
In occasione del decimo anniversario della morte del cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012), numerosi libri sono stati pubblicati e diversi interventi sono apparsi sulle pagine di riviste e giornali. Molteplici aspetti della biografia, del pensiero e della pastorale del cardinale sono stati rievocati ed esplorati.
Testi recenti approfondiscono il modo in cui Martini ha svolto il suo impegno a livello europeo o alcune esperienze del periodo in cui visse a Roma come docente (e rettore) nelle istituzioni pontificie affidate ai gesuiti (Istituto Biblico e Università Gregoriana).
Altre pubblicazioni prendono spunto dalle sue riflessioni, mostrandone la capacità di essere lievito per la cultura contemporanea e per la vita della Chiesa. Fra queste ultime spicca la riedizione del volume Il vescovo, con considerazioni e commenti del vescovo di Roma: papa Francesco ha aderito con entusiasmo alla proposta della casa editrice San Paolo e della Fondazione Martini di lasciarsi provocare dalle riflessioni del cardinale su un ministero caro a entrambi.
Inoltre, numerosi studi e ricerche sono in corso, fra cui alcune tesi di dottorato. Potremo così conoscere con più completezza e precisione il pensiero e la figura di Martini.
Ma proprio la molteplicità dei temi affrontati e delle iniziative avviate dal cardinale con originalità, saggezza e vastità di orizzonti solleva la domanda: è possibile individuare un centro generatore del suo pensare e operare?
Infatti, per un verso, la sua attività e i suoi interventi sono caratterizzati da un timbro unificante che spinge a cercarne l’anima ispiratrice; per altro verso, lascia sempre un po’ insoddisfatti il tentativo di elencare le tematiche o di incasellare le idee di Martini con criteri che non ne assecondano l’intrinseca dinamica. È questa domanda che ci proponiamo di esplorare nelle pagine che seguono.
Il connubio tra Bibbia e Ignazio di Loyola
Martini stesso ci suggerisce la direzione a cui volgere lo sguardo per cogliere quale sia il terreno in cui si radica il suo modo di procedere: la linea di intersezione tra Bibbia e spiritualità di Ignazio di Loyola. Riprendiamo le parole con cui egli descrive l’esperienza che – durante gli studi di filosofia, svoltisi all’Istituto Aloisianum di Gallarate (dove 65 anni dopo si sarebbe poi conclusa la sua vita terrena) – gli aprì la prospettiva di leggere la Bibbia attraverso il prisma della spiritualità ignaziana: «Verso i vent’anni presi in mano il libretto di sant’Ignazio intitolato Esercizi spirituali e cominciai a leggerlo parola per parola: mi rivedo ancora passeggiare nella pineta dell’Aloisianum di Gallarate, assaporando quel libretto e scoprendovi cose straordinarie: a poco a poco mi accorsi che sant’Ignazio fa fare la lettura della Bibbia, cercando di cogliere qualche chiave fondamentale partendo dalla centralità di Gesù e della croce. Così ho messo insieme questa esperienza spirituale degli Esercizi per me con quella della Scrittura»[1]. E ancora egli affermò del libretto ignaziano: «È una vera fonte di ispirazione, pur se non vi faccio riferimento esplicito, ma me ne nutro molto liberamente»[2].
Da questo connubio sembra pertanto scaturire l’elemento originale e qualificante, anche se non immediatamente evidente, che occorre approfondire. Esso infatti sfugge facilmente, poiché riguarda non solo i contenuti delle riflessioni e le iniziative concrete, ma anche gli strumenti e i percorsi interiori attraverso cui essi sono maturati[3].
Un tale approccio sarà di aiuto, inoltre, per non smarrirsi in una miriade di rivoli che rischiano di perdere d’interesse nel momento in cui si offusca il loro collegamento con le particolari circostanze a cui si riferiscono. L’esito sarebbe di farli sembrare sorpassati e quindi destinati a un’affrettata archiviazione[4]. Questo naturalmente non significa ignorare interventi che mantengono tutta la loro validità e mostrano il carisma profetico di Martini, soprattutto quando riguardano temi che restano tuttora scottanti e irrisolti: si pensi a questioni come la pace, la guerra, la giustizia, le migrazioni, la cura per la città, la costruzione di un’Europa dei popoli, il dialogo tra diverse religioni e visioni del mondo[5].
Ispirazione ignaziana del ministero di Martini
La forza delle proposte di Martini risiedeva nella capacità di coinvolgere gli interlocutori in un’esperienza interiore, come peraltro era tipico di Ignazio. È emblematico che quest’ultimo non abbia elaborato un trattato di vita spirituale, ma una serie di esercizi organicamente articolati: una proposta che coniuga, da una parte, rigore nello svolgimento delle tappe e degli orari (non sorprende che Martini abbia fatto uso per le sue iniziative di termini scolastici, come «scuola» o «cattedra») e, dall’altra, flessibilità nell’adattarsi ai variabili profili e ritmi delle persone. Il suo intento fondamentale è quello di favorire un incontro personale tra Creatore e creatura. Tutto il resto è ordinato a questa interazione, che avviene nella dinamica della coscienza. Per Ignazio, infatti, chi propone gli esercizi spirituali deve fare estrema attenzione a favorire l’esperienza di reciproco incontro con il Signore, evitando di interferire e lasciando «direttamente operare il Creatore con la creatura e la creatura con il suo Creatore e Signore» (Esercizi spirituali [ES], n. 15): sono questi i termini con cui il santo basco descrive il compito di chi accompagna altri nel cammino spirituale[6].
Per favorire tale «diretto operare», luogo privilegiato di maturazione e conversione della coscienza, occorre predisporne le condizioni. Martini ha sviluppato in modo esimio questo aspetto non solo come direttore di corsi di esercizi spirituali, ma anche come vescovo della diocesi ambrosiana, sia nei momenti pubblici sia negli incontri personali. Numerose sono le testimonianze di chi ha fatto questa esperienza nel dialogo con lui, nella varietà delle situazioni e dei percorsi biografici. Basti citare come esempi recenti le affermazioni della giornalista Silvia Giacomoni e dell’on. Gabriele Albertini[7].
Articolazione ignaziana della «lectio divina»
La proposta pastorale che ha interpretato l’essenziale di questa dinamica è la lectio divina, con cui Martini ha saputo introdurre gruppi assai diversificati all’ascolto della Bibbia. Egli ha ripreso la scansione classica dei quattro tradizionali passaggi (lectio, meditatio, oratio e contemplatio) e li ha interpretati e integrati in chiave ignaziana (consolatio, discretio, deliberatio e actio).
Senza entrare nei singoli termini, che secondo la teologia del XVI secolo erano necessari per giungere a compiere una buona scelta, notiamo solamente che Martini intende la lectio come una «attività complessa, progressiva, fatta di tappe o momenti successivi»[8] e il collegamento tra meditazione e azione come un percorso articolato: «La struttura psicologica che conduce dal pensare all’agire è ricca e complessa, richiedendo la dinamica degli affetti, la valutazione che sceglie, la decisione che delibera»[9].
La preghiera, nell’incontro con il Signore Gesù, diventa così lievito per la vita, trasforma i criteri di valutazione e infonde energia per un agire libero e responsabile secondo la logica del Vangelo. L’ascolto della Parola rimane infatti monco se non si traduce in vita vissuta e agire concreto. Le domande che Martini poneva con incisiva semplicità ai suoi interlocutori alla fine delle meditazioni svolgevano efficacemente la funzione di gettare un ponte verso l’esistenza effettiva.
La Bibbia come libro educativo dell’umanità
Ma la lectio divina, che dalla prima edizione in Duomo si sviluppò come «un albero con tanti rami»[10], non è che un esempio particolare e quasi stilizzato di una fondamentale convinzione circa il «valore educativo della Bibbia». Un’idea che Martini sottolineò più volte, in particolare quando ricevette la laurea honoris causa in Scienze della formazione all’Università Cattolica di Milano, l’11 aprile 2002[11]. In quell’occasione egli auspicò che la Bibbia divenisse libro educativo non solo per l’Europa, ma per l’intero Pianeta, e affermò che questo era il cardine su cui aveva centrato il progetto pastorale del suo intero episcopato, che andava ormai concludendosi: aiutare il popolo cristiano a familiarizzarsi con la Bibbia, imparando a pregare a partire da essa, secondo il dettato del Concilio Vaticano II (cfr Dei verbum, cap. VI)[12].
La Bibbia ha infatti una portata universale da diversi punti di vista. Anzitutto sul piano letterario, perché, da una parte, impiega una varietà di generi letterari di grande forza attrattiva, racconti accattivanti e poesie suggestive; dall’altra, diverse lingue europee sono state forgiate dalle rispettive traduzioni[13]. Inoltre è riconosciuta la sua portata sapienziale, che tocca questioni universali della condizione umana: ogni persona di qualunque epoca e cultura può ritrovarsi almeno in parte nelle parole bibliche.
La Sacra Scrittura introduce poi nella dimensione della storia: racconta le vicende di un popolo in relazione ad altri popoli, in cammino verso la liberazione nel suo graduale costituirsi come comunità nazionale. Da qui deriva il ruolo attribuito alla memoria, che invece è molto trascurata nella nostra società: nel continuo incalzare di notizie che si accavallano le une alle altre, facciamo fatica a ricordare. Si rischia di vivere sulla base delle (ultime) impressioni, che condizionano il giudizio che portiamo sulle situazioni, rendendo difficile fare una sintesi del proprio vissuto e mettere in prospettiva gli eventi dell’attualità. Invece la parola di Dio scritta nella Bibbia «nasce, di fatto, dalla volontà di un popolo di fare memoria, di non affidarsi alle ultime emozioni o agli ultimi avvenimenti, bensì di richiamare le meraviglie compiute da Dio»[14].
Il ricordo biblico è inoltre strettamente collegato ai movimenti del cuore, ai sentimenti, che spesso sono fattori determinanti nelle decisioni. La familiarità assidua con la Bibbia consente un lavoro di chiarimento e di riordino delle emozioni: gradualmente accresce la consapevolezza e affranca dai condizionamenti, disattivando il «pilota automatico»[15]. Cioè, favorisce quell’elaborazione del mondo emotivo che è indispensabile per il passaggio all’età adulta. Riconoscendo sinceramente quanto effettivamente vissuto senza denegarlo o reprimerlo, anche quando è doloroso perché personalmente o socialmente inaccettabile, si possono iniziare a distinguere le ragioni della gioia e della compassione da quelle del disgusto o dell’indifferenza, cioè le forze costruttive da quelle che demoliscono. La Bibbia offre punti di riferimento per orientare i propri affetti verso ciò che è vero e giusto. Così si potrà udire la voce dello Spirito che ci abita e anima la nostra preghiera: contemplando i propri sentimenti in e con Gesù, come insegna san Paolo[16], prenderà slancio una conversione effettiva e non immaginaria.
Il lavoro di sintesi sull’esistenza e di riordino degli affetti non deve però oscurare un aspetto più profondo della parola di Dio contenuta nella Bibbia, cioè la sua dimensione di dono: «Mediante tale Parola, Egli si dona a me, mi parla, mi nutre con la sua vita, mi comunica il suo amore, la sua potenza, la sua divinità […]. Quando sono di fronte alla Parola, […] ricevo un dono ed è questo ricevere il dono che dice una dimensione centrale e mi caratterizza come persona umana. Sono una persona umana in quanto ricevo Dio che mi si dona nel suo Figlio e nella sua Parola. Per questo ho espresso in diverse occasioni la persuasione – che può apparire paradossale – che nel nostro mondo europeo sempre più incredulo, ateo, indifferente, un cristiano non riesce a vivere la fede se non acquista familiarità con la parola di Dio, attraverso la lectio divina»[17].
La maturazione dell’uomo interiore
L’ascolto della Scrittura non ha pertanto nulla di meccanico o di magico nei suoi effetti: perché sia fecondo, occorrono alcune condizioni che devono precedere, accompagnare e seguire la meditazione della Bibbia. Martini le mette in luce riferendosi al filosofo gesuita canadese Bernard Lonergan[18]. Al di là della specifica prospettiva filosofica utilizzata, l’insistenza cade sul fatto che la dinamica educativa della persona è caratterizzata da un’apertura che la conduce a un incessante esodo da sé, sollecitando una continua conversione a diversi livelli: etico, che promuove una crescente capacità di impegnarsi per il bene in modo disinteressato e autentico; religioso, che riguarda il riconoscimento dell’incomparabilità di Dio come frutto del dono della sua grazia; intellettuale, in cui matura una nuova consapevolezza di cosa significhi la ricerca della verità. Tale ricerca consiste in un processo soprattutto interiore, perché la verità risiede nell’intimo ed emerge al termine di un processo che si realizza attraverso lo sperimentare, il capire, il valutare e il giudicare, senza escludere il credere. Questa conversione intellettuale conduce a riconoscere il valore sommo dell’interiorità.
Pertanto, secondo Martini, non basta fermarsi ai contenuti del conoscere, del volere e dell’amare, ma, per cogliere la portata dell’intera dinamica interiore, occorre che la persona sia presente a sé stessa nello svolgersi attuale di tali processi[19]. Il primato della coscienza nel suo senso più profondo si dispiega quindi quando il soggetto diviene consapevole e si appropria dei percorsi grazie ai quali giunge a conoscere, volere e amare. Il soggetto umano è in un cammino di crescita continua, in un dinamismo di sempre più consapevole percezione della propria articolata interiorità, che alimenta la sua capacità di correggersi e di agire con coraggio, autenticità e responsabilità.
Il cardinale aveva quindi una chiara cognizione di questo intento formativo e lo perseguiva con programmatica lucidità: egli stesso, impiegando il linguaggio paolino, lo sintetizza come cura e rafforzamento dell’«uomo interiore» (Ef 3,16), che coglie il primato delle cose invisibili rispetto a quelle visibili (cfr 2 Cor 4,16-18). Lo mostra la risposta data dal cardinale a chi gli chiedeva quale fosse il messaggio principale di Ignazio per il terzo millennio: «Mi pare che un dato emerga su tutti gli altri: quello del valore dell’interiorità. Intendo con questo termine tutto quanto riguarda l’ambito del cuore, delle intenzioni profonde, delle decisioni che partono dal di dentro»[20].
Coscienza personale e autorità
Va precisato che l’interiorità non è da intendersi come visione individualista chiusa su sé stessa, ma esprime il primato della coscienza nel suo senso più ampio e profondo. Una prospettiva in cui assume valore primordiale l’esperienza umana, aperta all’azione della grazia, che per il dinamismo da cui è abitata conduce alla comprensione, alla verifica e al consolidamento di certezze operative. L’educazione consiste nell’aiutare a prendere coscienza con gratitudine di questo sorprendente dinamismo, che invita al continuo superamento di sé nella conoscenza e nell’amore.
L’«uomo interiore» non è immediatamente visibile, ma traspare nella qualità di una parola persuasiva e autorevole. Assume allora un nuovo rilievo quanto il cardinale dice sulla pratica dell’autorità, intesa appunto come servizio che favorisce questa crescita dell’autenticità: una «autorità che non comprime le coscienze, ma le fa crescere facendole conformare al modello del Figlio nella Trinità»[21]. Perché questo è ciò di cui c’è bisogno oggi nella Chiesa: «rispetto della persona, della sua autonomia e della sua intelligenza. […] L’attenzione alla singolarità della persona, alla sua irripetibilità e incomparabilità e alla sua debolezza, hanno effetti molto più duraturi»[22].
La vera paternità si esprime quindi non predisponendo un cammino fissato a priori, ma stimolando la maturazione della coscienza e della responsabilità del soggetto: Dio stesso si manifesta nella Bibbia educatore del suo popolo, portandolo in Gesù a prendere coscienza della propria dignità di figlio e ad agire ispirandosi alla misericordia che è propria del Padre che è nei cieli (cfr Mt 6,48; Lc 6,36). E qui si incontra il segreto della pace, nella profondità del cuore e nelle relazioni fra le persone, che anche oggi continuiamo a invocare per tutti i popoli nella loro difficile convivenza sulla terra[23].
Fragilità ed efficacia della Parola
Tornando ora alla lectio divina, vediamo come la sua pratica sia un’esperienza fondamentale di formazione della coscienza, che promuove la capacità di decidersi per il bene da compiere qui e ora, interpretato come tale nella prospettiva del Vangelo. Martini ha ritenuto irrinunciabile questo appello alla coscienza anche nelle situazioni in cui sembra più disarmato, se non fallimentare.
È significativo che, in un suo discorso ai cappellani delle carceri, egli attribuisca alla personale coscienza dei colpevoli un ruolo centrale nel loro cammino di riabilitazione. Rievocando il profeta Natan – che risveglia la coscienza di Davide prima di rimproverarlo per il suo peccato (cfr 2 Sam 12,1-12) –, il cardinale precisa: «Per questo ci è detto di non giudicare e di non condannare. A noi spetta di aiutare l’uomo ad ascoltare il giudizio della propria coscienza: è un esercizio spirituale da proporre, da fare insieme nell’ascolto, per esempio, della parola di Dio e nel silenzio religioso». Se un giudizio che viene dall’esterno suscita ostilità e ribellione, «al contrario, il giudizio interiore, quello della coscienza personale, è riconosciuto e accettato, almeno per qualche attimo, anche dal peggiore degli uomini. All’autorità della propria coscienza ci si sottomette più volentieri: si sottomette persino il ribelle, l’anarchico, il nemico di ogni norma e di ogni potere estraneo»[24].
Ci si potrebbe domandare se questo ostinato appello al risveglio della consapevolezza e alla libera assunzione delle proprie responsabilità non sia un’illusione. Ma l’esperienza che Martini ha fatto della forza sprigionata proprio a partire dalla Scuola della Parola lo autorizzava a questa incrollabile fiducia, che si rivela in fondo più realistica delle modalità solo coercitive. Ascoltando la testimonianza di don Luigi Melesi, cappellano nel carcere di San Vittore in quel periodo, ci si può rendere conto della validità di tale prospettiva.
Decidersi a consegnare le armi
Infatti, il neovescovo scelse di iniziare le visite pastorali nella diocesi dal carcere di San Vittore. Non solo circolava nei corridoi, ma volle anche entrare nelle celle, in particolare per incontrare i terroristi. «Si è stabilito – ha affermato don Melesi –, tra il cardinale e questi ragazzi detenuti, un feeling, una simpatia, direi proprio un’amicizia, una fiducia stragrande. Capisco perché successivamente, quando abbiamo discusso a chi consegnare le armi, hanno proposto loro di consegnarle al cardinale Martini. Mi sono offerto come mediatore per questo disarmo e abbiamo raccolto quattro borsoni di armi: kalashnikov, pistole, bombe a mano, lanciarazzi, dinamite, proiettili»[25]. Questo arsenale venne poi recapitato nella Curia arcivescovile, come gesto simbolico di rinuncia alla lotta violenta.
Don Melesi si interroga anche sulla ragione per cui essi decisero di rivolgersi a Martini: «Le vollero consegnare a Martini perché era l’unico che li aveva ascoltati e perché avevano ascoltato la predicazione che aveva fatto in Duomo durante la Scuola della Parola, commentando il Miserere, il Salmo 50. Loro seguivano dal carcere queste spiegazioni e quando abbiamo discusso sul disarmo, sulla dissociazione, sulle operazioni eventuali da fare per migliorare le loro condizioni, sono arrivati a dire: “Le armi le consegniamo al cardinale perché è l’unico che ci ha ascoltato e ci ha anche capito, che ha apprezzato i nostri ideali positivi che avevamo, pur non accettando il metodo violento per raggiungere questi ideali”»[26].
Notiamo come le commoventi parole di don Melesi illustrino anche la sequenza dei passi della lectio, che vediamo svolgersi in modo quasi spontaneo: è l’esperienza della consolazione suscitata da un ascolto accogliente che dona la forza di riconoscere il male compiuto, di maturare la volontà di uscirne e di valutare il bene possibile per cui decidersi e da mettere in pratica. Da un incontro in cui si sperimenta comprensione, e anche apprezzamento per gli aspetti plausibili, emerge la possibilità di agire in modo nuovo e costruttivo, senza sorvolare sui crimini commessi, né lasciarsene paralizzare. Certamente queste parole manifestano anche, in ordine all’efficacia della proclamazione del Vangelo e alla maturazione dei suoi frutti, il nesso inscindibile tra l’annuncio e l’annunciatore, tra contenuti proposti ed effettiva donazione di sé nella consegna all’altro.
Incontro e dialogo
Ma anche in situazioni più ordinarie, Martini praticava questo stile nell’incontrare le persone, maturato grazie alla frequentazione della Scrittura. Il suo approccio da biblista attento alle varianti dei codici, e quindi all’interazione tra il testo e le circostanze in cui si inscrive, lo ha ispirato anche nel dialogo con le persone: approfondire il senso dei termini, esplorare i significati del racconto, sapendo che in un nuovo contesto l’atto di lettura (e di comunicazione) permette alla parola di risuonare in modo nuovo.
Nella relazione con gli altri, il cardinale non sembra tanto voler convertire, quanto piuttosto favorire la consapevolezza delle reazioni interiormente evocate dall’incontro e dal messaggio condiviso. Il Vangelo può così essere colto come realtà che giova all’altro e conduce a metterglisi accanto nel rispetto e nella dedizione. Si apre allora uno spazio che consente alla libertà di compiere un passo verso il bene.
Il gesto più significativo è, in fondo, quello di offrire in dono la propria persona: la consegna di sé nella concretezza della situazione e nella puntualità del momento. Questo conta in ultima istanza per l’interlocutore: essere accolto per come è, essere riconosciuto nel desiderio di comprendere il senso più profondo e autentico della propria esistenza. La cura per la relazione risulta quindi ugualmente, se non più, importante del contenuto del discorso. Ecco allora i tre cardini su cui ruota secondo Martini ogni dialogo effettivo: ascoltare con spirito accogliente, stimare l’interlocutore, imparare da tutti. Con tali premesse, la conversione che va cercata non è tanto quella dell’altro, quanto piuttosto la propria.
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Individuare il nucleo generatore da cui scaturiscono lo stile e il modo di procedere di Martini, come abbiamo cercato di fare in queste pagine, ci sembra cruciale anche per ricevere l’eredità che ci ha affidato e per evitare che si dissolva. La trasmissione di un’eredità, infatti, è un gesto simbolico che mette in gioco un duplice riconoscimento: da una parte, il padre mostra fiducia nei figli e riconosce in loro un desiderio affine a quello che ha condotto alla costituzione del patrimonio da trasmettere; dall’altra parte, i figli riconoscono il dono ricevuto e il legame che si consolida nell’accoglierlo. Questo dono è senz’altro relativo alle cose concrete di cui il patrimonio si compone, ma più profondamente riguarda il desiderio che lo attraversa e lo spirito che lo anima. Assumere l’eredità di Martini significa quindi non tanto conservare, riproporre, commemorare, o magari rimpiangere quanto Martini ha ascoltato, detto e compiuto, ma molto di più, grazie a quanto da lui continuiamo ad apprendere, ascoltare e rispondere ai segni con cui il Signore si manifesta oggi presente e operante nella storia
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CARDINAL MARTINI’S LEGACY. Roots and Inspirations
On the tenth anniversary of Cardinal Martini’s death (1927-2012), numerous publications have recalled and deepened our understanding of his thought, pastoral activities and his biography. However, the ground on which his interventions and activities are rooted risks remaining in the shadows. The article explores this generating nucleus, while identifying it in the combination of the Word of God and the spirituality of Ignatius of Loyola. In this light, the cardinal’s initiatives and style translated into the practice of his profound conviction of the universal educational value of the Bible and the primacy of interiority.
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[1]. C. M. Martini, «La mia storia con la Scrittura», in Id., Nel sabato del tempo. Discorsi, interventi, lettere e omelie 2000, Milano – Bologna, Centro Ambrosiano – EDB, 2001, 606 s.
[2]. Id., «Il soffio dello Spirito, oggi», in Id., Il Padre di tutti: lettere, discorsi, interventi 1998, Milano – Bologna, Centro Ambrosiano – EDB, 1999, 184.
[3]. Per una rilettura analoga riferita al modo in cui il cardinale intendeva la carità e le pratiche che ne sono ispirate, cfr G. Costa, «Alle radici spirituali dell’impegno sociale. L’eredità di Carlo Maria Martini», in Aggiornamenti sociali 73 (2022) 455-464; Id. «Introduzione», in C. M. Martini, Farsi prossimo, Milano, Bompiani, 2022, XXV-LXVI.
[4]. Cfr S. Giacomoni, «Un silenzio da rompere», in A. Giovagnoli – D. Bessi (edd.), Carlo Maria Martini: il vescovo e la città, Milano, Vita e Pensiero, 2022, 122.
[5]. Cfr M. Garzonio, «Magistero e attualità. La luce di Martini per illuminare un’epoca disorientata», in Corriere della Sera (Cronaca di Milano), 29 agosto 2022, 6.
[6]. Cfr C. M. Martini, «Il servizio dei gesuiti nella Chiesa di oggi», in Civ. Catt. 2006 III 108 s; un’analoga risonanza si può trovare in: «Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (Francesco, Amoris laetitia, n. 37).
[7]. Cfr S. Giacomoni, Diavolo di un cardinale, Milano, Bompiani, 2021, e l’intervista di D. Re, «Martini insegnò ad interpretare la complessità», in Avvenire (Cronaca di Milano e Lombardia), 28 agosto 2022, 1.
[8]. C. M. Martini, Gesù. Perché parlava in parabole, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2017, 132.
[9]. Ivi, 27.
[10]. F. Agnesi, «Introduzione», in C. M. Martini, La Scuola della Parola, Milano, Bompiani, 2018, XXXIX.
[11]. Cfr C. M. Martini, «Il valore sommo dell’interiorità», in Id., Perché il sale non perda il sapore. Discorsi, interventi, lettere e omelie 2002, Bologna, EDB, 2003, 221-229.
[12]. Cfr Id., «Il ruolo centrale della Parola di Dio nella vita della Chiesa», in Civ. Catt. 2012 III 464.
[13]. Cfr traduzione di Lutero per il tedesco e The King James Bible per l’inglese.
[14]. C. M. Martini, «Geremia. Una voce profetica nella città», in Id., I grandi della Bibbia. Esercizi spirituali con l’Antico Testamento, Milano, Bompiani, 2022, 969-971.
[15]. Francesco, Catechesi sul discernimento, 5 ottobre 2022.
[16]. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,5-7).
[17]. C. M. Martini, «Geremia», cit., 973.
[18]. Citiamo come testi principali: B. Lonergan, Insight. Uno studio del comprendere umano, Roma, Città Nuova, 2007 (ed. orig. inglese 1957) e Id., Il metodo in Teologia, Roma, Città Nuova, 2001 (ed. orig. inglese 1972).
[19]. Cfr C. M. Martini, «Filosofia e dialogo», in Fondazione Carlo Maria Martini (ed.), Ascoltare la storia. Il progetto Archivio Carlo Maria Martini, Milano, Centro Ambrosiano, 2015, 10; Id., Preghiera e conversione intellettuale, Roma, AdP, 2007, 165-172.
[20]. B. O’Leary, «Mistica quotidiana e cultura contemporanea: Ignazio di Loyola», in Civ. Catt. 2022 I 429.
[21]. Papa Francesco – C. M. Martini, Il vescovo, il pastore, cit., 45.
[22]. Ivi.
[23]. Cfr Id., «Il valore sommo dell’interiorità», cit., 229.
[24]. Id., Non è giustizia. La colpa, il carcere e la parola di Dio, Milano, Mondadori, 2003, 106.
[25]. Cfr C. Casalone, «Sant’Ignazio e l’ascolto della Scrittura», in A. Fabris – M. Fidanzio – R. Roux (edd.), Carlo Maria Martini. La Scrittura e la Città, Lugano – Siena, Europress FTL – Cantagalli, 2021, 65-67. La versione integrale dell’audio è disponibile sul sito della Fondazione
[26]. Ivi.