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Il confronto con il tema della morte, tra i suoi molteplici e variegati aspetti, pone in particolare a chi resta l’importanza e la necessità di rielaborare l’esperienza di perdita della persona cara, imparando a lasciarla andare[1]. È un atteggiamento obiettivamente difficile perché paradossale, antitetico alla tendenza spontanea a trattenere le persone amate, per non perderle.
Ma è indispensabile poter compiere questo lavoro; in caso contrario si diviene portatori di morte. Studi compiuti sui reduci dai Lager, successivamente emigrati in altri Paesi, hanno evidenziato la dimensione «transgenerazionale» dei lutti irrisolti. Gli scampati mostravano in apparenza di aver superato il trauma subìto e decisero di non parlare con nessuno di quanto accaduto, soprattutto in famiglia. Eppure nel corso della crescita i figli manifestavano una serie di disturbi persistenti: si mostravano sempre più ansiosi, tristi, affetti da ricorrenti pensieri di morte, senza un’apparente causa scatenante. Come una sorta di malattia contagiosa, la sofferenza repressa dai genitori prendeva dimora nella psiche dei figli[2].
Il lutto negato in tal modo, come si avrà modo di vedere, diventa melanconia.
Che cosa significa «elaborare una perdita»?
Per capire cosa significhi il lavoro del lutto si può riprendere l’esperienza autobiografica di un celebre scrittore, Clive Staples Lewis, descritta nel libro Diario di un dolore, in occasione della perdita della moglie Helen Joy Davidman, nell’opera chiamata semplicemente «H.». Questo testo è stato definito «un vero e proprio rituale privato, il cui contenuto è costituito appunto dalla progressiva esplicitazione del processo morale dell’elaborazione del lutto»[3]. Nel corso di queste pagine Lewis si osserva introspettivamente, notando una progressiva trasformazione interiore, scandita da alcune tappe fondamentali: le tappe del lutto, che rassomigliano in maniera impressionante a quanto emerso in sede di ricerca psicologica[4].
Il tema della morte e del lutto rimanda a una serie di contrasti, anche di contraddizioni, sempre compresenti, smentendo le leggi della logica. Da una parte, ogni dolore è unico, irripetibile, non confrontabile con quello di altri; ciascuno lo vive in maniera tutta propria, così come ciascuno «muore solo», per riprendere la celebre osservazione di Pascal. D’altra parte, il confronto con il dolore altrui aiuta a elaborare il proprio dolore, come lo stesso Lewis riconoscerà alla fine del libro. La morte dell’altro è l’unica maniera di introdursi all’esperienza della morte e del proprio essere mortale[5]. Come dei forestieri, ci si trova proprio malgrado scaraventati in un ambiente sconosciuto e destabilizzante, ma che ci trasforma in maniera indelebile: «Per un istante approdiamo al paese della morte. Subito dopo siamo già rientrati dal regno delle tenebre. Ma in quel solo istante il gran freddo non ci ha forse colpiti? Saremo ancora gli stessi dopo averlo sentito?»[6].
Un’altra contraddizione è interna al lavoro stesso del lutto. Esso è come un tunnel: se ne può uscire solo accettando di attraversarlo interamente; eppure ciò può essere fatto solo se in qualche modo se ne è già usciti, grazie a una luce, per quanto fioca, posta al di là della galleria, capace di illuminarne il cammino. Si tratta di un percorso straziante, perché richiede di scontrarsi con il non senso, con l’assurdo, con la perdita di ciò che si ha di più caro e che spezza per sempre l’esperienza dell’amore e della stabilità. D’altra parte, questo sofferto confronto è l’unica maniera di ritornare a vivere, di fare nuovamente esperienza di senso.
Qualora tale lavoro venga rifiutato, cercando di trattenere con sé i propri cari e negandone la scomparsa, il lutto, per riprendere la terminologia di Freud, diventa «melanconia»: mentre il primo è un dolore legato a una perdita puntuale, la melanconia è uno smarrimento globale, è l’intero soggetto a perdersi nel dolore. Lewis descrive questa deriva con parole eloquenti: «Tanto varrebbe credere, come gli antichi egizi, che si possono trattenere i morti imbalsamandoli. Non riusciremo mai a persuaderci che se ne sono andati? Che cosa resta? Un cadavere, un ricordo, e (in alcune versioni) un fantasma. Parodie oppure orrori. Tre modi in più per dire “morto”. Era H. che amavo. Come potrei pensare di innamorarmi del mio ricordo di lei, di un’immagine creata dalla mia mente? Sarebbe una specie di incesto»[7].
Il lutto va nella direzione contraria e può essere espresso in maniera lapidaria con le parole del Vangelo: «Liberatelo e lasciatelo andare», ordina Gesù ai circostanti dopo aver risuscitato Lazzaro (Gv 11,44). Questa è la suprema forma di amore: rifiutare la tentazione del possesso, come ricorda un bellissimo proverbio inglese: «Se ami qualcuno, devi lasciarlo andare. Se ritorna, è tuo. Se non ritorna, non è mai stato tuo». Il lavoro del lutto è complesso e difficile perché racchiude in sé le dimensioni fondamentali della vita: l’amore, la morte, il dolore, la non possessività, la condivisione della sofferenza altrui. Per questo una tale esperienza è fondamentale per la maturazione del soggetto che la intraprende. Compiendola, egli scopre aspetti sconosciuti, dell’altro come anche di sé, che cambiano la sua maniera di vedere la vita e di esprimere al meglio le proprie possibilità: come nota il Vangelo, solo se il chicco di grano caduto in terra muore, può portare frutto (cfr Gv 12,24).
La morte può così aprire alla possibilità di una nuova nascita.
L’insegnamento più importante: accettare il limite
Lewis esprime questi variegati aspetti in forma esemplare, anche sotto il profilo letterario, non solo per la sua capacità di descrivere quanto si trova nell’intimo. L’insegnamento più prezioso che emerge da queste pagine è la modalità di svolgimento del libro, capace di rendere «il limite» il mezzo indispensabile per il compimento dell’impresa. Il limite della parola, ma soprattutto dello spazio riservato alla scrittura.
Vale la pena soffermarsi su questo aspetto. Spesso si è scoraggiati dall’intraprendere una scelta, perché ritenuta troppo importante e difficile, al di sopra delle proprie possibilità. Lewis viene invece a dire che è proprio l’esiguità delle forze a disposizione il fattore decisivo per la sua buona riuscita. E lo dice in maniera velata, indiretta, attraverso la struttura narrativa del Diario: esso è composto di quattro capitoli, ma poi si scopre che i capitoli sono in realtà quattro piccoli quaderni che appartenevano alla moglie e che Lewis trova in casa, rovistando tra le carte di Adele dopo la sua morte. Quei quaderni diventano così materia per la scrittura e occasione di un ulteriore dialogo con la moglie; sono oggetti che parlano di lei, rimandano alla sua presenza e alla sua assenza. E quando inizia a scrivere l’ultimo quaderno, Lewis decide di non acquistarne altri: mette un limite a questo suo percorso, un limite quantitativo, legato al numero di fogli a disposizione. Un numero esiguo, del tutto inadeguato a esprimere il suo enorme dolore, di fronte al quale non basterebbero mille volumi. Ciononostante non revoca la sua decisione: non comprerà un quinto quaderno, il suo lavoro dovrà terminare con quanto ha a disposizione.
L’accettazione del limite è un aspetto decisivo che lo aiuterà a uscire dal tunnel, sperimentando una condizione di sollievo impensabile. Da essa nasceranno nuove energie e possibilità, anche se egli dovrà rinunciare per sempre al passato, operando un taglio definitivo. Si tratta di un dettaglio fondamentale, che non vale solo per il lavoro del lutto, ma più in generale per le situazioni esistenziali difficili e dolorose, come per le scelte importanti da compiere. Mettere un limite, fissare un punto di non ritorno, paradossalmente consente di esprimere il meglio di sé.
È quanto nota Helen Keller, una scrittrice statunitense privata della vista e dell’udito a soli 19 mesi di età. Nel racconto Three Days to See (Tre giorni per vedere), ella immagina cosa avrebbe fatto se avesse potuto vedere per tre soli giorni. Il dono della vista sarebbe certamente stato da lei apprezzato in sommo grado, perché consapevole di averlo a disposizione per un tempo breve. Il limite riconosciuto è comunque un elemento che per la Keller accomuna le principali storie di eroi e di grandi personaggi narrate dalla letteratura di ogni epoca: essi hanno sempre poco tempo per portare a termine una grande impresa, che può avere conseguenze decisive per sé e per molti altri.
La consapevolezza di questo fatto, come una sorta di conto alla rovescia, consente loro di vivere con gusto e impegno, esprimendo il meglio di sé. Il fatto che tali storie abbiano per lo più un lieto fine, precisa la Keller, non è l’insegnamento più rilevante; ciò che è degno di nota è che quella prova ha profondamente trasformato i loro protagonisti: «Nelle storie, l’eroe normalmente viene salvato in extremis da qualche colpo di fortuna, ma ciò che è più importante è che il suo senso dei valori viene cambiato. Egli diventa più capace di apprezzare il significato della vita e dei suoi valori spirituali permanenti. Si è spesso notato in coloro che vivono, o hanno vissuto, all’ombra della morte portare una dolcezza vellutata per tutto ciò che fanno»[8].
Anche in sede terapeutica, comunicare in un numero di sedute limitato è di stimolo alla persona, specialmente negli ultimi incontri: essa si trova capace di esprimere quanto non aveva mai avuto il coraggio o la capacità di dire. Il fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola, assegna un tempo limitato, due anni, a coloro che entrano nell’Ordine per verificare la propria scelta. Dopo di che invita a prendere una decisione definitiva e a guardare avanti, senza più rimetterla in discussione. Anche se non può certamente essere ridotto a una tecnica, questo è un avvertimento saggio. Chi invece cerca una verifica totale, infallibile, o ritiene che il tempo e le forze non siano sufficienti, non concluderà mai, ma anche non vivrà mai veramente, perché il rischio è parte dell’esistenza. Uno dei drammi della nostra società tecnologica, che ha rimosso la morte e il morire dal proprio immaginario, è che cerca assicurazioni su tutto, vedendosi aumentare lo spazio dell’incertezza e dell’ansia[9].
Dare voce alla protesta
Entrando in merito al contenuto del Diario, il primo capitolo (il primo quaderno) inizia dando espressione ai sentimenti prevalenti che occupano l’animo dello scrittore: il dolore, la paura, la rabbia, la tristezza. Sono i sentimenti legati allo smarrimento della speranza, che la morte viene a sanzionare: «Nessuno mi aveva mai detto che il dolore assomiglia tanto alla paura. Non che io abbia paura: la somiglianza è fisica. Gli stessi sobbalzi dello stomaco, la stessa irrequietezza, gli sbadigli. Inghiotto in continuazione»[10].
Lewis è credente, ma questo non attenua il dolore, anzi lo rende ancora più straziante: se all’origine della vita c’è un Dio che è amore e può tutto, perché allora facciamo esperienza del dolore, della malattia, della morte, della separazione e del distacco? Questi interrogativi suscitano indignazione e rabbia, cui lo scrittore dà voce con onestà e schiettezza: «E intanto dov’è Dio? Di tutti i sintomi, questo è uno dei più inquietanti. Quando sei felice, così felice che non avverti il bisogno di Lui, così felice che sei tentato di sentire le Sue richieste come un’interruzione, se ti riprendi e ti volgi a Lui per ringraziarlo e lodarlo, vieni accolto (questo almeno è ciò che si prova) a braccia aperte. Ma vai da Lui quando il tuo bisogno è disperato, quando ogni altro aiuto è vano, e che cosa trovi? Una porta sbattuta in faccia, e il rumore di un doppio chiavistello all’interno. Poi, il silenzio. Più aspetti, più il silenzio ingigantisce. Non ci sono luci alle finestre. Potrebbe essere una casa vuota. È mai stata abitata? Un tempo, lo sembrava. Ed era una impressione altrettanto forte di quella di adesso. Che cosa significa? Perché il Suo imperio è così presente nella prosperità, e il Suo soccorso così totalmente assente nella tribolazione? […] Una risposta, fin troppo facile, è che Dio sembra assente nel momento del nostro maggior bisogno appunto perché è assente, perché non esiste. Ma allora perché sembra così presente quando noi, per dirla con franchezza, non Lo cerchiamo?»[11].
Sono riflessioni che esprimono un’esperienza comune del credente. Esse possono essere accostate al passo evangelico che riporta la supplica straziante della donna cananea a Gesù, una supplica che sembra rimanere del tutto inascoltata: «Ma egli non le rivolse neppure una parola» (Mt 15,23).
Dare espressione alla propria rabbia, senza finzioni né censure, anche di fronte a Dio, è un aspetto irrinunciabile del lutto. La Bibbia non censura la rabbia del credente, anzi invita espressamente a darvi voce, come ad esempio nelle composizioni note come «salmi imprecatori», i quali, però, significativamente, sono stati rimossi dalla liturgia delle ore, o ampiamente tagliati. È un segno della difficoltà della nostra cultura a unire rabbia e preghiera, lode e aggressività, finendo per considerarle inconciliabili[12]. Di fronte alla rabbia dell’altro istintivamente ci si ritrae spaventati; eppure questo è un passaggio indispensabile per tornare a vivere, è una forma di verità con se stessi e la propria situazione di sofferenza, una richiesta di senso animata dalla speranza e che, qualora venga censurata, potrebbe portare a derive distruttive, verso di sé o verso altri.
Portando a parola la propria rabbia, Lewis non si nasconde la gravità delle sue implicazioni. Essa gli prospetta l’eventualità di un Dio inesistente o, peggio, sadico e maligno; insieme a questo, altri interrogativi tuttavia fanno capolino nella sua mente, e lo spingono ad affrontare la sfida della complessità.
Si può credere a un Dio maligno?
Il quaderno successivo entra in merito alla delusione di fronte a tutti i rimedi tentati, fino alla sensazione finale di essere stato preso in giro: «Speranze nate non solo dalle nostre illusioni, ma incoraggiate, imposte addirittura, da false diagnosi, da radiografie, da strane remissioni, da una guarigione temporanea che aveva quasi del miracoloso. Un passo dietro l’altro, siamo stati “menati per il naso”. E Lui, ogni volta, mentre faceva mostra di misericordia, in realtà stava preparando il nuovo supplizio»[13].
L’espressione incontrollata della rabbia sbriciola ogni certezza e la stessa vita; ad essa fa tuttavia seguito una tappa ulteriore che mostra l’equilibrio precario di questo percorso, teso tra lo sconforto e il ritorno, sotto altra forma, dei valori professati. Nel corso dei restanti quaderni Lewis mostra una capacità esemplare di mantenere i due crinali di questo percorso precario e instabile, senza indulgere a scorciatoie facili ma incapaci di rendere conto della complessità dei sentimenti provati. Egli nota che non c’è soltanto il vuoto: la protesta non potrebbe neppure sorgere se egli in qualche modo non avesse fatto una esperienza di senso, a questo punto altrettanto enigmatica. La parola che dà voce alla rabbia, la scrittura in cui prende forma non sarebbero possibili se non fossero espressione di un significato in qualche modo presente.
E Lewis, con pazienza e coraggio, ritorna sui propri passi, mettendoli in discussione. È davvero possibile che il non senso, il nulla, l’assurdo siano tutta la realtà? In altre parole, è davvero possibile credere a un Dio sadico? «Queste righe le ho scritte ieri sera. Più che un pensiero, è stato un urlo. Riproviamo. È razionale credere in un Dio cattivo? O comunque, in un Dio tanto cattivo? Il Sadico Cosmico, l’idiota malevolo? Direi che, se non altro, è troppo antropomorfico. Molto più antropomorfico, a ben riflettere, che raffigurarcelo come un maestoso vecchio re con la barba fluente […]. Pur essendo (formalmente) il ritratto di un uomo, accenna a qualcosa che trascende l’umanità. Quanto meno, suggerisce l’idea di qualcosa di più vecchio di noi, qualcosa di più sapiente, qualcosa di insondabile. Lascia intatto il mistero. E quindi lascia spazio alla speranza»[14].
È la vera svolta nel percorso di Lewis, la luce che orienta la sua scrittura e che gli consentirà di uscire dal tunnel: «Egli dubita di tutto: della realtà del mondo, di Dio ed anche di se stesso. Ma, a differenza di chi è immerso in un delirio melanconico, è ancora fedele al valore della riflessione: essa gli suggerisce che Dio, se è Dio, non può assomigliare troppo ad un uomo. Invece è l’uomo che deve assomigliare a Dio»[15].
La negazione totale del senso è molto difficile da sostenere fino in fondo, poiché tutte le azioni umane lo presuppongono per poter essere iniziate: direttamente o indirettamente, esse esprimono la speranza di un miglioramento della situazione e dei desideri di chi le mette in atto. La stessa parola, priva di significato, si ridurrebbe a un suono inutile.
Lo stesso versante del nichilismo si è scontrato drammaticamente con questo problema. Uno dei suoi esponenti più noti, Friedrich Nietzsche,riportando l’annuncio dellamorte di Dio, mette in evidenza nello stesso tempo le conseguenze inquietanti di questa morte. La più rilevante è il caos, l’assenza totale di luce, calore, punti di riferimento: «Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?»[16].
Anche un autore assestato su posizioni molto simili, come Albert Camus, intravede il vicolo cieco cui conduce l’assurdità della vita, qualora venga sostenuta fino in fondo: «Come è possibile limitarsi all’idea che nulla abbia senso e che occorra disperare di tutto? Non esiste nichilismo totale allo stesso modo che non esiste materialismo assoluto, dal momento che per formare questa parola occorre già dire che nel mondo c’è qualcosa di più della materia. A partire dall’istante in cui si dice che tutto è controsenso, si esprime qualcosa che ha un senso. Rifiutare al mondo ogni significato equivale a sopprimere ogni giudizio di valore […]. Se parla, se ragiona, se soprattutto scrive, immediatamente il fratello ci tende la mano, l’albero è giustificato. Nasce l’amore. Una letteratura disperata è una contraddizione in termini»[17].
Senza una previa esperienza di senso, il mondo umano non sta in piedi, la vita non è possibile. La psicologia dello sviluppo nota che il bambino, se non fa esperienza stabile di senso, precipita nella psicosi, perché il capire è parte essenziale dell’esperienza umana; egli ha bisogno del senso e dell’affetto come dell’aria che respira. Ma questa richiesta di significato, implicita in ogni accadimento umano, non è tuttavia giustificabile in base all’esperienza empirica. Essa, come notava Ludwig Wittgenstein, è posta oltre le possibilità date alla ragione[18].
La fiducia
Lewis quindi riconosce un fondamento, che è a base di ogni suo dire, anche della protesta e del dolore. Un fondamento, tuttavia, che non è a misura d’uomo. Come il sorriso della Gioconda analizzato da Paul Ricœur, il fondamento è presenza simbolica dell’assente: il sorriso della Monna Lisa è così intenso e significativo perché ricorda la madre del pittore, assente e insieme presente in quel particolare sorriso, nella sua espressione e nei suoi colori, che ci parlano in qualche modo di lei, se non altro nella nostalgia che evoca[19]. Analogamente, per Lewis la presenza del fondamento, come quella dell’amata, si rivela nell’assenza, tanto più reale quanto più sembrava dissolta. È un’assenza fonte di dolore, ma anche di purificazione. In particolare, purifica lo scrittore da una relazione con Dio superficiale, fredda, soprattutto insensibile nei confronti delle sofferenze altrui. La fede come compiacimento di sé, rinchiuso nella propria beata torre d’avorio, deve andare in frantumi, perché irreale: «La fede che “aveva messo in conto queste cose” non era fede ma fantasia. Metterle in conto non era vera partecipazione umana. Se mi fosse veramente importato, come credevo, dei dolori del mondo, non sarei stato travolto dal mio»[20].
Lewis coglie un altro aspetto paradossale di questo confronto. Una maggiore solidarietà con il dolore altrui lo avrebbe reso più capace di affrontare il proprio dolore, quando esso è venuto a bussare alla porta del suo cuore. Prenderne le distanze è certamente una forma di difesa di fronte al male. Tale atteggiamento, tuttavia, come la rimozione del lutto, porta in realtà a una sofferenza maggiore, più nascosta. Farsi vicino a chi soffre consente di accogliere una saggezza che getta una luce impensabile sulla realtà della vita e della morte. Lewis comincia ad avvertire la nostalgia e il desiderio di questa saggezza sconosciuta e ora a lui accessibile nel doloroso confronto con la morte della moglie. E ciò ravviva il valore del suo legame con lei.
Molti matrimoni entrano profondamente in crisi a causa della mancata elaborazione delle emozioni legate alla perdita e all’incapacità di trovare una maniera di comunicare, a se stessi o al coniuge e ai figli, il proprio vissuto, nel rispetto della diversità. Se, ad esempio, il marito è introverso e la moglie estroversa, essi vivranno ed esprimeranno il dolore in maniere differenti: l’uno non parlandone mai, e l’altra parlandone sempre. Tale differenza, tutt’altro che anomala, se non trova un punto di confronto e comprensione, finisce per allontanare sempre più: il marito sarà infastidito dagli sfoghi senza fine della moglie, e la moglie avvertirà irritazione di fronte al silenzio del marito. Il lento lavoro di ritorno alla vita, dal punto di vista terapeutico, fa leva su un cambiamento dello sguardo, proprio dell’empatia, spostandolo da se stessi e dal proprio dolore, per farsi vicini al vissuto altrui.
La mancanza di empatia è, ad esempio, alla base della grave situazione di disagio che lo psichiatra Irvin Yalom ritrova in Penny, lasciata dal marito e distrutta a motivo della morte della figlia Chrissie, una figlia adorata e portata a esempio: il dolore di quella perdita la porta a trascurare non solo se stessa, ma anche gli altri due figli (che ritiene falliti e problematici), che si trovano privati, oltre che della sorella, anche della propria madre, sempre pronta a ricordare loro quanto sono diversi da «sua figlia». Non è certamente facile spostare il baricentro affettivo e cognitivo, incentrato sulla propria perdita, ma questa rimane l’unica strada possibile per uscire dalla prigione della melanconia, consentendo di entrare in un altro mondo, di vivere in maniera differente la propria situazione e la relazione con coloro che sono ancora in vita. «Solo dopo un po’ aveva incominciato a rendersi conto veramente di non aver mai considerato dal punto di vista dei suoi figli tutto ciò che era successo»[21].
Non è vero che la perdita di una persona cara porta a una maggiore vicinanza tra i familiari: puòaccadere, ma può anche allontanare irrimediabilmente. Il rapporto con i propri morti suppone la capacità di sapersi relazionare con i propri vivi. Senza empatia, senza la comprensione e l’accettazione che il dolore possa essere espresso in una modalità differente dalla propria, si può assommare perdita a perdita, accentuando la solitudine e la morte della relazione con le persone circostanti. La solidarietà con il dolore altrui aiuta a vivere in maniera differente il proprio dolore. Questo è un altro aspetto dei paradossi rivelati da questo tema.
Nel momento in cui comincia a porre attenzione alla sofferenza di chi ha accanto, senza più ripiegarsi unicamente sul proprio soffrire, Lewis si accorge di poter portare a termine il lavoro del lutto. Egli sta ritornando a vivere: ha finalmente lasciato andare l’amata Helen.
Il canto della vita
Lewis scrive all’inizio del quarto capitolo: «Questo è il quarto quaderno vuoto che ho trovato in casa. […] Ho deciso che questo sarà il limite delle mie annotazioni. Non intendo comprare quaderni apposta. Come argine al crollo totale, come valvola di sicurezza, questa cronaca è stata di qualche aiuto. Quanto all’altro fine che avevo in mente, ho scoperto che poggiava su un equivoco. Avevo pensato di poter descrivere uno stato, di fare una mappa dell’afflizione. Invece ho scoperto che l’afflizione non è uno stato, bensì un processo. Non le serve una mappa ma una storia, e se non smetto di scrivere questa storia in un punto del tutto arbitrario, non vedo per quale motivo dovrei mai smettere»[22].
La conclusione del lavoro del lutto, come si notava, è una decisione della volontà, che nasce dall’accettazione del limite e pone una fine alla narrazione: in questo caso il non avere a disposizione altri quaderni. Non è il sapere ad aiutarlo a tornare a vivere, ma una decisione: il bene deve essere voluto. Viceversa, lascia impotenti. È ciò che accade anche nel contesto terapeutico, laddove non si riesce a coinvolgere la libertà di decisione del paziente: è stato detto che il sapere non è la causa, ma l’effetto del processo di guarigione. Come notava Ernst Bloch a proposito della colpa, che può essere riconosciuta solo quando si è preso le distanze da essa, leggendola in maniera differente.
L’elaborazione del lutto consente a Lewis di valutare diversamente l’accaduto: il dolore si traduce in una sorpresa inaspettata, in una gioia sinora sconosciuta. Egli chiama «insipida» la gioia vissuta prima di conoscere Helen, una gioia che non aveva conosciuto il dolore della perdita e del distacco. Ora può lasciare più spazio a Colui che è stato all’origine di ogni dono e che, senza togliere il mistero della perdita, gli lascia una strana pace, perché non è più preoccupato di se stesso: «Queste note parlano di me, di Helen e di Dio. In quest’ordine. L’ordine e le proporzioni sono l’esatto contrario di quelli che avrebbero dovuto essere. E vedo che in nessun punto mi è accaduto di rivolgermi all’uno o all’altra con quel modo del pensiero che chiamiamo lode. Eppure sarebbe stata, per me, la cosa migliore. La lode è il modo dell’amore che ha sempre in sé un elemento di gioia. Lode nel giusto ordine: di Lui come donatore, di lei come dono. Non godiamo forse un poco, nella lode, ciò che lodiamo, anche se ne siamo lontani? […] Perché questo è uno dei miracoli dell’amore: che esso dà – a entrambi, ma forse soprattutto alla donna – la capacità di vedere al di là dei suoi incantamenti, ma senza che l’incanto scompaia»[23].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ARTE, TRA PASSATO E PRESENTE
Le opere d’arte possono rappresentare ancora uno stimolo per una riflessione sulle tematiche di oggi? Un viaggio in 10 episodi tra le opere di alcuni dei più grandi artisti della storia passata e contemporanea.
Si può elaborare il lutto solo a partire da una certezza
Diario di un dolore compendia in maniera toccante e geniale il percorso del lutto, un percorso che Lewis riesce a compiere da solo. Egli può attuarlo grazie all’aiuto della scrittura, del cui valore anche terapeutico e risanatore questo testo offre un esempio mirabile. Ma questa impresa è sempre accompagnata da una certezza, rivista, contestata e infine ritrovata, che ha ispirato le sue pagine: «Lewis non avrebbe neppure iniziato a scrivere i suoi quaderni, se non avesse creduto fin dal primo momento che farlo fosse un modo di rendere omaggio alla moglie scomparsa, e proprio attraverso una lode, per quanto inconsapevole. Che abbia iniziato a scrivere – iniziando così anche ad elaborare il proprio lutto – dice sia che la perdita in questione era effettiva per lui, sia che per lui era possibile elaborarla. Esistono invece persone che non possono elaborare un lutto perché per loro non esiste nessun punto di certezza»[24].
Lewis ha una certezza per cui spendersi. Rendersi solidali con il dolore degli altri è stata per lui la svolta dell’elaborazione del lutto, e lo aiuta ad affrontare la propria morte. È un grande insegnamento, anche in sede terapeutica. Il già ricordato Yalom, ripercorrendo le pur molteplici e variegate vicende incontrate, notava come la brevità del tempo a disposizione e l’esercizio del proprio potere di bene, quando vengono assunti consapevolmente, rafforzano il potenziale di vita della persona, mutando di conseguenza anche l’atteggiamento verso la morte: «La mia esperienza, sia professionale sia personale, mi ha portato a ritenere che la paura della morte è sempre più forte in coloro che hanno la sensazione di non aver vissuto pienamente. Un buon parametro interpretativo potrebbe essere il seguente: più la vita è stata povera, o il suo potenziale sprecato, più forte sarà l’angoscia di morte»[25].
È l’ultimo elemento del paradosso: la morte come invito a vivere in pienezza.
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[1]. Cfr G. Cucci, «La morte come cifra dell’esistere umano. Un approccio filosofico», in Civ. Catt. 2017 IV 131-144.
[2]. Cfr V. Volkan, Bloodlines: From ethnic pride to ethnic terrorism, Boulder, Westview, 1997, 43; D. Vardi, Memorial candles: Children of the Holocaust, London, Routledge, 1992, 40; D. Berkowitz, «On the reclaiming of denied affects in Family Therapy», in Family Process 16 (1977) 495-501; M. Andolfi – I. Zwerling, Dimensions of Family Therapy, New York, Guilford, 1980.
[3]. E. Perrella, Per una clinica delle dipendenze, Milano, FrancoAngeli, 1998, cap. III; in accademiaperlaformazione.it/index.php?option=com_content&view=article&
id=104:per-una-clinica-delle-dipendenze-&catid=45:libri&Itemid=69
[4]. Cfr le cinque fasi evidenziate nell’ormai classico libro di E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Assisi (Pg), Cittadella, 1976. Le cinque fasi sono: negazione, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione. Se ne è data una presentazione in un precedente contributo: cfr G. Cucci, «La crisi: fallimento o possibilità di rinascita?», in Civ. Catt. 2014 III 3-17.
[5]. Cfr G. Cucci, «La morte come cifra dell’esistere umano», cit.
[6]. P. L. Landsberg, Il silenzio infedele. Saggio sull’esperienza della morte, Milano, Vita e Pensiero, 1995, 32.
[7]. C. S. Lewis, Diario di un dolore, Milano, Adelphi, 1990, 26. In sede psicanalitica, Freud nota che «nel lutto è il mondo che è diventato povero e vuoto; nella melanconia è l’Io stesso. Il paziente ritiene il suo Io indegno, incapace, e moralmente spregevole; si rimprovera, si denigra e si aspetta di essere malvisto e punito» (S. Freud, «Lutto e melanconia», in Id., Opere 1905-1921, Roma, Newton Compton, 2001, 911).
[8]. H. Keller, «Three Days to See», in Atlantic Monthly (in www.afb.org/section.aspx?FolderID=1&SectionID=1&TopicID=193&SubTopicID=17&DocumentID=1215), gennaio 1933.
[9] . Cfr G. Cucci, «I mille volti della paura», in Id., La forza dalla debolezza. Aspetti psicologici della vita spirituale, Roma, AdP, 2011, 321-359.
[10]. C. S. Lewis, Diario di un dolore, cit., 9.
[11]. Ivi, 11-13.
[12]. Cfr E. Bianchi, «I salmi imprecatori», in Parola Spirito Vita, n. 21, 1990, 83-101.
[13]. C. S. Lewis, Diario di un dolore, cit., 36 s.
[14]. Ivi, 37.
[15]. E. Perrella, Per una clinica delle dipendenze, cit., cap. III.
[16]. F. Nietzsche, La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1986, nn. 125 e 130.
[17]. A. Camus, «L’enigma», in Id., Opere, Milano, Bompiani, 2000, 1000. In un altro testo egli riprende le considerazioni di Dostoevskij sull’impossibilità di mettere da parte il pensiero di poter continuare a vivere dopo la morte: «Se la fede nell’immortalità è così necessaria agli esseri umani, che senza questa finirebbero per uccidersi, vuol dire che è lo stato normale dell’umanità. Stando così le cose, l’immortalità dell’anima indubbiamente esiste» (Id., Il mito di Sisifo, ivi, 304).
[18]. Cfr L. Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1964, prop. 6; 41; 79. Per un approfondimento, cfr G. Cucci, Esperienza religiosa e psicologia, Leumann – Roma, Elledici – La Civiltà Cattolica, 2009, 13-25.
[19]. Cfr P. Ricœur, Della interpretazione. Saggio su Freud, Milano, il Saggiatore, 1967, 196.
[20]. C. S. Lewis, Diario di un dolore, cit., 45.
[21]. I. Yalom, Guarire d’amore. I casi esemplari di un grande psicoterapeuta, Milano, Rizzoli, 1990, 153; cfr G. Cucci, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi (Pg), Cittadella, 2015.
[22]. C. S. Lewis, Diario di un dolore, cit., 67.
[23]. Ivi, 70; 81.
[24]. E. Perrella, Per una clinica delle dipendenze, cit., cap. III. Corsivi nel testo.
[25]. I. Yalom, Guarire d’amore…, cit., 132.