Nel romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa il monaco cieco Jorge di Burgos, citando Giovanni Crisostomo, sostiene che «Cristo non ha mai riso». Un’affermazione così perentoria non solo sembra escludere categoricamente che Gesù di Nazaret possa ridere, ma mette in discussione la sua stessa umanità, che implica la capacità di partecipare alla totalità dell’esperienza umana, inclusa la possibilità di sperimentare tutta la gamma degli affetti e delle emozioni. Al contrario, come ricorda la Costituzione pastorale Gaudium et spes (GS), «il Figlio di Dio […] ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché il peccato» (GS 22).
In effetti i Vangeli ci presentano un ritratto molto umano di Gesù, capace di gioire e di piangere, di commuoversi e di arrabbiarsi, di indignarsi e di amare, di stupirsi e di sentire angoscia. Egli si definisce «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ma è anche ardente di zelo quando scaccia con veemenza i venditori dal tempio.
In questo articolo proveremo, dunque, ad aprire una finestra sull’interiorità di Gesù così come ci è stata trasmessa dai Vangeli sinottici[1]. La descrizione più vivida e più ricca di sfumature delle emozioni e degli affetti di Gesù si trova nel Vangelo di Marco, mentre Matteo e Luca sono più sobri, ma non meno significativi, nell’esprimere l’interiorità del Figlio di Dio[2].
In psicologia, per «emozione» si intende un processo rapido, una risposta intensa a uno stimolo o a una situazione, mentre gli «affetti» fanno riferimento a un complesso di sentimenti e passioni che sono più prolungati e costanti nel tempo, configurandosi, in taluni casi, come veri e propri tratti stabili, che delineano la personalità in maniera definita e peculiare[3]. Vedremo che in alcuni momenti l’affettività di Gesù emerge come reazione a una situazione specifica che lo interpella, mentre altre volte si caratterizza come un tratto più costante della sua umanità.
La compassione di Gesù
Un verbo che ricorre con una certa frequenza nel Vangelo di Marco e che ha come soggetto Gesù è splanchnizomai, che viene tradotto con «avere compassione», «muoversi a compassione». L’immagine veicolata da tale verbo è molto forte: infatti, esso sta a indicare il movimento delle viscere che sono scosse da qualcosa o qualcuno. Nel mondo semitico le interiora dell’essere umano, le viscere e l’utero, sono considerate la sede dei sentimenti più profondi come la compassione e la misericordia[4].
La prima ricorrenza di questo verbo è all’inizio del Vangelo, nell’incontro tra Gesù e il lebbroso. Davanti alle suppliche di quest’ultimo, «[Gesù] ne ebbe compassione[5], tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”» (Mc 1,41). Il moto interiore che parte dalle viscere conduce Gesù non soltanto a guarire per mezzo della sua parola, ma anche a toccare il lebbroso, superando il distanziamento sociale prescritto dal libro del Levitico (cfr Lv 13–14), che imponeva una netta separazione tra la comunità e il malato, per evitare di essere contaminati dall’impurità. Eppure, questa volta è la santità di Gesù a rivelarsi contagiosa, guarendo il lebbroso[6].
Quello che accade subito dopo tra Gesù e il lebbroso rivela come il mondo delle emozioni sia complesso anche nei Vangeli: «Ammonendolo severamente, lo cacciò via subito» (Mc 1,43). Perché l’atteggiamento di Gesù cambia in maniera così repentina? Cosa spinge il Signore a una reazione così brusca, che stride con la compassione appena manifestata? Il verbo utilizzato assume la connotazione negativa di «minacciare, sbuffare, trattare duramente»[7]. Forse il comportamento di Gesù dev’essere inteso in relazione al comando rivolto all’uomo di non dire nulla a nessuno, offrendo a esso una sfumatura di perentorietà e tassatività (cfr Mc 1,44). Gesù vorrebbe che questa sua richiesta fosse rispettata, ma il lebbroso guarito disattende il comando, e questo ha conseguenze serie sull’azione di Gesù, che non può più entrare pubblicamente in una città dopo che si è diffusa la notizia della guarigione da lui operata (cfr Mc 1,45).
Nel Vangelo di Marco il verbo «avere compassione» ricorre di nuovo prima dei due episodi della moltiplicazione dei pani, ma in due modi differenti. Nel primo racconto è il narratore che presenta la reazione di Gesù alla vista della folla che si era radunata per incontrarlo: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34). Le viscere di Gesù sono sconvolte a causa della folla, che ai suoi occhi appare disorientata e smarrita, senza guide che se ne prendano cura (cfr Ez 34). La compassione spinge Gesù a donare la propria parola, mettendosi a insegnare molte cose e spendendo tempo ed energie a servizio della folla. Questo atteggiamento risalta ancora di più, perché a esso fa da contrappunto quello dei discepoli, i quali vorrebbero liberarsi dell’incomodo di avere gente tra i piedi e dicono a Gesù: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare» (Mc 6,35-36). A questa richiesta Gesù risponde compiendo la prima moltiplicazione dei pani riferita dal Vangelo di Marco.
Nel secondo episodio è Gesù stesso a esprimere i propri sentimenti interiori, dicendo ai discepoli: «Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare» (Mc 8,2). Questa volta sono la stanchezza e la fame delle persone che toccano le viscere di Gesù, assieme alla preoccupazione che senza cibo esse non potranno farcela nel viaggio di ritorno (cfr Mc 8,3). Il risultato di questo moto interiore di Gesù è la seconda moltiplicazione dei pani.
In Marco, una nuova ricorrenza del verbo «avere compassione» la troviamo in un altro discorso diretto. Questa volta non è Gesù a prendere l’iniziativa, ma il padre di un ragazzo posseduto da uno spirito muto fa appello alla compassione del Signore per ottenere un aiuto, dopo che il tentativo messo in atto dai discepoli è fallito: «Ma se tu puoi qualcosa, abbi pietà di noi e aiutaci» (Mc 9,22).
Negli altri Vangeli sinottici il verbo splanchnizomai, che ha come soggetto Gesù, appare in alcuni contesti significativi[8]. In Matteo, oltre che nei racconti della moltiplicazione dei pani, viene riferito al Signore in un momento cruciale della sua missione: «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!”. Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità» (Mt 9,36–10,1). La compassione di Gesù a causa della sofferenza e dello smarrimento delle folle lo porta, da un lato, a chiedere ai discepoli di pregare Dio affinché invii lavoratori per il suo raccolto e, dall’altro, a costituire lui stesso i Dodici, dando loro l’autorità di compiere le sue stesse opere.
In seguito, le viscere di Gesù si scuotono davanti alla richiesta di due ciechi di essere guariti: «Gesù ebbe compassione, toccò loro gli occhi ed essi all’istante ricuperarono la vista e lo seguirono» (Mt 20,34). Ancora una volta la guarigione implica un contatto tra Gesù e coloro che gli chiedono aiuto.
In Luca, invece, in una sola occasione viene detto che Gesù ha compassione. È quando egli incontra la vedova che accompagna il suo unico figlio verso il sepolcro: «Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere!”» (Lc 7,13). Da questo sconvolgimento interiore nasce il miracolo della risurrezione del fanciullo.
Secondo il Grande Lessico del Nuovo Testamento, «questi testi non descrivono un moto affettivo, ma caratterizzano la figura messianica di Gesù»[9]. Questa affermazione però rischia di essere riduttiva, perché, se da un lato è vero che nei Vangeli il soggetto del verbo «avere compassione» è quasi sempre Gesù Messia, dall’altro la caratterizzazione di questo personaggio non esclude il suo essere pienamente uomo, capace di sentire quello che ogni uomo sente, e il suo agire in quanto «sconvolto internamente», mosso nella propria interiorità. Dalle occorrenze considerate possiamo notare come la compassione di Gesù non sia soltanto un’emozione momentanea, ma un tratto stabile, che caratterizza la sua affettività e il suo modo di accostarsi e interagire con le persone.
Gesù ama?
Un altro verbo molto importante, che ricorre una sola volta riferito a Gesù, è agapaō, «amare»: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!”» (Mc 10,21). Tra i Sinottici, solo Marco mette in risalto questa annotazione affettiva, facendo accedere il lettore al più intimo sguardo di Gesù.
A colui che vuole sapere da Gesù che cosa deve fare per avere la vita eterna, perché gli sembra che non basti la dedizione alla legge coltivata fin dalla giovinezza, Gesù offre una nuova prospettiva. Tuttavia, per quanto esigenti, le sue parole sono dettate da uno sguardo di predilezione. Il suo comando, dunque, non va interpretato secondo la categoria del dovere, ma piuttosto nell’ottica dell’amore. Egli invita quest’uomo alla radicalità della sequela, perché lo ama profondamente e in un certo senso vuole liberarlo dalle inquietudini che lo attanagliano e dalle catene del possesso dei beni materiali. Al lettore è dato il privilegio di conoscere i sentimenti di Gesù che si celano dietro le sue parole, mentre non sappiamo se colui al quale Gesù ha rivolto questo sguardo d’amore abbia percepito di essere amato. Tuttavia egli non corrisponde a quanto gli viene chiesto e preferisce andarsene triste e scuro in volto, piuttosto che lasciare tutte le sue ricchezze.
Alcune emozioni di segno negativo
Nei Vangeli la persona di Gesù si caratterizza anche per alcune reazioni emotive, che forse a torto potremmo considerare eccessive. Il Vangelo di Marco ci offre alcuni esempi che contribuiscono a dare spessore al complesso ritratto di Gesù di Nazaret. Di fronte al silenzio di chi vorrebbe coglierlo in fallo e accusarlo per aver compiuto la guarigione di un uomo dalla mano inaridita nel giorno di sabato, la reazione di Gesù è vigorosa e complessa al tempo stesso: «E guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse all’uomo: “Tendi la mano!”. Egli la tese e la sua mano fu guarita» (Mc 3,5). In questo atteggiamento di Gesù si uniscono ira e tristezza verso i farisei per la loro durezza e il loro silenzio, dietro i quali si nasconde l’avversione verso di lui. È interessante notare come Gesù entri in contrasto con i suoi oppositori non soltanto adirandosi con loro, ma anche rattristandosi per la loro ostinazione e irremovibilità.
Nel seguito del Vangelo di Marco appare anche il verbo thaumazō, «stupirsi». A Nazaret Gesù è oggetto di emozioni contrastanti: in un primo tempo i suoi concittadini sono sbalorditi per il suo insegnamento nella sinagoga (cfr Mc 6,2), poi si scandalizzano di lui; e Gesù, come afferma l’evangelista, «si meravigliava della loro incredulità» (Mc 6,6). A motivo della loro mancanza di fede egli non può compiere prodigi nella sua terra natale, e la sua azione viene limitata (cfr Mc 6,5). Il suo essere Figlio di Dio, che conosce quello che gli altri pensano (cfr Mc 2,8), non gli impedisce di stupirsi davanti a chi si oppone alla sua missione[10].
Un discorso a parte merita il verbo «sospirare» (stenazō), che, a seconda del contesto in cui compare, può essere inteso in modo differente: «[Gesù] guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro (stenazō) e gli disse: “Effatà”, cioè: “Apriti!”» (Mc 7,34). «Ma [Gesù] sospirò profondamente (anastenazō) e disse: “Perché questa generazione chiede un segno? In verità io vi dico: a questa generazione non sarà dato alcun segno”» (Mc 8,12). Nel primo caso il sospiro di Gesù è legato alla preghiera che porta alla guarigione del sordomuto; nel secondo caso, invece, Gesù sospira perché è infastidito dall’incredulità dei farisei, che gli chiedono un segno per metterlo alla prova.
In un altro episodio Gesù si irrita con i suoi discepoli, perché respingono coloro che gli presentano i bambini affinché li possa toccare: «Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio”» (Mc 10,14).
In altre occasioni non compare un’indicazione esplicita dell’emozione che caratterizza l’azione di Gesù, ma è facilmente intuibile dal contesto. Un esempio fra tutti: la purificazione del tempio. Scrive Marco: «Giunsero a Gerusalemme. Entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e quelli che compravano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe» (Mc 11,15). Gesù scaccia i venditori con veemenza e ardore, sdegno e collera, rovesciando i tavoli dei cambiavalute. Il suo stato d’animo traspare dalle azioni irruenti che compie nel tempio di Gerusalemme, tanto che nel Vangelo di Giovanni questo segno ricorderà ai discepoli il Sal 69,10: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà» (Gv 2,17).
Altre volte sono le parole severe pronunciate da Gesù che fanno pensare che dietro ci sia una partecipazione emotiva molto forte: «Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare» (Mc 9,42).
Gesù sa essere duro non soltanto con gli scribi e i farisei, ma anche con i suoi concittadini e con i suoi stessi discepoli, che sembrano non capire fino in fondo la missione del loro maestro. Queste reazioni emotive contribuiscono a darci un’immagine realistica di Gesù.
Nel Getsemani
Nei Vangeli sinottici (Mt 26,36-46; Mc 14,32-42; Lc 22,40-46) c’è un episodio che offre al lettore un accesso privilegiato all’interiorità di Gesù, alla sua comunicazione intima con il Padre nel momento drammatico e cruciale della sua passione. È l’episodio del Getsemani: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”. Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,33-36).
All’inizio Gesù desidera la compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni; poi è solo, e il lettore viene reso partecipe del dramma interiore che si va consumando[11]. Per prima cosa, l’evangelista comunica che Gesù sente paura e angoscia. Agli occhi del lettore, il Maestro appare atterrito[12] e turbato. Questa doppia osservazione rende la situazione pesante e cupa; e, in un certo senso, il buio che Gesù sente proietta un cono d’ombra anche all’esterno, sul lettore. Gesù però non ha paura di esprimere il proprio turbamento davanti ai suoi discepoli attraverso un’immagine forte: la tristezza fino alla morte, che indica l’intensità della sua afflizione[13].
Poi il racconto ci presenta Gesù che è solo, mentre si rivolge a Dio. Il cadere a terra è segno visibile dello stato di prostrazione anche psicologica in cui egli si trova. La richiesta indirizzata a Dio è sincera, così come l’appellativo confidenziale e intimo «Abbà», Padre. Gesù chiede di essere liberato dall’angoscia della passione e della morte che lo attendono, e tuttavia va al di là delle proprie emozioni e si dichiara disponibile ad accogliere ciò che il Padre vorrà per lui. Come sottolinea il card. Gianfranco Ravasi: «È interessante notare in questa invocazione la dialettica tra l’angoscia che conduce alla tristezza amara e la volontà che sovrasta l’emozione, con la decisione di seguire la via dolorosa che salirà fino alla vetta del Calvario»[14].
Mentre Pietro, Giovanni e Giacomo dormono – e non solo non accolgono la richiesta di vegliare, ma non percepiscono neppure la carica emotiva di quell’invito rivolto loro dal maestro che confessa la propria debolezza –, la preghiera di Gesù continua nella notte e il lettore ha il privilegio di parteciparvi – stando come in un cantuccio – e di poter osservare. Luca impreziosisce la descrizione del dolore di Gesù con un dettaglio significativo: la sofferenza di quella notte lo conduce fino all’ematidrosi, cioè al sudare sangue (cfr Lc 22,44).
Le lacrime e la gioia di Gesù
Il Gesù di Luca non teme di esprimere le proprie emozioni davanti a Pietro e ai suoi discepoli, sia che si tratti dell’angoscia nella prospettiva del compimento del battesimo della croce (cfr Lc 12,50), sia che si tratti del forte e intenso desiderio di mangiare la Pasqua con loro (cfr Lc 22,15).
Tra i Sinottici, soltanto Luca ci presenta Gesù che scoppia in pianto quando vede Gerusalemme[15]: «Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa» (Lc 19,41). Gesù fa il suo lamento per il dramma che attende la città santa, che verrà assediata e distrutta. Il suo dolore contrasta con l’accoglienza gioiosa a lui riservata (cfr Lc 19,35-40), ma prelude al controverso segno della purificazione del tempio e al rifiuto dei capi del popolo, che lo porterà alla croce.
E come Gesù piange, non può egli anche ridere? La domanda da cui siamo partiti, ricordando Il nome della rosa di Eco, trova una possibile risposta proprio nel Vangelo di Luca, dove sin dalle prime pagine risuonano l’esultanza e la gioia. Queste vengono promesse innanzitutto a Zaccaria, e poi si manifestano in Giovanni il Battista, che sussulta di gioia nel grembo della madre (cfr Lc 1,44), e sulle labbra di Maria, che canta il Magnificat (cfr Lc 1,47).
Così pure alcune delle parabole lucane sono un invito, rivolto ai farisei e agli scribi, a rallegrarsi, partecipando alla gioia di Dio per ogni peccatore ritrovato: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7). E in un’occasione è Gesù stesso a esultare: «In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Se non il suo riso, possiamo certamente immaginare il suo sorriso pieno di letizia nello Spirito, mentre loda il Padre per essersi rivelato ai piccoli. Come ricorda Stephen Voorwinde, questa è una gioia trinitaria: «La gioia esultante di Gesù in Lc 10,21 è quindi la gioia del Messia, l’unico sommamente unto dallo Spirito Santo. Ma è anche la gioia del Figlio dell’Altissimo, colui che ha una relazione unica con il Padre»[16].
Nel corso degli Esercizi spirituali (ES), nella quarta settimana, sant’Ignazio di Loyola rivolge all’esercitante un invito pressante a chiedere a Dio una grazia nella preghiera: «Il terzo preludio consiste nel domandare quello che voglio: qui sarà chiedere la grazia di allietarmi e gioire intensamente per la grande gloria e gioia di Cristo nostro Signore» (ES 221).
Colui che prega chiede al Signore il dono di esultare per la gioia di Cristo risorto dai morti. Pertanto, non chiede semplicemente di rallegrarsi perché Gesù è risorto, ma di essere partecipe degli stessi sentimenti di colui che è vivo, rallegrandosi insieme con lui. L’orante, dunque, può aderire alle emozioni e agli affetti di Gesù imparando dalla sua umanità, che abbiamo visto essere sfaccettata e variegata, dal suo essere compassionevole con i poveri e i malati, ma anche duro con chi si irrigidisce e si oppone alla missione che il Padre gli ha affidato. Come ricorda la Gaudium et spes, «chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo» (GS 41). Seguire Cristo, vero Dio e vero uomo, vuol dire conformarsi a lui, diventandogli simili anche nel sentire interiore, nelle emozioni e negli affetti che interpretano quanto accade nel mondo.
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THE EMOTIONS AND AFFECTIONS OF JESUS. An analysis of the Synoptic Gospels
The Gospels present a very human portrait of Jesus. This portrait shows him capable of rejoicing and crying, of being moved and angry, of being indignant and loving, of wondering, and experiencing anguish. He calls himself «meek and humble of heart» (Mt 11:29), but he is also ardent and shows zeal when he vehemently drives the sellers out of the temple. In this article we try to open a window onto the interiority of Jesus as it has been transmitted to us in the accounts of the Synoptic Gospels.
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[1]. Una trattazione a parte meriterebbe il Vangelo di Giovanni, a causa delle sue peculiarità che lo differenziano dai Sinottici.
[2]. Su questo tema, si vedano i seguenti contributi: G. Barbaglio, Emozioni e sentimenti di Gesù, Bologna, EDB, 2009; S. Voorwinde, Jesus’ Emotions in the Gospels, London – New York, Bloomsbury, 2011.
[3]. Cfr P. Bonaiuto – V. Biasi, «Emozione», in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, 2006, vol. IV, 3331.
[4]. Cfr H. Köster, «σπλάγχνον, σπλαγχνίζομαι, εὔσπλαγχνος, πολύσπλαγχνος, ἄσπλαγχνος», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia, Paideia, 1979, vol. XII, 903-934.
[5]. Una variante di questo testo in alcuni manoscritti riporta «preso d’ira» invece che «ebbe compassione». Pur essendo questa la lectio difficilior, va preso atto che il riferimento all’ira potrebbe essere un’inserzione tesa ad armonizzare maggiormente il testo, dando coerenza al tono affettivo di Gesù, il quale in seguito si mostrerà severo verso il lebbroso (cfr Mc 1,43). Cfr G. Perego, Vangelo secondo Marco. Introduzione, traduzione e commento, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2011, 67.
[6]. Cfr ivi.
[7]. Cfr ivi, 68.
[8]. Il verbo «avere compassione» è presente anche in alcune parabole: «Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito» (Mt 18,27); «Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33); «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
[9]. H. Köster, «σπλάγχνον, σπλαγχνίζομαι…», cit., 922.
[10]. Negli altri Vangeli sinottici Gesù si meraviglia anche per qualcosa di positivo come la fede del centurione: «Ascoltandolo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: “In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!”» (Mt 8,10 e Lc 7,9).
[11]. In proposito, si veda il contributo dello psicanalista lacaniano M. Recalcati, La notte del Getsemani, Torino, Einaudi, 2019.
[12]. Soltanto Marco utilizza questo verbo che indica una paura forte e intensa (cfr Mc 9,15; 14,33; 16,5; 16,6), mentre Matteo adopera il verbo «rattristarsi, provare tristezza» (Mt 26,37).
[13]. Cfr G. Perego, Vangelo secondo Marco…, cit., 294.
[14]. G. Ravasi, Piccolo dizionario dei sentimenti: Amore, nostalgia e altre emozioni, Milano, il Saggiatore, 2019.
[15]. Nel Vangelo di Giovanni Gesù scoppia in pianto per la morte dell’amico Lazzaro (cfr Gv 11,35).
[16]. S. Voorwinde, Jesus’ Emotions in the Gospels, cit., 132.