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Diceva il saggio Qohelet: «Non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: “Ecco questa è una novità”? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto» (Qo 1,9-10). Tutti noi però fatalmente dimentichiamo ciò che è capitato tempo fa, e quindi certi fenomeni ci appaiono inconsueti, eccezionali, senza paragoni; nella loro presunta anomalia essi sono di conseguenza fonte di angosciosa preoccupazione. Fra questi eventi sorprendenti e inquietanti possiamo includere quello delle ondate migratorie che dall’Africa, dal Vicino Oriente e dall’Europa orientale si riversano in questi anni, come una inarrestabile marea, verso territori di speranza, verso quella che consideriamo la «nostra» terra.
Ora, a ben vedere, non c’è quasi regione o nazione che nella sua storia non abbia visto giungere, talvolta da molto lontano, carovane o interi gruppi etnici con l’intento di insediarsi in terre straniere, ritenute oasi favorevoli. La «nostra» Europa, in particolare, è il risultato del processo millenario di invasioni, trasferimenti di popolazioni e mescolanze; a sua volta, ha prodotto ingenti flussi migratori verso altri continenti, nelle Americhe e in Australia in particolare, ma anche in Africa e parzialmente anche in Asia. Chi partiva era convinto di onorare il diritto di ogni persona alla sopravvivenza e al benessere, e in certi casi si vantava di contribuire con il suo lavoro e la sua cultura al progresso civile dell’umanità. È necessario dunque tenere in considerazione la storia anche remota con il suo apporto sapienziale per interpretare correttamente la particolarità, giudicata drammatica, del momento presente.
L’oblio del passato è un fattore di insipienza. Ce lo dice la Scrittura, fin dall’inizio della storia d’Israele. La famiglia di Giacobbe, composta da una settantina di persone (Dt 10,22), per sfuggire a una perdurante carestia si era trasferita in terra d’Egitto; lì aveva trovato prosperità, promovendo peraltro la ricchezza economica del paese ospitante (Gen 46,31-34; 47,1-10). Ma «sorse in Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe» (Es 1,8). Con il passare degli anni si perse la memoria di quell’immigrato che aveva arricchito tutti con la sua speciale sapienza. Dalla dimenticanza scaturiscono sentimenti impropri e azioni vergognose.
Gli egiziani percepiscono la presenza vitale degli ebrei come una minaccia; chi aveva ricevuto lo statuto sacro dell’ospite (hospes) si trasforma in nemico (hostis). Il timore di essere sopraffatti ha una qualche giustificazione, a causa del numero crescente di coloro che continuano a essere definiti stranieri e perciò pericolosi; quando però è senza controllo, la paura diventa cattiva consigliera. Poiché l’autorità politica considera sempre che sia saggio e doveroso usare ogni mezzo per tutelare l’interesse primario dei cittadini, il faraone suggerisce di «prendere dei provvedimenti sapienziali» che impediscano il proliferare del presunto avversario (Es 1,10).
Sappiamo che, nella storia degli ebrei, un tale indirizzo operativo prese la forma di norme che imponevano agli immigrati condizioni crescenti di servitù, con maltrattamenti e umiliazioni, fino all’eliminazione fisica della vita nascente (Es 1,11-22). Il fiume d’Egitto diventò allora la tomba dei neonati degli ebrei, come il Mediterraneo è oggi «diventato un immenso cimitero»[1] per migliaia di profughi, fra cui tanti bambini[2].
La Bibbia è veicolo di memoria: con i suoi racconti ci fa ricordare come processi di immotivata paura determinino atti che si presentano ufficialmente come necessarie misure di tutela dei cittadini, ma che in realtà sono disposizioni insensate e disumane. L’apporto della parola di Dio è sommamente prezioso, perché ci chiede di identificarci spiritualmente con il popolo ebraico, schierandoci dunque dalla parte dei senza terra; ogni lettore della Scrittura è infatti invitato a dire: «Mio padre era un arameo errante e divenne un emigrato in terra d’Egitto» (Dt 26,5).
La Bibbia ci chiede di fare memoria, assumendo spiritualmente lo statuto dell’immigrato, perché in esso si consegna un mistero di grazia e una via di sapiente giustizia. Vediamo di mostrarlo lasciandoci guidare dalle pagine bibliche.
La nostra origine come migranti
Israele racconta la sua storia di popolo «diverso». Non lo fa per vantarsi, dato che sa di essere piccolo e peccatore (Dt 7,7; 9,6). Non intende semplicemente rivendicare il suo diritto a esistere, e nemmeno solo promulgare idealmente la necessità morale di rispettare tutte le minoranze in quanto portatrici di valori unici. Israele narra la sua storia di popolo speciale per testimoniare la verità rivelatagli dal suo Dio, per far conoscere a tutti come il bene scaturisca dall’accoglienza del diverso, dello straniero, dell’altro che non mi assomiglia, non parla la mia lingua, non pratica i miei costumi, non venera la mia divinità.
Alla visione statica di Gen 10, dove ogni gruppo etnico è confinato nel suo proprio territorio, la Bibbia sovrappone una prospettiva dinamica e relazionale, perché è questa l’autentica via della concordia universale. E in opposizione radicale all’immagine imperialista di Babele — smentita nel suo progetto unificatore dal suo clamoroso insuccesso (Gen 11) — viene presentata la figura di Abramo che attraversa le frontiere, per fare della sua diversità il fermento di una benedizione universale.
Abramo è messo in movimento dal Signore, che gli dice: «Va’ dalla tua patria […] alla terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). È vero che la migrazione era iniziata con suo padre Terach (Gen 11,31), ma questo processo diventa «vocazione» solo quando viene assunto personalmente dal padre nella fede come una decisione di bene. Va notato che Abramo non lascia la Mesopotamia per ristrettezze economiche: viene infatti segnalato che era ricco in bestiame e oro (Gen 13,2). Nemmeno risulta che egli subisse vessazioni o minacce nel paese di origine; non è quindi un profugo che fugge da zone di guerra. E non abbandona la sua patria per allontanarsi dall’idolatria, dato che la terra verso cui è indirizzato è abitata dai cananei (Gen 12,6), seguaci di divinità che non erano quel Signore a cui egli obbediva.
Abramo è così presentato come la figura esemplare del puro migrante, nella quale tutti i migranti possono riconoscersi al di là delle loro specifiche motivazioni; ed è figura non di miseria, ma di elezione e di benedizione, così che tutti siano spinti ad accoglierlo: «Renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). Il destino del mondo, secondo la Bibbia, dipende dalla figura di questo migrante, Abramo, che accetta di rinunciare al titolo di cittadino, che acconsente a rischiare la vita assumendo lo statuto dell’immigrato. Con lui il Signore fa alleanza (Gen 15,7-20; 17,1-8); con lui anzi il Signore in certo modo si identifica, così da portare, per suo mezzo, vita alla moltitudine delle genti.
I patriarchi vengono descritti come pastori alla costante ricerca di pascoli, soggetti quindi a ripetute transumanze. Non sono però dei «nomadi», ma dei forestieri che si stabiliscono, dove e come possono, in un paese straniero (Canaan, Aram, Egitto) in qualità di immigrati. Così viene presentata l’origine di Israele, da Abramo, Isacco e Giacobbe fino ai loro discendenti, che per quattrocentotrent’anni dimorarono in Egitto (Es 12,40). Anzi, stando al libro del Levitico, anche quando il popolo di Dio prese possesso del paese di Canaan venne chiamato dal Signore a concepirsi come «ospite» in una terra che Dio rivendicava come sua proprietà: gli Israeliti erano infatti presso di lui «immigrati e locatari» (Lv 25,23). Diceva perciò Davide, ripetendo una formula della tradizione orante di Israele (Sal 39,13; 119,19): «Noi siamo immigrati davanti a te e locatari come tutti i nostri padri» (1 Cr 29,15).
Chiunque riceve il patrimonio spirituale di Israele, chiunque innesta la sua esistenza sul tronco di questa tradizione di fede (Rm 11,17) diventa, per vocazione, un immigrato che si offre, in totale mitezza, all’accoglienza altrui. Si presenta come straniero bussando a una porta, domanda uno spazio in una terra dove altri già risiedono, chiede senza pretendere, attende che il suo ospite manifesti umana compassione, lasciandogli un po’ di posto, accanto, o meglio, «in mezzo» ai cittadini. È Dio a suscitare questa figura. L’immigrato che prende dimora entro le porte della città, talvolta persino all’interno della casa dove presta servizio, è un inviato del Signore che reca a tutti la pace (Mt 10,5-15; Lc 10,1-12).
Probabilmente qualcuno dirà che nell’antichità tutto questo risultava facile, perché l’ospitalità era una pratica consuetudinaria, riconosciuta universalmente come un dovere sacro, frutto anche di quella spontanea solidarietà che nasce quando tutti percepiscono i medesimi bisogni. La Bibbia tuttavia smentisce questa presunta condizione irenica riguardo al forestiero. Il racconto delle origini di Israele dice infatti che i patriarchi furono ripetutamente infastiditi: i re locali prendevano le loro donne (Gen 12,11-20; 26,1-14); i residenti si impossessavano dei pozzi, scacciando gli immigrati che li avevano scavati (Gen 21,25; 26,15-25); e chi entrava in una città, come quella di Sodoma, doveva subire l’oltraggio infamante della sottomissione violenta.
Sodoma e Gomorra sono l’emblema delle città cananee «maledette» proprio perché hanno esercitato il sopruso invece dell’ospitalità; ma il medesimo crimine venne perpetrato anche dai moabiti e dagli ammoniti (Dt 23,4-7), e pure dagli israeliti nei confronti di fratelli provenienti da un’altra tribù (Gdc 19,11-30). Una sofferenza ancora più acuta venne esperimentata dagli ebrei immigrati in Egitto (Sap 19,13-16), e dolorosa fu la condizione dei figli di Abramo nella diaspora dell’esilio (come è narrato nei libri di Daniele, di Ester e di Tobia). Questa storia, un tempo chiamata «storia sacra», ci viene affidata per ricordare il dramma delle innumerevoli migrazioni dei popoli, e per mettere davanti ai nostri occhi il vissuto doloroso di chi non è accolto.
Ogni epoca, fino alla fine dei giorni, sarà giudicata dalla sua reale capacità di ospitalità. Questa non è una pratica scontata o consolidata: è invece l’espressione di una personale coscienza etica, è il frutto di decisioni libere e coraggiose. La divina Scrittura aiuta ad assumerle, facendo maturare la consapevolezza che tutti noi siamo «come gli altri», stranieri e immigrati, e possiamo quindi capire e amare chi viene da noi. Conosciamo il precetto biblico: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lv 19,18; Mt 22,39), e forse non sappiamo che vi è pure il comando di amare il forestiero che desidera risiedere nella nostra terra: «Il Signore vostro Dio […] ama l’immigrato e gli dà pane e vestito. Amate dunque l’ immigrato, perché anche voi foste immigrati nel paese d’Egitto» (Dt 10,17-19).
L’amore dell’israelita credente per il forestiero è imitazione dei sentimenti di Dio, e deve perciò tradursi in gesti simili a quelli del Signore (Sal 146,9). Questa tematica è incisivamente espressa nel capitolo 19 del Levitico, qualche versetto dopo il passo che prescrive l’amore per il «figlio del tuo popolo» (Lv 19,18): «Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi: tu lo amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv 19,33-34). La distinzione tra cittadino e straniero non è abolita, ma fatta emergere per valorizzare la qualità dell’amore che rende l’altro simile a me, nell’atto stesso della benevola accoglienza.
Abramo è stato chiamato ad assumere emblematicamente la figura del forestiero per significare che Dio costantemente viene incontro agli uomini in questa veste. Abramo è l’immigrato che rappresenta il Signore che domanda di essere accolto per portare salvezza; se è rifiutato, si produce la desolazione e la morte. Il Nuovo Testamento proseguirà in questa linea: nel Vangelo di Matteo, in particolare, ci viene detto che Gesù si identifica con il forestiero, ospitato o respinto (Mt 25,35.43), e da questa alternativa scaturisce la benedizione (Mt 25,34) o la maledizione eterna (Mt 25,41).
D’altra parte, Abramo, proprio perché credente nel Signore, proprio perché ha acconsentito ad essere senza terra, ha maturato un cuore capace di accogliere il viandante che passava presso di lui. Mentre la città di Sodoma offende chi cerca rifugio (Gen 19,1-11), la tenda di Abramo si apre per ricevere, come un dono, la presenza di alcuni stranieri (Gen 18,1-8); questi misteriosi personaggi verranno visti come degli «angeli» (Gen 19,1; Eb 13,2), una rappresentazione cioè del divino che visita gli uomini, portando un’impensabile fecondità alla casa accogliente (Gen 18,9-14) e facendo scatenare la catastrofe sulla città inospitale (Gen 19,15-29).
Il cuore, dice dunque la Bibbia, produrrà gesti di compassione nella misura in cui custodisce la memoria della propria origine e della propria sofferenza. Chiunque, nel volto dolente e desideroso dell’immigrato, rivede l’immagine della propria storia, diventa fratello di ogni straniero. «Non opprimerai il forestiero: proprio voi conoscete l’animo del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 23,9). A partire da questa esperienza fondatrice, che ogni generazione deve far propria spiritualmente, si può dispiegare una concreta normativa atta a favorire lo straniero che, per varie ragioni, viene ad abitare, almeno per qualche tempo, nel paese altrui.
La sapienza amorosa di Dio prima ha fatto fare esperienza della migrazione, e poi ha predisposto nella Legge una serie di utili provvedimenti a favore dei forestieri. Questa normativa biblica è legata alle condizioni socio-economiche del tempo antico; tuttavia ancora oggi essa può suggerire prospettive e iniziative di doveroso rispetto per i migranti. Non basta infatti un’estemporanea manifestazione di simpatia: chi vuole essere fedele al messaggio biblico è chiamato a obbedire al comandamento, interpretando, in modo creativo, gli spunti offerti dalla raccolta legale di Israele, così da dare ad essa pieno «compimento» (Mt 5,17-19).
Le disposizioni a favore degli immigrati
Anche se l’antico Israele non si trovò confrontato con masse di immigrati paragonabili a quelle odierne, bisogna comunque notare che la problematica dei migranti risultò sempre difficile a causa della proporzione tra la scarsa popolazione residente e i gruppi anche consistenti di stranieri che, specie per ragioni di disagio economico, venivano a installarsi nelle città e nei villaggi degli ebrei. Non abbiamo ovviamente delle statistiche: possiamo solo immaginare la rilevanza della questione a partire dalla quantità e varietà dei precetti che la Legge di Israele ci ha consegnato riguardanti la cura per l’immigrato.
Ogni Codice[3] inculca l’esigenza di una massima disponibilità nei confronti dei forestieri, invitando a entrare nello spirito di accoglienza che i singoli precetti suggeriscono. Questo spirito di amore si concretizza in dispositivi che non prevedono sanzioni pubbliche per la loro inadempienza; Dio ne è il solo garante, perché è il solo a conoscere le condizioni di ogni israelita ed è il solo a poter riversare la sua benedizione su chi opera liberalmente secondo la sua volontà.
Raggruppiamo in tre rubriche principali i numerosi precetti che riguardano i forestieri; senza alcuna pretesa di esaustività nel trattamento, facciamo emergere le istanze di senso che i legislatori antichi intendevano favorire con le loro norme.
La condivisione in ambito economico
Nei codici dell’Antico Testamento l’immigrato viene sistematicamente incluso fra le categorie economicamente sfavorite; è posto quindi accanto alla vedova e all’orfano (che sono la figura di chi è privo di sostentamento e di tutela), ed è associato al levita (il funzionario del culto che, non possedendo terreni, viveva del sussidio fornito dai fedeli) (Dt 16,11.14; 24,11-14; 26,12 ecc.). Inserendo il forestiero nella lista degli indigenti, fra i quali vi sono chiaramente membri del popolo ebraico, il legislatore mette sullo stesso piano tutti i miseri, considerandoli portatori di un medesimo diritto soggettivo: lo straniero, in quanto bisognoso, è come uno di casa, il forestiero per origine o costumi è da considerare come tuo fratello perché è povero.
È significativo rilevare che la legge di Israele non raccomanda l’elemosina — pratica, questa, tradizionale nel mondo antico e usanza non assente dal costume ebraico e cristiano (cfr Sal 112,9; Sir 3,30; 29,12; Tb 12,9; Mt 6,1-4; Rm 15,26; 1 Cor 16,1-5; 1 Pt 4,8) —. Di fronte a un’urgenza è ovvio che ci si aspetti il gesto immediato del soccorso (Pr 3,28); tuttavia la Tôrah chiede che la compassione verso la povera gente prenda forme meno occasionali, e soprattutto salvaguardi la dignità di colui che si trova nel bisogno.
La Scrittura invita allora innanzitutto a provvedere alla difficoltà dell’indigente mediante l’istituto del prestito. Ciò può apparire meno perfetto dell’elargizione a fondo perduto. Tuttavia facciamo notare che in Israele anche il prestito è un atto gratuito, perché il creditore rischia il proprio avere senza ricavarne profitto, dato che rinuncia alla pretesa di interessi, equiparati di fatto all’usura (Es 22,24; Lv 25,35-38; Dt 23,20-21; Ez 18,8.13.17; 22,12; Pr 28,8). Inoltre, mediante il prestito si «fa credito» al prossimo della sua capacità e volontà di restituire; lo si tratta così da persona responsabile, stimandolo capace di saggezza, laboriosità e onestà, e in grado quindi di mettere a frutto il dono ricevuto. Infine, mediante il prestito si rende più completo il ciclo del dono, perché anche il povero, che ha ricevuto il prestito, potrà, con il favore divino, essere un giorno in grado di restituire quello che ha ricevuto, riconoscendo, nell’atto stesso del rendere, il beneficio di cui è stato oggetto.
Se — continua la Legge — è lecito esigere dal debitore un «pegno» quale garanzia della restituzione del prestito, il creditore deve comunque avere rispetto per l’indigente: non è ammesso che si entri nella casa del povero, quasi si effettuasse un sequestro, ma si dovrà aspettare la consegna fuori della porta (Dt 24,10-11). Il mantello dato come caparra (segno di ristrettezza estrema) deve essere restituito al tramonto del sole, perché è la coperta dei poveri (Es 22,25-26; Dt 24,12-13); e non è consentito di pignorare le pietre della macina domestica, perché «sarebbe come prendere in pegno la vita» (Dt 24,6).
Alla generosità nel prestare, a cui la Legge esorta (Dt 15,10-11), si aggiunge poi la generosità nel condonare il debito. L’insolvibilità costringeva non raramente un uomo all’asservimento suo o dei suoi figli; il riprodursi di questa dolorosa esperienza ha indotto il legislatore a introdurre una norma che prevede periodicamente la remissione di ogni debito: ogni sette anni, il creditore lascerà cadere il suo diritto (Dt 15,1-3), così che la povertà sia sradicata e la benedizione di Dio raggiunga tutti (Dt 15,4-6).
Altre disposizioni della Tôrah chiedono di mettere una parte delle proprie risorse economiche a disposizione dei poveri, e in particolare degli immigrati. I proventi dei campi sono, per l’antico Israele, la prima e più fondamentale forma di ricchezza, da interpretare come simbolo di tutto ciò che si «raccoglie» quale frutto del proprio lavoro e della benedizione divina. La Legge domanda che tali proventi non siano totalmente accaparrati dal proprietario dei terreni, ma che una parte venga lasciata, quasi fosse dimenticata, nel campo stesso, e quindi messa a disposizione dei miseri e degli immigrati.
Quando mieti, dice il precetto biblico, non preoccuparti di prendere tutto, e non tornare indietro a spigolare; la stessa cosa va fatta anche per la raccolta delle olive e per la vendemmia (Dt 24,19-22; Lv 19,9-10; 23,22). Si tratta, per chi sa leggere e interpretare, di una norma di straordinario valore simbolico. Presa alla lettera, la prescrizione può sembrare meschina e offensiva per il povero (quasi fosse un animale a cui sono lasciati i resti del pasto del ricco), ma, correttamente interpretata, significa che la benedizione che Dio ha accordato al possidente deve ricadere, senza degnazioni e con totale discrezione, anche sui poveri.
Il libro del Deuteronomio, il più sensibile allo statuto dell’immigrato, va oltre la disciplina della condivisione nel momento del raccolto: immagina che il proprietario abbia adesso in casa sua, nei suoi depositi, il frutto della terra e del suo lavoro; su questo bene, che è suo, il legislatore, a nome del Dio dei poveri, interviene per dischiudere successive piste di elargizione.
La legge delle primizie (Dt 26,1-11) dice che i primi proventi della terra devono essere messi in una cesta e portati dal sacerdote, così da essere distribuiti al levita e al forestiero (v. 11). Solo se si capisce il valore accordato alle primizie si può capire quanto sia importante e coraggiosa questa norma: si chiede infatti all’erede della promessa di donare allo straniero i migliori prodotti del proprio terreno, i quali tra l’altro, nel momento in cui sono raccolti e distribuiti, sono gli unici a disposizione, dato che una qualche disgrazia potrebbe distruggere il successivo raccolto. Il povero immigrato non è dunque colui che deve accontentarsi dei resti lasciati nei campi: egli viene «servito» con le prelibatezze che danno gioia e speranza agli stessi proprietari.
C’è poi la legge della decima, che è una sistematica decurtazione del reddito, dato che, di tutto ciò che si è ricavato, una parte significativa deve essere destinata ai poveri. Una decima speciale si raccoglie infatti ogni tre anni, ed è destinata al levita, al forestiero, all’orfano e alla vedova (Dt 14,28-29 e 26,12-13; cfr anche Tb 1,8).
Non sappiamo come concretamente funzionasse questo sistema di prelevamento dei beni e di ridistribuzione della ricchezza; in particolare, non sappiamo quanto l’esecuzione fosse obbligatoria e quindi esigibile dall’autorità competente. È certo però che l’ebreo ritiene «cosa sacra» ciò che appartiene ai poveri (Dt 26,13), e si riterrebbe gravemente colpevole se non obbedisse a questa legge divina. Le moderne regole di tassazione della ricchezza, in ordine ad apprestare i necessari servizi pubblici e sovvenire ai bisogni dei senza reddito, corrispondono all’intenzione del legislatore biblico. Resta comunque un ampio margine per la libera e coraggiosa iniziativa dei singoli operatori sociali, i quali, di fronte al grido dei poveri, sono chiamati a condividere il loro patrimonio secondo uno spirito di fiduciosa generosità.
Queste regole hanno una matrice religiosa, per le motivazioni che le ispirano e per il contesto in cui sono inserite; esse suppongono come accertata la fede in Dio e nella sua provvidenza. Il legislatore biblico aggiunge allora un collegamento esplicito tra il mondo religioso e il mondo della condivisione, facendoli convergere nel santuario, rendendo la celebrazione liturgica un’occasione propizia per favorire i poveri.
Il santuario, si sa, era il luogo dove i credenti antichi si radunavano per ringraziare Dio e supplicarlo; l’espressione concreta di questa preghiera avveniva mediante offerte e sacrifici, molti dei quali servivano per dar da mangiare ai sacerdoti e agli addetti al culto, ma anche ai tanti indigenti che frequentavano i luoghi sacri (Dt 12,12). Il tempio era così centro della celebrazione della vita, non solo in senso spirituale; infatti, specialmente in occasione delle grandi feste agricole, nello spazio sacro venivano distribuiti gratuitamente pane, carne, vino e bevande inebrianti. La gioia per la comunione con il Signore e per la sua benedizione veniva condivisa da tutta la comunità, con la presenza esplicita dell’immigrato (Dt 16,11.14): l’offerente, con la sua famiglia, si faceva così padre dei poveri, fratello dello straniero.
La tutela giuridica
I provvedimenti economici a favore del forestiero, particolarmente suggestivi, sono poi articolati, nella Legge biblica, in altre importanti normative che garantiscono il diritto dell’immigrato nei vari settori del suo vivere e nelle diverse esigenze della sua persona. In questo ambito l’immigrato è equiparato al cittadino: «Ci sarà per voi una sola legge per il forestiero e per l’indigeno» (Lv 24,22). Due sono i settori che, in particolare, meritano di essere precisati: 1) la normativa sul lavoro; 2) il diritto del forestiero nei tribunali.
- Abbiamo detto che l’immigrato appartiene alla classe dei poveri, perché non ha risorse stabili provenienti dal possesso di terreni; il lavoro artigianale più remunerativo, d’altra parte, non è certo lasciato ai forestieri. La Legge di Israele non dice nulla sull’offerta di lavoro per gli immigrati; probabilmente non vennero trovate modalità concrete per disciplinare tale settore. Ciò che viene protetto è la garanzia del salario, dato puntualmente: «Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra, nelle tue città. Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e a quello aspira. Così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato» (Dt 24,14-15).Da questa citazione traspare tutta la precarietà della vita dell’immigrato, e il rischio grave prodotto dalla mancanza di una giusta retribuzione. Facciamo notare, ancora una volta, come, su questo punto, fratello e straniero siano equiparati di fronte alla Legge, e siano per Dio oggetto di identica attenzione.
La Legge di Mosè tutela inoltre il riposo del lavoratore dipendente: la tradizione del sabato anche per l’immigrato è addirittura sancita nel Decalogo (Es 20,10 e Dt 5,14; cfr anche Es 23,12); nella formula «affinché si riposino come te» vediamo ribadita l’idea dell’uguaglianza tra padre e figlio, tra padrone e servo, tra autoctono e straniero, nel ricordo riconoscente del Dio Creatore di tutti e del Signore liberatore degli schiavi.
Certo, il rispetto che oggi si richiede per il lavoratore immigrato non può limitarsi a questi punti, ma lo spirito della Legge è quello di introdurre, là dove è possibile, il principio di uguaglianza e di fraternità, per evitare il grave peccato dell’oppressione del forestiero. - Un diritto, anche se riconosciuto dal costume, non è veramente tutelato, se non è assunto dall’istituzione giurisdizionale. Quindi, il diritto dell’immigrato a un giusto salario, al riposo settimanale, ma anche alla libertà di spostamento[4], all’autonoma iniziativa commerciale, al matrimonio e così via, fino alla difesa giuridica presso un tribunale, tutto questo è sostanzialmente assunto dalla Legge di Israele e ribadito a più riprese nei suoi codici.Il Deuteronomio, ancora una volta, è il libro che più esplicitamente sottolinea la questione del diritto dell’immigrato. Nel racconto dell’istituzione giudiziaria, Mosè prescrive ai giudici un’assoluta imparzialità ed equità nel giudicare: «Ascoltate le cause dei vostri fratelli e giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con il forestiero che sta presso di lui» (Dt 1,16).
Non si tutela quindi esclusivamente il cittadino, ma chiunque abbia ragione, poiché chi giudica ha il dovere di «dare ascolto al piccolo come al grande» senza temere nessuno, «poiché il giudizio appartiene a Dio» (Dt 1,17). Il Deuteronomio considera gravissima la «distorsione del diritto dell’immigrato», e su questo punto prevede addirittura un impegno giurato da parte di tutto Israele (Dt 27,19).
L’integrazione culturale
Persistono naturalmente numerosi elementi di differenza tra lo statuto dell’ebreo (fratello) e quello dell’immigrato (straniero); proprio per questa ragione la Legge prospetta delle norme che tendono a mitigare tale sperequazione, e introduce princìpi correttivi che favoriscono l’uguaglianza e la fraternità.
Colpisce, a tale proposito, il fatto che nella Tôrah non si parli degli immigrati come di una realtà «marginale», confinata in ghetti, ma di gente che abita in mezzo a Israele. Questa notazione serve per far capire che l’accoglienza raggiunge la sua perfezione quando riesce a integrare lo straniero, a incorporarlo, a renderlo parte di una medesima comunità. È da supporre che i forestieri in Israele cercassero di inserirsi nel paese mediante l’apprendimento della lingua, e accettando i costumi del popolo che li accoglieva. Già abbiamo visto che lo straniero partecipava alle feste del raccolto e al ciclo lavorativo settimanale, adattandosi ai ritmi della produzione e del riposo tipici di Israele.
Ci sembra chiaro tuttavia che l’immigrato, specie se trovava accoglienza generosa, tendeva a sposare i valori giuridici e religiosi del popolo ospite, non solo per una migliore intesa, ma anche perché vi riconosceva l’ideale morale a cui egli stesso aspirava, e perché veniva a «conoscere» un Dio a cui era bello potersi affidare. Non ci fu, durante la storia vetero-testamentaria, un movimento significativo di proselitismo; ma se Israele non cercava adepti, vi erano però coloro che, vivendo in mezzo agli ebrei, chiedevano di far parte di questo popolo in maniera più stretta, con vincoli di maggiore solidarietà. Si spiega così il fatto che il termine gēr, che per molto tempo ha significato solo «immigrato», assuma in testi tardivi il valore di «proselito», cioè di colui che non solo abita con Israele, ma che si assimila a lui religiosamente con l’accettazione della medesima Legge.
Di particolare valore è l’ammissione dell’immigrato alla celebrazione della Pasqua, a patto che sia circonciso (Es 12,47-49; Nm 9,14): si tratta di una possibilità, non di un obbligo, sulla base di una richiesta a cui Israele deve consentire senza rinchiudersi in un isolazionismo etnico. Non stupisce che l’immigrato voglia celebrare la festa della liberazione degli schiavi, che il Signore ha riscattato e a cui ha offerto una legge di libertà e di dignità. Non stupisce neppure che l’immigrato chieda la circoncisione, il «segno» di Abramo il migrante (Gen 17), mentre meraviglierà forse che l’ebreo accetti di donare allo straniero il segno della sua privilegiata alleanza e della sua speciale benedizione.
Celebrare la Pasqua assieme non è un atto staccato dal resto dell’esistenza; in questo gesto, infatti, viene significata una comune alleanza, una perdurante comunione di vita. Questo progressivo fenomeno di integrazione religiosa sembra trovare figura ideale in un testo tardivo del Deuteronomio che, elencando i componenti del popolo dell’alleanza nuova (quella che va «oltre» l’alleanza sinaitica: Dt 28,69), vi include anche il forestiero: «Oggi voi state tutti davanti al Signore vostro Dio, i vostri capi, le vostre tribù, i vostri anziani, i vostri scribi, tutti gli Israeliti, i vostri bambini, le vostre mogli, il forestiero che sta in mezzo al tuo accampamento, da chi ti spacca la legna a chi ti attinge l’acqua, per entrare nell’alleanza del Signore tuo Dio» (Dt 29,9-11; cfr anche 31,12).
L’idea espressa qui è che il vero Israele è quello che accoglie al suo interno il non-Israele per renderlo partecipe della relazione con il vero Dio, della saggezza della sua Legge e della benedizione che ne consegue.
In conclusione, l’ideale tracciato dalla Scrittura è offerto a tutti come una via di bene. Come il padre trasmette la legge ai figli perché vi sia concordia nella casa e giusto rispetto per ognuna delle diverse individualità, così, analogamente, l’ebreo trasmette la sua legge al forestiero come strumento di comunione, così che colui che è stato accolto e nobilitato diventi a sua volta mediatore di accogliente benevolenza.
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[1]. Cfr G. Sale, «I profughi in Europa e la “Via crucis” dell’accoglienza», in Civ. Catt. 2016 II 251.
[2]. Cfr «La tragedia dei bambini migranti», in Civ. Catt. 2016 II 314.
[3]. Nell’Antico Testamento abbiamo tre raccolte di leggi, che gli studiosi assegnano a diversi periodi della storia d’Israele. La più antica collezione si ritiene sia il Codice dell’alleanza (Es 20–23), seguito dal Codice deuteronomico (Dt 12–26) e da quello levitico (Lv 17–26), in epoca post-esilica. Ognuno di questi codici è caratterizzato da un modo proprio di formulare le norme e da una specifica organizzazione del materiale legale. Tutto ciò, da un lato, mostra come sia stata necessaria un’incessante attività legislativa per adattare e perfezionare la disciplina, e, d’altro lato, evidenzia come l’attenzione al povero immigrato costituisse uno dei principali doveri dell’israelita.
[4]. A questo proposito, possiamo ricordare che in Israele vigeva la norma, davvero insolita nel mondo antico, di accogliere anche lo schiavo fuggitivo, lasciandogli il diritto di scegliere in quale città risiedere (Dt 23,16-17).