Attraversiamo un momento di grande incertezza. Da oltre due anni la pandemia sta scuotendo le fondamenta dell’economia mondiale. Nessuno avrebbe potuto prevederne e anticiparne le ricadute sia sulla produzione dei beni intermedi e finali, sia sui trasporti. Inoltre, negli ultimi mesi si sono susseguite continue tensioni sui mercati dell’energia, che sta attraversando una transizione difficile e costosa verso la neutralità carbonica, e delle materie prime, i cui prezzi sono in vertiginoso aumento a causa di una domanda smodata.
Se tutto ciò stava già provocando una tempesta perfetta, il panorama si fa ancora più drammatico dopo l’invasione dell’esercito russo in Ucraina e il conflitto armato che ne è seguito. Le sue prime, disastrose conseguenze economiche sono già sotto gli occhi di tutti, e c’è da aspettarsi che accentuino il processo verso un nuovo ordine mondiale.
La pandemia ha messo in evidenza i limiti insiti nella globalizzazione ultraliberale, su cui si è basato finora il modello produttivo, così come il rischio connesso alla forte dipendenza dal colosso cinese. Quest’ultimo, dal canto suo, sta operando per rendersi sempre più autosufficiente, senza perdere il predominio acquisito nei mercati mondiali. Probabilmente ne verrà come conseguenza uno sganciamento tra l’economia cinese e quella statunitense. Se le sanzioni consolideranno l’isolamento economico della Russia, il panorama mondiale cambierà drasticamente. Che ne sarà della «Nuova via della seta»? Andiamo verso una globalizzazione ridefinita per blocchi sempre più indipendenti (e quindi regionalizzata), che, accanto alle motivazioni economiche, tiene conto anche di criteri etici e di sicurezza? In queste pagine cercheremo di riflettere sulla nuova situazione che stiamo per affrontare.
Il Covid-19 ha messo in crisi la grande catena di distribuzione globale
Sembra indubbio che per un periodo consistente la nostra crescita economica verrà limitata da problemi sul fronte dell’offerta, a causa delle alterazioni avvenute nelle catene distributive. Molti osservatori avevano affermato che, dopo la crisi della pandemia, l’economia mondiale non avrebbe tardato a riprendersi, che si trattava di un problema transitorio, di una sorta di convalescenza. Ma coloro che prendono parte alle catene distributive dicono e ripetono che la penuria, i ritardi e gli squilibri tra l’offerta e la domanda persisteranno nei prossimi mesi del 2022 e forse anche più a lungo.
Noi tutti guardiamo stupiti all’inedita scomodità che ci arreca la carenza di prodotti intermedi, dalle materie prime ai semiconduttori, e dei prodotti finali che ne dipendono. Una vera e propria crisi distributiva sta provocando ritardi e rincari in quasi tutti i settori. In un’inchiesta svolta nello scorso agosto da Gallup, negli Stati Uniti, il 60% degli intervistati sottolineava che nei due mesi precedenti non aveva potuto acquistare un prodotto che desiderava, e il 57% aveva constatato un considerevole ritardo nella consegna di un articolo che aveva ordinato[1]. Toyota, prima casa produttrice mondiale di automobili, il 10 settembre 2021 ha annunciato che nel corrente anno fiscale produrrà 300.000 veicoli in meno del previsto (da 9,3 a 9 milioni), per i problemi di approvvigionamento dei componenti (specie i semiconduttori)[2].
Prima che, il 24 febbraio, Vladimir Putin ordinasse al suo esercito di invadere l’Ucraina, la situazione faceva pensare già a un’economia di guerra[3]. Non per nulla il Covid-19 era stato definito un «nemico invisibile»: aveva scatenato un conflitto che ha avuto ripercussioni devastanti e durevoli. Se in due anni la pandemia si è diffusa in tutto il Pianeta e ha causato oltre 250 milioni di contagiati e cinque milioni di morti, malgrado gli sforzi senza precedenti che sono stati profusi per contenerla, essa ha anche provocato altri effetti in grande misura sorprendenti, come, per esempio, in campo commerciale, forti alterazioni dell’offerta e della domanda.
Quando i lockdown hanno paralizzato le attività, milioni di consumatori hanno limitato i consumi, restando a casa, rinunciando a frequentare ristoranti e spettacoli e a concedersi viaggi di svago. È nato il fenomeno generalizzato del telelavoro. Si è generata una domanda – repressa ma ansiosa, e rafforzata dagli aiuti concessi dagli Stati – di beni finalizzati a migliorare l’ambiente domestico in cui ora si vive e si lavora. Al tempo stesso, le fabbriche sono entrate in letargo o hanno diminuito i ritmi produttivi. Rimettersi al passo non è stato un fatto immediato, tanto più che bisognava aumentare la produzione per far fronte all’inattesa e crescente alluvione di acquisti incanalata negli alvei del commercio elettronico. Proprio in quel frangente, le fabbriche asiatiche, a causa della propagazione del virus, hanno subìto blocchi obbligati e pause di forniture energetiche. I fabbricanti di chip non sono stati in grado di fornire materiali sufficienti all’industria dell’automobile e a quella elettronica, che peraltro durante la pandemia avevano evitato di immagazzinare prodotti, data l’incertezza del momento. La domanda repressa si è liberata prima che il Covid-19 fosse effettivamente sconfitto, e si è scontrata con la discontinua risposta dell’offerta, in difficoltà per le insidie sanitarie persistenti nelle fabbriche e nei porti.
In Cina, che è il Paese numero uno al mondo per l’esportazione, le fabbriche hanno ripreso a funzionare nel 2020 dopo le chiusure forzate a causa della pandemia, ma l’attività manifatturiera nel corso del 2021 si è ridotta. La ripresa industriale ha fatto passi indietro anche per i tagli energetici indotti dalle restrizioni sull’uso dell’elettricità, anch’essa scarseggiante, perché doveva attenersi alle limitazioni nell’uso del carbone[4]. La Cina, inoltre, con otto scali navali sui dieci più importanti al mondo, è un centro nevralgico per l’industria del trasporto marittimo. Al fine di ostacolare i contagi, il porto di Yantian è rimasto semichiuso a maggio e a giugno 2021, quello di Ningbo ha chiuso i battenti ad agosto per un breve periodo.
Il mare, grande alleato della globalizzazione
Gli oceani e i mari costituiscono il vero sistema circolatorio dell’economia. Il 90% del commercio mondiale se ne avvale tramite mastodontiche portacontainer, petroliere, metaniere, navi da carico per il grano o dotate di celle frigorifere. Per decenni la navigazione marittima è stata un silenzioso alleato della globalizzazione. Se mai quest’ultima ha avuto un simbolo, è proprio il container. Da quando esso è stato introdotto, il trasporto dei carichi si è semplificato, e quindi si sono sostanzialmente ridotti i costi di spedizione. Di conseguenza, è anche cresciuto a ritmi esponenziali il volume delle merci. Tanti cittadini, che non assistono ai processi di carico e scarico nei porti, non sono consapevoli del fatto che se questi giganti del mare, pieni di container, non ci fossero, avremmo un tenore di vita ben diverso. Essi ci consentono l’attuale stile di consumo. Senza di essi, questo sarebbe molto diverso: più caro e molto meno variegato.
Tutto andava per il meglio, finché due fenomeni hanno sottratto il trasporto marittimo all’invisibilità connaturata al suo buon funzionamento, facendo sì che quel settore, fino ad allora alleato indispensabile, si trasformasse in un partner problematico. Nel marzo 2021, la gigantesca nave portacontainer Ever Given – tra le più grandi al mondo, con i suoi 400 metri di lunghezza, 59 di larghezza e 15,7 di pescaggio – si è incagliata nel canale di Suez, bloccando il transito per sei giorni in questa arteria da cui passa oltre il 10% del traffico commerciale mondiale. Il 28 marzo si era formata una coda di 369 navi in attesa di attraversare il canale. I danni al commercio sono stati stimati a 9.600 milioni di dollari. Quell’evento ha posto il mondo davanti a una realtà: un mero incidente marittimo causato dal maltempo è potenzialmente in grado di mandare a gambe all’aria la catena distributiva.
Il secondo evento è meno spettacolare, ma molto più grave, perché non episodico: da mesi la ripresa del consumo, la mancanza di spazio sulle navi e i colli di bottiglia nei porti stanno causando ampi ritardi e hanno portato alle stelle le tariffe richieste dalle compagnie di navigazione, consapevoli che in tempi di penuria e di fretta sono loro a impugnare il coltello dei prezzi dalla parte del manico. I responsabili logistici delle imprese sono precipitati in un incubo. Poiché non sanno quando arriveranno i loro ordini, raddoppiano la posta: comprano di più, per fare magazzino e sottrarsi allo spettro delle scorte insufficienti, ma questo a sua volta riduce la capacità delle navi e alimenta una guerra spietata per accaparrarsi ogni container, che talora si conclude con il fatto che il prodotto rimane bloccato a terra.
In effetti, dall’estate scorsa le navi da carico sono causa di intasamenti dovuti a varie ragioni, che vanno dalla penuria di manodopera alla mancanza delle attrezzature necessarie per trasportare i container, o ancora ai magazzini sovraccarichi. Al tempo stesso, nei porti si è arrivati al collasso, perché i container scaricati restano in banchina, in quanto mancano camionisti pronti a caricare le merci. E quando i container vuoti non rientrano nei tempi previsti, in modo che si possa riempirli di nuovi prodotti da vendere, le consegne accumulano ulteriori ritardi. Alcuni porti hanno esaurito lo spazio, e file di navi restano in attesa, a volte per più di una settimana, prima che abbiamo la possibilità di attraccare. In questo modo, i rallentamenti stanno colpendo la catena produttiva e formano un colossale ingorgo. Di esso alcuni incolpano le compagnie, che ne traggono un enorme beneficio, mentre addossano la responsabilità alla travolgente espansione della domanda, che sembra cresciuta oltre le capacità sistemiche di carico massimo. Se si vorranno incrementare queste ultime, saranno necessari investimenti, e soprattutto tempo.
Conviene ricordare che l’attuale ecosistema logistico era stato sviluppato per alimentare «il minotauro del consumo statunitense», per usare un’espressione di James K. Galbraith, ripresa da Yanis Varoufakis[5]. Quell’insaziabile minotauro per quarant’anni ha assorbito i beni di consumo prodotti da Giappone, Corea del Sud, Cina e altri Paesi. Per sfamarlo, il mondo ha costruito un labirinto globale di porti, navi, ancora porti, magazzini, moli di stoccaggio, snodi stradali e linee ferroviarie. In pratica, i problemi distributivi sono una questione globale da cui nessun Paese è riuscito a svincolarsi. In un sistema globalizzato come è l’attuale, in cui per assemblare una semplice lavatrice vanno reperiti componenti da una decina di Paesi, qualsiasi difficoltà genera ritardi. La mandria avanza sempre al ritmo del bufalo più lento, sicché se da Taiwan ritarda anche un solo chip, il prodotto non può essere immesso sul mercato. Il ruolo dei governi è pertanto marginale, sebbene misure come quelle adottate negli Usa dal presidente Joe Biden, che ha obbligato porti e imprese del settore a lavorare per ventiquattr’ore al giorno e per sette giorni alla settimana, possano contribuire ad alleviare la situazione.
Obbligare a lavorare: è un bel dire, dato che in pratica l’intera agenda post-pandemia si è basata su politiche che favoriscono la domanda e scoraggiano il lavoro, rendendo del tutto prevedibili le restrizioni dal lato dell’offerta. È risaputo che le persone, se hanno più denaro, lavorano di meno, e che lavorano di più se i compensi per il lavoro sono più alti. L’estate scorsa, è stato chiaro per tutti che quelle persone che, da disoccupate, ricevono più sussidi di quanto guadagnerebbero se lavorassero, non sarebbero tornate nel mercato del lavoro. Questo problema c’è ancora, e sta peggiorando. Negli Usa ci sono più di 10 milioni di offerte di lavoro pubblicate, ma stanno cercando impiego soltanto sei milioni di persone. In totale il numero di coloro che hanno un posto di lavoro o lo cercano si è ridotto di tre milioni, ossia si è passati da un 63% costante della popolazione in età lavorativa a un misero 61,6%[6].
La messa in dubbio del modello produttivo neoliberale
Negli ultimi decenni, la frammentazione dei processi produttivi in localizzazioni differenti ha costituito un aspetto dominante della globalizzazione[7]. I colli di bottiglia e gli aumenti repentini dei prezzi hanno evidenziato i rischi connessi alle catene distributive globali in espansione, che si presumevano costruite secondo il principio dell’efficienza economica. Ma, oltre a queste difficoltà evidenti, c’è il fatto che le catene distributive impongono costi sociali addizionali che meritano attenzione[8]. Fino a pochi mesi fa, esse costituivano l’ultimo dei problemi per i legislatori, mentre rappresentavano una preoccupazione soprattutto per gli accademici, che studiavano quali possibili efficientamenti e quali rischi potenziali andassero associati a questo aspetto essenziale della globalizzazione. Ora non è più così: le strettoie della catena distributiva odierna stanno creando penuria, sospingono l’inflazione e preoccupano i legislatori di tutto il mondo.
La reazione dell’amministrazione Biden si è concentrata sul riconoscimento che le catene distributive sono essenziali per la futura sicurezza economica. Nel febbraio 2021, il Presidente ha emanato un ordine esecutivo che prescriveva a varie agenzie federali una revisione esaustiva delle catene distributive statunitensi più essenziali, per identificare rischi, sopperire a vulnerabilità e sviluppare una strategia per incrementare la resilienza. Si è valso di un vecchio proverbio: «Per mancanza di un chiodo si perde un ferro di cavallo; per mancanza di un ferro il cavallo si perde un cavallo». La filastrocca va avanti, finché a perdersi è il regno, riecheggiando il Riccardo III shakespeariano: My kingdom for a horse! Piccole lacune, anche soltanto in un punto delle catene di produzione, possono mettere a repentaglio la sicurezza, i posti di lavoro, le famiglie e le comunità degli Stati Uniti.
Nel giugno scorso, la Casa Bianca ha pubblicato un rapporto su un arco temporale di 100 giorni in tema di «Creazione di catene distributive resilienti, rilancio dell’industria statunitense e incentivi alla crescita su vasta scala»[9]. Vi si legge: «La pandemia e i connessi scompensi economici hanno rivelato vulnerabilità strutturali delle nostre catene di distribuzione. Le severe ripercussioni che l’emergenza Covid-19 ha impresso all’andamento della domanda di numerosi prodotti medici, compresi i farmaci essenziali, hanno causato danni al sistema sanitario degli Stati Uniti. Nella misura in cui la popolazione ha dovuto lavorare e studiare da casa, si è creata una scarsità globale di chip semiconduttori che ha colpito, fra gli altri, i prodotti dei settori automobilistico, industriale e delle comunicazioni. A febbraio, fenomeni meteorologici estremi, accentuati dal cambiamento climatico, hanno accresciuto ulteriormente questa scarsità. Negli ultimi mesi, il forte rimbalzo economico degli Usa e la fase di cambiamento dei modelli della domanda hanno messo alla prova le catene distributive di altri prodotti chiave, come il legno, e hanno posto sotto pressione le reti di trasporto e spedizione degli Stati Uniti».
Tra i contributi significativi di questa valutazione spicca l’osservazione che le catene di distribuzione globali hanno imposto consistenti costi sociali: «L’atteggiamento della nostra politica pubblica e del settore privato nei confronti della produzione nazionale, che per anni aveva messo al primo posto l’efficienza e il contenimento dei costi rispetto alla sicurezza, alla sostenibilità e alla resilienza, ha comportato rischi nella catena di approvvigionamento». Di conseguenza, ci si chiede se in fin dei conti le linee di distribuzione iperglobalizzate siano la via migliore per l’efficienza economica. Quanto più una catena distributiva diventa complessa, tanto maggiori diventano i rischi economici. La rottura di un qualsiasi anello può ripercuotersi su tutta la catena e far impennare i prezzi, se crea l’improvvisa carenza di un bene necessario. Lo scenario peggiore si verifica quando una situazione critica in una parte della catena produce un effetto domino, facendo crollare altre imprese e paralizzando l’intero settore. Si tratta ovviamente di una situazione simile a quella che accade nelle reti finanziarie, in cui il crollo di una banca può portarne altre all’insolvenza e perfino al fallimento, come successe nel 2008 dopo il crack di Lehman Brothers.
Dal canto suo, l’Unione Europea ha reagito con l’European Chips Act. Se ne varrà per fronteggiare la carenza di semiconduttori. Destinerà, fino al 2030, oltre 43 miliardi di euro a investimenti pubblici e privati per quadruplicarne la produzione[10].
Le catene globali del valore nella nuova globalizzazione
Andiamo verso una «sglobalizzazione»? Negli ultimi tempi il termine è diventato di moda[11]. Forse è esagerato supporre che questo processo porti l’economia mondiale a una involuzione radicale. Ma sul versante produttivo qualcosa sta cambiando riguardo ai criteri con cui si compongono le catene del valore. Fino a non molto tempo fa, il discrimine dominante, pressoché unico, era quello dell’efficienza: si delocalizzava, si trasferiva parte dei processi produttivi in altri Paesi, al fine di ridurre i costi, specialmente quelli del lavoro. Questo modello ultraliberale, che ha dato forma alla nostra realtà economica e che ha fatto della Cina il laboratorio del mondo, sembra essersi esaurito. La pandemia gli ha inferto un colpo decisivo, come abbiamo detto, evidenziandone la debolezza intrinseca; e a questo fatto si unisce la traiettoria geopolitica iniziata con la scelta cinese di rendere la propria produzione indipendente dall’Occidente e, soprattutto, di sganciarsi dall’economia statunitense[12].
Ciò vuol dire che la globalizzazione si ridisegna e sceglie un modello in cui l’obiettivo dell’efficienza si accompagna alla considerazione di altri elementi: resilienza, sicurezza nel controllo di settori vitali di un’economia e aspetti etici. I possibili conflitti geopolitici (la guerra commerciale Cina-Stati Uniti, l’Iran, l’attuale guerra in Ucraina ecc.) e le catastrofi naturali sono altri elementi che spingono alla ricerca di una maggiore sicurezza negli approvvigionamenti. Il Covid-19 ha evidenziato reciproche dipendenze economiche. L’Europa oggi ha un bisogno sostanziale delle importazioni cinesi per i settori farmaceutico, chimico ed elettronico, soprattutto di componenti prodotti in aree della catena del valore meno sofisticate sotto il profilo tecnologico. Oggi la Ue, di fatto, soffre di una dipendenza strategica critica dalle importazioni cinesi riguardo a 103 categorie di prodotti in campo elettronico, chimico, minerali-metalli e prodotti farmaceutici-medici[13]. Il cambiamento che si profila è il risultato di un’evoluzione insita nella globalizzazione? Oppure va attribuito al fatto che finalmente i poteri pubblici iniziano a governarla? Noi crediamo che entrambi i fattori vi contribuiscano, perché la globalizzazione ultraliberale non era e non è sostenibile. Non soddisfaceva standard etici elementari.
La Germania ha varato una nuova legge che obbliga le imprese a stabilire codici di dovuta diligenza (due diligence) per le proprie catene distributive. Le grandi imprese devono conoscere e controllare tali catene, per evitare che si verifichino situazioni di lavoro minorile, violazione dei diritti umani, condizioni lavorative abusive. L’Unione Europea sta elaborando per il proprio bacino un analogo sistema complessivo di due diligence, avallando un processo che nei Paesi democratici appare inarrestabile. Gli Stati Uniti hanno approvato l’Uyghur Forced Labor Prevenction Act, che proibisce l’importazione di prodotti da Xinjiang, in quanto è accertato che in tale regione viene utilizzato lavoro forzato[14]. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ci avevano già fatto notare che la globalizzazione sarà ciò che noi stessi ne faremo, esprimendo un appello urgente a governarla.
Siamo davanti a una modifica obbligata delle catene del valore. Non sembra che si vada verso una loro eliminazione, ossia a un ritorno delle attività produttive nei loro Paesi di origine, ma piuttosto verso lo sforzo di accorciarle, optando per la produzione in prossimità o per la sua regionalizzazione. La ricerca di una maggiore resilienza sembra condurre a un grado più ampio di diversificazione nelle forniture e a maggiori livelli di immagazzinamento. Nella politica delle scorte da parte delle imprese, le strategie del just in time stanno lasciando il passo a nuove formule. Tutto ciò comporterà costi accresciuti, e questo probabilmente ridurrà i vantaggi del commercio internazionale. In sintesi, ci avviamo verso una globalizzazione più equilibrata, nella quale, nelle catene di approvvigionamento dei beni e dei servizi (fra i quali il gas e il petrolio) di cui le imprese hanno bisogno per la loro attività produttiva, accanto alla considerazione dei benefici dell’efficienza, acquistano peso altri fattori: geostrategici e di sicurezza, etici e di resilienza.
Crisi anche nell’approvvigionamento dell’energia
Nello scorso novembre si è tenuta a Glasgow la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop26). Sebbene nel periodo precedente alla riunione molti Paesi avessero annunciato ambiziosi programmi di riduzione delle emissioni, per lo più questi vengono collocati in un futuro di là da venire, attorno al 2050 o perfino al 2060. Frattanto i governi in Europa e altrove devono far fronte a una crisi energetica causata dall’aumento dei prezzi del gas e del petrolio. Anni di prezzi bassi, combinati alla pressione regolatoria sulle industrie contaminanti, hanno depresso naturalmente l’investimento nei combustibili fossili. Una ripresa più rapida del previsto dalla recessione indotta dal Covid-19 e un clima più freddo del consueto nell’emisfero nord sono bastati a spingere i prezzi al livello più alto del decennio[15].
Conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina
Prima dell’inizio della guerra in Ucraina, la domanda fondamentale era se l’Occidente fosse in grado di affrontare, nel contesto che abbiamo descritto, le sfide concrete della transizione verde. Adesso la situazione si è aggravata drammaticamente. La Ue ha risposto alla guerra, alla sua frontiera orientale, con un accordo, una determinazione e una rapidità eccezionali. L’invasione dell’Ucraina è un punto di svolta. Quale che sia la durata della guerra, essa lascerà un’eredità durevole. Darà forma alle opzioni politiche dell’Europa per i prossimi anni e decenni.
Innanzitutto, vanno riconosciute le sue importanti conseguenze economiche per la Ue in relazione all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas; all’esclusione della Russia come fornitore di questi due beni, a cui oggi essa provvede rispettivamente per il 40% e per un terzo del fabbisogno europeo; alle costose misure di indipendenza energetica; all’interruzione delle forniture di cereali dal granaio del mondo, che innalza i prezzi del frumento, del mais e della soia, e anche di metalli come alluminio e nichel. Un altro effetto immediato è il brusco crollo del turismo di origine russa. A tutto questo va aggiunto il costo dell’afflusso dei rifugiati e l’innalzamento delle spese per la difesa. Le implicazioni dirette sul bilancio nel 2022 potranno toccare l’11,4% del Pil[16]. I Paesi poveri subiscono già l’innalzamento dei prezzi dei generi alimentari fino a livelli per loro proibitivi. Ma c’è il timore che se le terre che alimentano i granai ucraini non potranno essere coltivate, ci troveremo presto davanti a crisi umanitarie[17]. Il funzionario dell’Onu Gabriel Ferrero de Loma-Osorio rileva che la guerra in Ucraina, grande produttrice di granaglie e fertilizzanti, ha aggravato la fame nel mondo, già in crescita in seguito alla pandemia[18].
L’entità e la gravità della frenata economica dipenderanno dalla durata della guerra, ma non soltanto da questo. Se le sanzioni occidentali permarranno alla fine del conflitto, come non è da escludere, l’economia russa ne sarà sconvolta. E con ciò cambierà radicalmente il panorama mondiale, dato che la Russia rimarrà nell’orbita economica e geopolitica della Cina, in un mondo sempre più pericolosamente bipolare.
È possibile fermare questa contesa insensata e pericolosissima per tutti? La Cina potrebbe fungere da mediatore? Lo sperano i leader occidentali, ansiosi di porre fine allo spargimento di sangue in Ucraina. Xi Jinping ha affermato che il suo Paese è dispiaciuto nel vedere che le fiamme della guerra si riaccendono in Europa. I tentativi europei di convincere la Cina a esercitare una mediazione riflettono l’assenza di altre opzioni, ma anche la convinzione che questa sia una possibilità reale, data la vicinanza della Cina alla Russia[19], la sua politica di non ingerenza, il suo rispetto della sovranità nazionale e la sua necessità di minimizzare le conseguenze che la investiranno in seguito alle sanzioni inflitte a Mosca. Peraltro, la guerra sconvolge i piani di Pechino: ne va di mezzo la scommessa milionaria di Xi Jinping in Ucraina[20]. La Cina infatti è il principale partner commerciale dell’Ucraina, che è, insieme alla Polonia, la porta d’accesso all’Europa della «Nuova via della seta» e, in quanto tale, è stata destinataria di forti investimenti nelle infrastrutture, che nel 2018 hanno toccato i 7.000 milioni di dollari nei porti sul Mar Nero. Nel 2013 la Cina ha acquistato il 9% del terreno coltivabile del Paese, più di 29.000 chilometri quadrati nella regione di Dnipropetrovsk. Si tratta dell’identica formula di cui la Cina si era valsa nei confronti di vari Paesi africani per assicurarsi la fornitura di grano e di altri generi alimentari, a motivo della sua enorme popolazione. Questo accordo è, per il momento, il più grande progetto agricolo fuori dalle sue frontiere[21].
Un nuovo ordine globale?
Attualmente stanno accadendo contemporaneamente questi eventi: la crisi del modello ultraliberale delle catene di approvvigionamento; la crisi energetica, precedente all’invasione russa dell’Ucraina e da essa aggravata[22]; le sanzioni occidentali al governo di Putin, tese a isolarne l’economia, ma foriere di un’evidente ricaduta negativa sull’Europa, e che propizieranno una crescente dipendenza di Mosca da Pechino; e la stessa dinamica cinese, che con la strategia della circolazione duale cerca in realtà di rafforzare la propria autosufficienza in un contesto esterno più ostile; il che provocherà una tendenziale contrazione delle sue importazioni.
Ovviamente l’ordine mondiale precedente sta saltando per aria. L’Africa vede aggravarsi i propri problemi; la Cina è in una situazione imbarazzante; e l’India, una volta perduto l’appoggio di Mosca, si vede indebolita nei confronti dei suoi vicini ostili, il Pakistan e la Cina. La Ue sta ricercando il proprio ruolo nel mondo. Gli Stati Uniti vanno verso il distacco dalla Cina e puntano a raggiungere l’autosufficienza e la sicurezza. L’America Latina patisce gli effetti dannosi della depressione mondiale. Giungono tempi duri, con un’innegabile crisi economica che favorirà una nuova versione della globalizzazione. Speriamo che le armi tacciano presto e che il futuro ci porti pace e bene.
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[1]. Cfr L. Saad, «Most U.S. Consumers Have Felt Supply Chain Problems», in Gallup, 11 agosto 2021.
[2]. Cfr Toyota, «Changes to Production Plans for September and October 2021», 10 settembre 2021.
[3]. Cfr M. Spence, «Perché le catene di approvvigionamento sono bloccate?», in Project Syndicate, 3 novembre 2021.
[4]. Cfr L. de la Cal, «Apagón chino en los radares de la navegación internacional», in El Mundo, 27 novembre 2021.
[5]. Cfr J. K. Galbraith, «The Choking of the Global Minotaur», in Project Syndicate, 11 novembre 2021.
[6]. Cfr J. Cochrane, «La vendetta dell’offerta», in Project Syndicate, 22 ottobre 2021.
[7]. Cfr K. Reinert, Introduction to International Economics, Cambridge, Cambridge University Press, 2021, 232-253.
[8]. Cfr D. Acemoglu, «The Supply Chain Mess», in Project Syndicate, 2 dicembre 2021.
[9]. «Building Resilient Supply Chains, Revitalizing American Manufacturing, and Fostering Broad-Based Growth. A report by the White House», giugno 2021.
[10]. Cfr European Commission, «European Chips Act».
[11]. Cfr «Slowbalisation. The steam has gone out of globalization», in The Economist, 24 gennaio 2019.
[12]. Cfr A. García Herrero, «What is behind China’s Dual Circulation Strategy?», in China Leadership Monitor, 1° settembre 2021.
[13]. Cfr M. J. Zenglein, «Mapping and Recalibrating Europe’s Economic Interdependence With China», in Mercator Institute for China Studies, 18 novembre 2020.
[14]. Cfr «H.R.1155 – Uyghur Forced Labor Prevention Act. 117th Congress (2021-2022)».
[15]. Cfr D. Gros, «What Europe’s Energy Crunch Reveals», in Project Syndicate, 5 novembre 2021.
[16]. Cfr J. P. Ferry, «The economic policy consequences of the war», in Bruegel, 8 marzo 2022.
[17]. Cfr Q. Dongyu, New Scenarios on Global Food Security based on Russia-Ukraine Conflict, Fao, 11 marzo 2022.
[18]. Cfr «Después de la pandemia, la guerra en Ucrania agrava el hambre mundial», in Chicago Tribune, 10 marzo 2022.
[19]. President of Russia, Joint Statement of the Russian Federation and the People’s Republic of China on the International Relations Entering a New Era and the Global Sustainable Development, 4 febbraio 2022.
[20]. Cfr «The Guardian view on China and Russia: enough in common», in The Guardian, 8 marzo 2022.
[21]. Cfr Á. Moreno, «La guerra trastoca los planes de China: la apuesta millonaria de Xi Jinping en Ucrania», in El Economista, 4 marzo 2022.
[22]. Cfr D. Yergin, The New Map: Energy, Climate, and the Clash of Nations, New York, Kirkus Books, 2020.
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THE WORLD ECONOMY EXITS COVID AND GOES TO WAR
Covid-19 was an invisible enemy, which has caused five million deaths, with clear and lasting effects on the world economy. The pandemic has changed the labor supply and exposed the fragility of the supply chains of the current ultra-liberal model of globalization of production. All the while an energy crisis and geopolitical tensions were occurring. All this seemed to indicate the need for an alternative to this model, a more regionalized version, more stable in securing supplies and more aware of its ethical implications. Russia’s invasion of Ukraine has dramatically worsened this scenario. It will have very serious economic consequences and seems to herald a new world order.