Paese e per l’Europa, per le ragioni che conosciamo: la violenza politica, il disprezzo delle istituzioni rappresentative, le leggi razziali, l’alleanza con Hitler e la guerra. Una esperienza che vale la pena di studiare e raccontare, ma non di ripetere, in nessuna variante o condizione.
In questo articolo non intendiamo ripercorrere né la vicenda umana di Mussolini né la storia del fascismo, su cui esiste una ricca e documentata bibliografia, ma soltanto il rapporto, per lo più ambiguo e opportunistico, che il Duce ebbe con la religione e la fede cristiana.
La «religione civile» di Mussolini
Si è molto discusso, in ambito storico – e certamente a proposito –, sull’attenzione che Mussolini aveva verso quegli aspetti della cosiddetta «religione civile»[4] capaci di rigenerare lo spirito degli italiani secondo gli ideali propri della dottrina fascista, fondati sul culto dello Stato totalitario, sulla fedeltà al capo carismatico e sulla dottrina della rigenerazione della stirpe latina: ideali non certamente condivisi dalla dottrina sociale della Chiesa e dal recente magistero pontificio. Mussolini in più circostanze affermò di voler proteggere la Chiesa cattolica, di cui conosceva il prestigio e la forza che aveva tra gli italiani e fra i cattolici nel mondo, e fece il possibile per non contrapporsi apertamente ad essa – a differenza di quanto faceva Hitler in Germania – sulle materie di comune interesse. Il suo progetto era quello di trovare un accordo con la Chiesa italiana e con la Santa Sede, nella speranza di rafforzare il debole Stato fascista, radicandolo nella coscienza del popolo, e dare forza e prestigio alle ambizioni totalitarie del regime.
La Chiesa, fin dai primi tempi, non disdegnò ciò che il regime le offriva – tra cui anche la stipulazione di un Concordato molto vantaggioso per essa – certamente non disinteressatamente, ma allo stesso tempo Pio XI non cedette in nulla alle lusinghe mussoliniane e con vigore condannò tutte quelle dottrine che considerava contrarie alla morale cattolica, in particolare la statolatria, il razzismo e il totalitarismo in ambito educativo.
Al contrario, non sono numerosi gli studi sul rapporto che il capo del fascismo ebbe con la fede cristiana e in genere con il fatto religioso, e quelli esistenti – prodotti negli anni del fascismo o subito dopo – sono generalmente di carattere propagandistico[5].
In questo articolo ci chiediamo se Mussolini si considerasse «credente», oppure se mostrasse indifferenza verso le problematiche di carattere religioso o spirituale; e ancora, se nella sfera privata, familiare, vivesse i valori della tradizione cattolica, ai quali egli – come disse più volte con orgoglio – aveva a modo suo contribuito, restituendo ad essi dignità e riconoscimento pubblico. Non è facile dare una risposta univoca a tali questioni, che interpellano in primo luogo la coscienza e non sono direttamente fruibili o registrabili in sede storica.
La concezione di Dio in Mussolini
Mussolini non parlava volentieri di questioni attinenti alla religione e alla fede e, quando lo fece con giornalisti o in comizi improvvisati, subito dopo intervenne per correggere il tiro e rettificare quanto detto, o per non incrinare il fragile equilibrio raggiunto con l’autorità ecclesiastica (cioè quando le sue parole suonavano come offensive dei princìpi della dottrina cattolica o della persona del Papa); oppure per non scontentare i numerosi anticlericali presenti nel suo partito (quando le sue parole, per motivi politici, sembravano troppo benevole o arrendevoli nei confronti della Chiesa). In ogni caso, spigolando nell’abbondante letteratura biografica o memorialistica riguardante il Duce, nonché nei documenti di parte ecclesiastica disponibili, è possibile tracciare un sommario profilo del cosiddetto «Mussolini religioso».
Ricordiamo che fu egli stesso, nella lunga intervista che concesse a Emil Ludwig nel 1932, a parlare spontaneamente della sua concezione di Dio, della sua esperienza di fede, sebbene alcuni di questi passaggi siano stati da lui stesso eliminati al momento della pubblicazione dei «colloqui». Egli disse: «Voglio spiegarle la mia evoluzione. In gioventù io non credevo affatto. Avevo inutilmente invocato Dio, perché volesse salvare mia madre; eppure essa era morta. Inoltre ogni misticismo mi è estraneo […]. Ma io non escludo completamente […] che una volta, nel corso di milioni di anni, possa aver avuto luogo una soprannaturale apparizione, e che la natura sia quindi divina»[6].
«Trattando poi della sua particolare esperienza in ambito religioso, aggiunse: “Negli ultimi tempi si è rinsaldata [in me] la fede che vi possa essere una forza divina nell’universo”. L’intervistatore, colpito dalle inattese parole del Duce, chiese: “Cristiana?”. “Divina”, ripeté Mussolini quasi con impazienza, e aggiunse: “Gli uomini possono pregare Dio in molti modi. Si deve lasciare assolutamente a ciascuno il proprio modo”»[7].
Insomma, Mussolini non professò mai, in nessun momento della sua vita, la fede cattolica come la insegna la Chiesa. Basandosi sugli studi dello storico del cristianesimo Ernest Renan, egli riteneva che la Sacra Scrittura fosse sostanzialmente una leggenda edificante e che i dogmi cristiani fossero creazioni dell’intelletto religioso, in ogni caso utili per rafforzare la vita morale delle persone ed elevare lo spirito dei popoli, ma in se stessi privi di valore oggettivo.
Secondo Amedeo Giannini – con il quale il Duce negli anni precedenti la Conciliazione si era più volte confidato –, egli sentiva intensamente la forza morale del cattolicesimo «e la impossibilità di mettersi contro corrente, ma, per suo conto, non era mai andato al di là di un vago teismo, come negazione di ateismo, più che forza viva e operante di fede»[8]. A nostro avviso, questa interpretazione legge correttamente l’esperienza che Mussolini fece della religione e di Dio.
Nella pubblicistica clerico-fascista di quegli anni si parlò spesso di Mussolini come di un uomo religioso, rispettoso dei diritti della Chiesa e della tradizione cattolica. Da parte di alcuni esponenti del clero (e perfino dell’alta gerarchia) ci fu poi il maldestro e ambiguo tentativo di «cattolicizzare» il mito del Duce del fascismo, definendolo come «novello Costantino», chiamato a risollevare in Italia le sorti della religione. Tentativo che, però, fu sempre tenuto a freno dalla Curia romana e osteggiato in tutti i modi da Pio XI.
Il vescovo di Trieste, mons. Antonio Santin, in una relazione alla Segreteria di Stato, descrisse la visita di Mussolini alla basilica di San Giusto come quella di un devoto, esprimendo (nonostante il conflitto a quel tempo esistente tra governo fascista e Santa Sede, a motivo dell’indirizzo filorazzista assunto dal regime) la sua benevolenza e ammirazione nei confronti del Duce del fascismo: «Ritengo mio dovere – scriveva il prelato – comunicare a Vostra Eminenza quanto segue. S. E. il capo del Governo venne a visitare la basilica di San Giusto, dove lo attesi assieme al Capitolo. Lo condussi col suo seguito all’Altare maggiore, dov’era custodito il Santissimo Sacramento e dov’era preparato un inginocchiatoio per lui. Si inginocchiò, si fece il segno della croce e pregò a lungo con profonda edificazione di tutti. Poi gli offrii una statuina di San Giusto, che egli gradì, e lo condussi ad una navata bisognosa di restauro. Saputo che con 100.000 lire si potevano compiere le opere principali, elargì generosamente su due piedi tale somma»[9].
In Vaticano, questi atti di devozione del Capo del Governo, di cui si conoscevano bene le idee e i sentimenti in materia religiosa[10], venivano guardati con sospetto, e a volte si insistette presso i vescovi perché tenessero un atteggiamento riservato negli incontri con i capi del fascismo e con lo stesso Mussolini. Inoltre, in diverse circostanze la Santa Sede chiese agli Ordinari di partecipare con moderazione alle numerose manifestazioni organizzate dal regime: in particolare si proibì che queste fossero accompagnate, come a volte veniva chiesto, da celebrazioni o liturgie religiose, come benedizioni, Te Deum e suono di campane.
In ogni caso, Mussolini non amava manifestare in pubblico atteggiamenti di ossequio all’autorità religiosa, o in genere esternare atti di devozione religiosa. Quando dovette farlo per motivi familiari o di protocollo, impose che all’evento non fossero presenti giornalisti e, soprattutto, che non venissero scattate foto ritenute compromettenti. Di solito utilizzò le rare «manifestazioni di ossequio religioso» come mezzo di propaganda, allargandone o restringendone le esternazioni in base a motivi di convenienza politica o alla necessità di ottenere consenso.
Se a Trieste, città molto cara agli ex combattenti e ai nazionalisti, la «prosternazione» del Duce davanti all’altare maggiore poteva essere tollerata, a Roma lo stesso gesto avrebbe avuto un significato del tutto diverso e sarebbe stato politicamente più compromettente. Ne sono prova le rettifiche volute da Mussolini all’indomani della sua prima (e unica) visita ufficiale in Vaticano, l’11 febbraio 1932, quando alcune agenzie di stampa divulgarono la notizia che egli si era inginocchiato e aveva baciato la mano del Papa. «In genere – disse Mussolini poco tempo dopo, commentando la notizia – seguo le regole di un Paese quando sono ivi ospite. Qui mi sono fatto dispensare prima, espressamente, dal dovere di inginocchiarmi e dal bacio della mano»[11].
Ferito nel suo orgoglio personale, Mussolini si sentì in dovere di inviare al re non soltanto una relazione del suo incontro con Pio XI, ma anche un biglietto nel quale commentava, a modo suo, l’evento. «Il Papa – scriveva –, salvo il primissimo tempo dell’incontro, nel quale bisognava rompere alquanto il ghiaccio, in seguito è stato cordiale. I giornali hanno stampato, nelle prime edizioni, alcune invenzioni dovute alla loro fantasia protocollare: e cioè inginocchiamenti e baciamani che non ci furono. E altrettanto dicasi delle frasi celebri».
Insomma, avere il Papa – che era il capo spirituale, come il Duce disse più volte, di 400 milioni di «cattolici romani», sparsi in ogni parte del mondo – come alleato politico era un conto, averlo come padre e guida spirituale un altro; e Mussolini questo non lo voleva affatto.
Mussolini e la pratica religiosa
Arrivato al potere, Mussolini fece della religione cattolica uno dei pilastri fondamentali del suo ambizioso progetto di costituzione dello Stato fascista, moltiplicando, con il passare degli anni, i segnali di attenzione e di riguardo nei confronti del Vaticano e della gerarchia cattolica. Messi al bando i «nemici comuni» della Chiesa e del fascismo, cioè il socialismo ateo e rivoluzionario e la massoneria anticlericale e antipapale, egli riconobbe ai princìpi della morale cattolica – soprattutto riguardo alla famiglia e alla moralità pubblica – il compito di forgiare la coscienza degli italiani, assicurando così al magistero ecclesiastico un ruolo guida nella vita nazionale (naturalmente limitato al solo ambito spirituale e morale) e garantendogli anche la protezione della legge.
Ora, questa «strategia sincretistica di convivenza»[12] non fu sempre facile, anzi spesso diede luogo a conflitti e incomprensioni – soprattutto nella delicata materia della formazione dei giovani e sul ruolo dell’Azione Cattolica – che misero a dura prova quel tacito accordo, che divenne effettivo, o meglio normativo, soltanto con la stipulazione del Concordato Lateranense. Ma neppure questo, come dimostrerà la querelle sull’Azione Cattolica dell’estate del 1931, mise le due autorità al riparo da inevitabili attriti, incomprensioni e presunti sconfinamenti di competenza.
In ogni caso, Mussolini già nei primi anni di governo cercò di adeguare al «nuovo corso di rigenerazione morale dell’Italia» la sua ingarbugliata situazione familiare: discretamente e senza fare troppa pubblicità, volle che ogni cosa venisse fatta secondo i princìpi e la prassi cattolica. Nel 1923 chiese che sua moglie Rachele e i suoi tre figli venissero battezzati. Nel settembre del 1924 – dopo una sommaria preparazione religiosa, impartita loro nell’estate precedente nel segreto dell’eremo di Camaldoli – fu loro amministrata la prima Comunione e la Cresima dal card. Vincenzo Vannutelli (amico della famiglia Mussolini). «Mi reco a dovere – scrisse il cardinale, informando la Santa Sede dell’accaduto – di partecipare all’Eminenza Vostra Rev.ma, perché possa riferire al Santo Padre, le circostanze che hanno determinato ed accompagnato la prima comunione dei figli del presidente Mussolini – Edda di anni 12, Vittorio di anni 8, Bruno di anni 6 –, tutti e tre di svegliato ingegno, specialmente il terzo, benché più piccolo»[13].
Trattando poi del modo in cui si era svolta la funzione e lodando il comportamento di Donna Rachele, che fu «in tutto corretta e rispettosissima», il cardinale aggiunse: «Il padrino dei due giovinetti e la madrina per la loro sorella furono due persone intime della famiglia stessa, di retto pensare, ma fuori delle lotte politiche. Come era negli accordi, né giornalisti, né altri politicanti furono ammessi a presenziare nessuna delle due funzioni: ond’è che i giornali o non ne parleranno affatto, o potranno appena far cenno del fatto compiuto, il che non potrà essere pel pubblico che di edificazione. Tutto sembra permettere che, nelle circostanze presenti, questo fatto venga riguardato come di buon augurio, non solo per la famiglia di Mussolini, ma anche per le cose pubbliche. Nel prendervi parte, non senza una qualche soddisfazione, confesso di aver anche pensato e al bene religioso e sociale che può risultarne ed alla speranza di non far cosa difforme ai propri doveri ed alle viste del Santo Padre»[14].
In realtà, Pio XI non era molto soddisfatto dell’andamento delle cose: fece dire al cardinale che avrebbe desiderato che la Santa Sede venisse informata preventivamente del fatto (anche per la sua rilevanza politica), e non soltanto a cose già avvenute.
Il 19 dicembre 1925 fu celebrato tra Mussolini e Donna Rachele il rito del matrimonio religioso. La coppia si era sposata civilmente il 16 dicembre 1915 a Treviglio, nell’ospedale dove Mussolini, richiamato alle armi, era stato ricoverato per un attacco di paratifo. A quel tempo Rachele aveva voluto la legalizzazione civile dell’unione, anche in seguito alla vicenda di Ida Dalser, una giovane trentina con cui Mussolini aveva avuto una breve relazione e che, nel novembre 1915, gli aveva dato un figlio, Benito Albino, da lui riconosciuto, ma mai ammesso a far parte della famiglia Mussolini[15], anzi, negli anni successivi, dopo diverse peripezie, internato in un ospedale psichiatrico.
La funzione religiosa fu celebrata in forma strettamente privata a Milano, dove la famiglia Mussolini viveva. A differenza delle altre celebrazioni religiose, questa fu in qualche modo voluta e pilotata dalla Santa Sede, che incaricò il padre Pietro Tacchi Venturi di convincere, discretamente, Mussolini a compiere quel passo. Una lettera del fiduciario vaticano al Capo del Governo del 18 settembre 1925 ci dice quanta importanza la Santa Sede attribuisse a tale fatto, che, seppure privato, aveva una rilevanza pubblica e simbolica molto grande. «Nell’udienza che V. E. si compiacque di accordarmi lo scorso luglio – scriveva il padre Tacchi Venturi – molto mi rallegrò l’apprendere da Lei come avesse determinato di celebrare il matrimonio religioso in questo corrente mese e che già avevane parlato alla consorte. Ora non perché dubiti in verun modo del suo buon volere, ma poiché non ignoro che il cumulo delle cure onde altri è oppresso, non lascia sovente recare ad effetto i più caldi proponimenti, mi fo ardito di rappresentare confidenzialmente, e tutto da me, che se la cosa, come spero, avverrà dentro di questo mese o ai primi del seguente, riuscirà di particolare consolazione al Santo Padre e a non pochi eminenti personaggi sinceramente affezionati alla persona di Vostra Eccellenza»[16].
Non fu difficile al gesuita riuscire in quella delicata missione, perché già da tempo Mussolini si era orientato in tal senso, coerente del resto con il nuovo indirizzo «moralizzatore» assunto dal regime, nonostante la vita disordinata – o meglio, da libertino (sono gli anni della sua relazione con Margherita Sarfatti) – che conduceva a Roma[17]. Era ormai giunto il momento di regolare il conto tenuto in sospeso con la Chiesa, ma, per non dare ai suoi nemici occasione di ricatto politico, desiderava che la celebrazione religiosa avvenisse nel più stretto riserbo.
Del resto, anche Donna Rachele spingeva in questa direzione, convinta che il vincolo sacramentale avrebbe reso più saldo il loro rapporto (nonostante le ripetute infedeltà del marito), e avrebbe attribuito a lei, nel nuovo ruolo di sposa e di madre, quella rilevanza pubblica che fino a quel momento non aveva avuto.
Mussolini, dal canto suo, fece il possibile per dissuadere sua moglie dal trasferirsi a Roma con tutta la famiglia. Per il momento egli non intendeva rinunciare allo stile di vita libero che aveva condotto negli ultimi anni e soprattutto alle numerose amanti che, nel privato del suo lussuoso appartamento di via Rasella, incontrava. Soltanto nel novembre del 1929, dopo la nascita della figlia Anna Maria, egli permise, per motivi di opportunità politica, che anche la famiglia lo raggiungesse a Roma. In questa occasione prese in affitto, per un prezzo simbolico, villa Torlonia, che divenne la sede del «clan» Mussolini[18].
Donna Rachele, come è noto, era persona molto semplice; aveva frequentato soltanto la seconda elementare (in quella circostanza incontrò per la prima volta Benito) e aveva imparato a «mettere la firma» soltanto in età adulta. Era però intelligente, acuta e, come ricordano i suoi biografi, aveva la capacità di «pesare bene le persone» che attorniavano il marito, mettendone spesso a nudo le ambizioni e i piani segreti.
L’immagine ufficiale di Donna Rachele accreditata dal regime – quando si trattò si guadagnare consensi nelle fasce medio-basse della popolazione – fu quella di una donna umile, pratica, interamente dedita alla famiglia e all’educazione della numerosa prole. Incarnando le virtù rurali esaltate negli anni Trenta dal fascismo, «Rachele rappresentava qualcosa come lo “strapaese”, di contro le tentazioni moderniste»[19]. Corrispondeva, insomma, alla moglie ideale del nuovo uomo fascista: devota, affidabile, sottomessa in tutto al marito e non animata da smanie di protagonismo. In realtà, come risulta dalla memorialistica del tempo, Donna Rachele, pur rimanendo nell’ombra, ebbe un influsso notevole sulle decisioni politiche del marito, soprattutto quando si trattava di nomine importanti. Anch’ella, a quanto pare, ebbe una sua piccola corte di fidatissimi, che, dietro concessioni e favori di vario tipo, la tenevano al corrente di tutto, salvo naturalmente delle scappatelle del Duce e, soprattutto, della sua relazione con la Petacci.
Mussolini il moralizzatore
Nonostante i suoi costumi piuttosto liberi, Mussolini, soprattutto negli anni successivi alla Conciliazione, si impegnò in un campagna di «bonifica morale» del Paese. In questo egli fu anche spronato dalle continue lamentele dell’autorità ecclesiastica sull’immoralità degli spettacoli rappresentati anche nella Capitale, che era pure la città del Papa e il fulcro del cattolicesimo mondiale. «In non pochi cinematografi di Roma – scriveva p. Tacchi Venturi – tra l’uno atto e l’altro della rappresentazione, compaiono sulla scena ragazze danzanti con l’abbigliamento della loro madre Eva avanti la colpa, salvo una sottile benda o fascia alle parti, incentivo piuttosto che schermo alle impure brame della concupiscenza»[20].
Le richieste vaticane in questa materia di solito venivano accolte dal Duce, in quanto coincidevano con il proprio punto di vista in materia. Egli accettava di buon grado che la Chiesa si facesse guardiana dell’ordine morale nazionale: riteneva tale ambito di esclusiva competenza della Chiesa e non ne rivendicava il controllo. Dopotutto, il compromesso con l’«altra Roma» aveva come scopo quello di amalgamare il corpo sociale, e chi meglio della Chiesa poteva svolgere tale delicato compito? Chi meglio di essa era capace di formare la coscienza degli italiani sotto il profilo etico e morale, valorizzando le tradizioni e i costumi dei padri?
Nonostante facesse sfoggio di modernità e di apertura alle novità, Mussolini aveva sulla questione femminile idee non proprio emancipate, anche se a quel tempo erano condivise dalla maggior parte dei fascisti. Al nunzio, mons. Francesco Borgongini Duca, che protestava per il Concorso internazionale di ginnastica femminile che si sarebbe tenuto a Venezia nel maggio del 1931 e dove giovani donne si sarebbero offerte agli «sguardi impudichi degli spettatori», egli rispose che tale questione non era di competenza del Governo e che in materia di educazione femminile egli era personalmente il più «ostico possibile», «anzi a tale proposito – riferì il Nunzio con qualche imbarazzo – aggiunse: “La donna serve per due cose, per fare figli e ricevere bastonate”. Ed aggiunse sorridendo: “La donna è come la pelliccia: ogni tanto bisogna spolverarla»[21].
Sebbene in alcuni ambiti, come si è detto, esistesse una mutua collaborazione e intesa tra Chiesa cattolica e regime, ciò non significava che Mussolini si fosse avvicinato alla fede. Egli, pur avendo abbandonato l’anticlericalismo battagliero e scomposto della sua giovinezza, conservò nei confronti dei princìpi del cristianesimo lo stesso scetticismo di prima e l’indifferenza di colui che intenzionalmente strumentalizza la religione per motivi di ordine politico o per guadagnare consenso presso il popolo. L’ateismo istintivo di Mussolini era però misto a elementi di superstizione; dopotutto, affermò più volte che «pregare, se non aiuta, certamente non nuoce». In questo egli non si differenziava da molti italiani del suo tempo[22]. Dalle relazioni del Nunzio apostolico risulta che, nei momenti di difficoltà e di malattia, il Duce chiedeva preghiere per sé e per i suoi cari. Durante una crisi, egli disse a mons. Borgongini Duca «di avere bisogno di pregare Dio per lui». Il Nunzio gli replicò: «Preghiamo sempre per lei, e molte persone pregano per la sua conservazione». A tali parole egli rispose in tono semiserio: «Sarà fino a che Dio vorrà; ma seguitate a pregare, perché ho avuto l’impressione in quei giorni di malattia che voi non preghiate più»[23]. Nelle fonti di parte ecclesiastica, affermazioni e richieste di questo tipo da parte del Duce non sono inconsuete; egli si commuoveva sinceramente quando il Nunzio gli comunicava che il Papa aveva pregato per la sua salute, e in particolare per i suoi figli.
Alcuni sostengono che negli ultimi anni di vita e nel periodo delle avversità egli avesse maturato una propria esperienza personale di fede[24]. A questo fa riferimento sua moglie in un’intervista del 1946: «Mi hanno detto, non so se è vero – disse Donna Rachele – che c’è chi ha scritto in un libro che mio marito bestemmiava. Io non gli ho mai sentito dire una brutta parola. Lui in Dio ci credeva, e me l’ha detto nell’ultima lettera»[25].
Non è facile credere alle parole di Donna Rachele. In ogni caso, Mussolini non mostrò mai alcun interesse a problematiche di carattere religioso o spirituale, né sentì mai attrazione, come egli stesso disse, per alcuna forma di misticismo; per lui la religione era semplicemente un fatto politico, o al limite un fatto antropologico-culturale, legato alle caratteristiche di un popolo o, come pensavano gli idealisti, a una fase dello sviluppo della coscienza critica. Egli di fatto, sul piano personale, visse come se Dio non esistesse, anche se, come gran parte degli scettici, più di una volta si sarà chiesto se quel Dio, mai adorato o invocato, avrebbe potuto anche esistere.
***
MUSSOLINI, DEVOUT ATHEIST
The controversial figure of Benito Mussolini has recently re-emerged from the mists of history. Historians, and also certain important writers, have set themselves the task of dealing with him. This year the Strega Prize was won by Antonio Scurati with his novel that deals with the political history of “Il Duce” -from 1919 to early 1925- and his personal story. The present interest in Mussolini is due to the historical moment we are presently experiencing, characterized by a shift to the right, and by those radicals who are inspired by the totalitarianism of the twentieth century. This article considers the predominantly ambiguous and opportunistic relationship that Mussolini had with religion and the Christian faith.
***
[1]. A. Scurati, M. Il figlio del secolo, Milano, Bompiani, 2019, 2a di copertina.
[2]. Cfr ivi.
[3]. Cfr A. Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010.
[4]. Cfr E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma – Bari, Laterza, 2009; Id., Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi, Milano, Feltrinelli, 2010.
[5]. Sulla letteratura in materia, cfr G. Sale, La Chiesa di Mussolini. I rapporti tra fascismo e religione, Milano, Rizzoli, 2011.
[6]. Ivi, 25.
[7]. Ivi.
[8]. A. Giannini, Il cammino della Conciliazione, Milano, Vita e Pensiero, 1946, 42.
[9] . Citato in G. Sale, Le leggi razziali in Italia e il Vaticano, Milano, Jaca Book, 2009, 209. La visita di Mussolini avvenne il 19 settembre 1938.
[10]. In una lettera del 20 agosto 1929, indirizzata a mons. Tardini, p. Enrico Rosa, direttore della Civiltà Cattolica, riportando una sua conversazione con l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, diceva: «A scusa delle mie osservazioni, il conte De Vecchi confessò che il Duce non aveva ancora la fede, sebbene egli sperava che l’avrebbe riacquistata; ed io conclusi che, se egli non credeva a niente come Napoleone, non doveva imitarlo, seguendo la corrente che è pure tra i fascisti contro la Monarchia e la Chiesa» (Archivio Segreto Vaticano – Affari Ecclesiastici Straordinari [Asv-Aes], Italia, 730, 237, 98).
[11]. Citato in G. Sale, La Chiesa di Mussolini. I rapporti tra fascismo e religione, cit., 27.
[12]. E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, cit., 121.
[13]. Asv-Aes, Italia, 630, 62, 18. Continuava il cardinale: «Venuto poi nel Casentino a visitare la Consorte lo stesso Presidente, questi, che dopo aver fatto visita all’eremo di Camaldoli, si recò gentilmente a far visita anche a me in questa casa camaldolese detta “Musolea”, mi pregò di voler amministrare la Santa Cresima ai suoi tre figlioli, dopoché il Rev.mo p. Maggioni li avesse ammessi per la prima volta alla Santa Comunione» (ivi).
[14]. Ivi.
[15]. Cfr L. Motti, «Rachele Mussolini», in Dizionario del fascismo, vol. II, Torino, Einaudi, 2003, 198; A. Pensotti, Rachele e Benito, Milano, Mondadori, 1993, 45.
[16]. Citato in G. Sale, La Chiesa di Mussolini. I rapporti tra fascismo e religione, cit., 30.
[17]. Sul rapporto tra Mussolini e le donne, cfr M. Franzinelli, Il Duce e le donne, Milano, Mondadori, 2013.
[18]. Cfr P. Milza, Mussolini, Roma, Carocci, 2000, 438.
[19]. L. Motti, «Rachele Mussolini», in Dizionario del fascismo, cit., 199.
[20]. Ivi, 642.
[21]. Asv – Aes, Italia, 794, 389, 40. La relazione del Nunzio è del 14 febbraio 1931.
[22]. Cfr R. J. B. Bosworth, Mussolini. Un dittatore italiano, Milano, Mondadori, 2009, 262.
[23]. Asv – Aes, Italia, 794, 389, 43. La relazione del Nunzio in Italia è del 20 gennaio 1931.
[24]. Cfr E. Innocenti, La conversione religiosa di Mussolini, Roma, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, 1981.
[25]. B. D’Agostini, Colloqui con Rachele Mussolini, Roma, Edizioni del Secolo, 1946, 26.