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Abramo piantò un tamerisco a Bersabea,
e lì invocò il nome del Signore,
Dio dell’eternità
(Gen 21,33)
Dove troveremo le risorse per il nostro impegno in favore del mondo creato? Come sosterremo la nostra azione a beneficio della Terra e dei viventi che la abitano? La mobilitazione ecologica, si sa, ha posto l’accento soprattutto sulla dimensione della paura e del senso di colpa; in altri termini, su sentimenti reattivi[1]. Se la paura gioca un ruolo indispensabile nel destare un senso di urgenza[2], può, da sola, alimentare un «partito preso» ecologico di lunga durata? Alla paura e al senso di colpa non bisogna associare sentimenti proattivi, sostenendo positivamente un impegno personale per la «casa comune»?
D’altra parte, l’allerta a proposito del clima e del futuro delle specie si accompagna alla diffusione di dati scientifici continuamente aggiornati. Essi riflettono il ruolo fondamentale della scienza nell’allarme dato (in risposta agli scetticismi di ogni tipo). Se questi dati svolgono un ruolo essenziale nella mobilitazione in corso, sono in grado di sostenere un impegno di fondo a beneficio del Pianeta verde e blu? «Il discorso della ragione non funziona», constata l’oceanografo François Sarano, nondimeno dedito, per mestiere, alla dimostrazione scientifica. Nella loro astrazione, le cifre non parlano: «200.000 tonnellate di plastica scaricate ogni anno nel Mediterraneo, che cosa significa?». Ciò che oggi conta innanzitutto, prosegue l’oceanografo, è di un altro ordine: «Bisogna condurre ciascuno a riprendere contatto con gli esseri viventi»[3].
Queste pagine cercheranno di dimostrarlo. Siamo chiamati dalla crisi attuale a riscoprire un legame di empatia con le altre specie viventi, vegetali e animali, nello spazio e nel tempo del «paesaggio», esteso all’intero Pianeta[4]. Il cammino da sé a sé a cui è chiamato l’essere umano non può più essere antropocentrico e solipsistico come lo è stato nella modernità: la vita dell’«io» passa attraverso la sua inclusione nel «noi» dei viventi, nell’orizzonte del mondo naturale. Questa trasformazione avviene sul piano della simpatia: passa attraverso una percezione immaginativa e affettiva degli altri viventi di questa Terra. Come si vedrà, essa incrocia ripetutamente la percezione resa possibile dalla poesia. Si conosce l’affinità immemorabile della poesia con la natura: le regole dello haiku (per attenersi a una tradizione) richiedono quindi l’inclusione di un riferimento alla stagione nel breve poema. Questa affinità riceve oggi una nuova attualità, quella di risvegliare in ognuno una comunione possibile con gli (altri) viventi di questa Terra[5].
Nell’itinerario qui proposto, la nozione di «esercizio» svolgerà un ruolo centrale. È giunto il momento per noi di esercitare di nuovo – o finalmente – la nostra empatia per gli esseri vegetali e animali che popolano il Pianeta, scoprendo quanto ne venga ravvivata la compassione per gli esseri umani. Per coloro che vivono della fede nel Dio Creatore, e dunque per gli eredi della Bibbia, gli esercizi in questione comprendono una dimensione propriamente spirituale. Opera di Dio, il creato non può essere solamente lo sfondo di una ribalta umana: esso è l’ambiente in cui Dio ha posto l’uomo, vivente tra i viventi. A Giobbe, Dio chiese: «Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri?» (Gb 38,4). Agli uomini di oggi, egli chiede: «Dove sei tu nella Terra dei viventi?».
L’ecobiografia
Nel suo saggio Je est un nous. Enquête philosophique sur nos interdépendances avec le vivant, il filosofo Jean-Philippe Pierron introduce una nozione particolarmente preziosa nella crisi attuale: quella di «ecobiografia». «Forma rinnovata del “conosci te stesso”», l’ecobiografia, egli scrive, «dispiega un’ecologia in prima persona, dove la persona non viene per prima»[6]. L’«io» umano vi gioca certamente un ruolo creativo, ma senza rubare la scena agli altri viventi, come avveniva nei pensieri antropocentrici che hanno avallato lo sfruttamento del mondo naturale. Si tratta infatti di percepirsi vivente in mezzo ai viventi: «Il dato più immediato del pensiero umano è così formulato: “Io sono vita che vuole vivere, circondata da vita che vuole vivere”»[7]. L’energia primaria dell’ecobiografia è dunque quella dell’empatia, in una «comunione simbiotica dei viventi»[8].
Una tale biografia, spiega Pierron, affonda le sue radici ben salde nell’infanzia, santuario della polisensorialità: l’infanzia è «la mobilitazione di una particolare trama del mondo, di un odore particolare, abitata dai profumi del segreto»[9]. Si pensi al percorso «tutto ronzante dell’odore dei biancospini», caro a Marcel Proust nella sua infanzia[10], o al faggio salutato da Pascal Riou, «il faggio che [mi] ha visto crescere: tu il mio soffio placido»[11]. È un’età in cui tutti siamo stati «arboricoli»: «Eravamo piccoli, ma talmente più grandi, quando, nell’albero dei nostri giochi, afferravamo con una mano un ramo più alto. E appollaiati su di esso, le ore meravigliate a contemplare la storia della specie che s’inventava in noi»[12].
Queste affinità sensoriali, nate prima che dessimo il primato al visivo, ripreso dal linguaggio, sono sopite in noi, in attesa di risveglio. Chi le rianima sperimenta molto spesso un incanto, in una forma di gratitudine.
Queste emozioni, antiche o nuove, non significano affatto che l’ecobiografia sia un estetismo in sospeso. «Le immagini poetiche del mondo che ci abitano – scrive Pierron – sono anche immagini che ci abilitano nelle nostre capacità di sognare, di prendere la misura delle nostre possibilità e dei nostri poteri di agire»[13]. L’immaginazione è proprio una categoria del volere e dell’agire: «Se valorizzare l’ecobiografia ha un senso non solo per se stessi, ma per gli altri e per la cura della Terra, è quello d’insegnarci a immaginare di più per volere meglio»[14].
Esercitarsi nel giardino
Dell’ecobiografia così concepita, Pierron spiega che essa «invita a degli esercizi del sé»[15]. La nozione di «esercizio» è al centro di varie tradizioni filosofiche e spirituali. Pierre Hadot, che ha scrutato la loro forma antica nello stoicismo e nell’epicureismo, definisce questi esercizi come «una pratica volontaria, personale, destinata a operare una trasformazione dell’individuo, una trasformazione del sé»[16]. Una pratica simile oggi merita di essere incentrata sul nostro legame con la Terra. Un primo esercizio è certamente quello della memoria, come si è detto. «E tu – chiede Pierron – nel labirinto che fa di una storia la tua storia, c’è da qualche parte un albero che ti attende, una sorgente che ti incanta, un giardino prospero e promettente?»[17].
Il giardino, appunto, si offre come un banco di prova. I «giardini», scrive il filosofo Robert Harrison, sono luoghi che «rallentano il tempo»[18]. Essi si prestano alle «stazioni» dell’esercizio, ispirando andature più lente, più attente, disponibili alle sorprese. Esercitarsi qui significa «erborizzare», rendersi attenti al modo distintivo di ogni specie vegetale. Nella sua raccolta L’ entrée dans le jardin, il poeta Pierre-Albert Jourdan ne parla così: «Una delle presenze più forti sarà stata quella del rosmarino ai piedi della terrazza. Non riesco a spiegarmelo, ma lo sento profondamente. Una sorta di slancio comune. Dall’interno. In segreto. In comunione segreta. Le torsioni dell’invisibile. Espanditi, apriti a questo bruciore, renditi femminile. Là, nel vuoto del tuo ventre, in questa fame, dai alla luce il mondo dell’adorazione. Non aggiungere nulla. Mantieni in te il ritirarti»[19].
Se i giardini rallentano il tempo, gli alberi, dal canto loro, lo rendono visibile. Nel testo Le dialogue de l’arbre, Paul Valéry scrive dell’albero, che esibisce «nello spazio […] un mistero del tempo»[20]. Il botanico Francis Hallé gli dà ragione: «Un albero è tempo reso visibile»[21]. Nella sua visibilità temporale – che si misuri in millenni, secoli o decenni – l’albero è l’inizio di un’esperienza emotiva. «Mi chiedo – scrive Hallé – se il primo rapporto con gli alberi non sia anzitutto estetico, prima ancora che scientifico. Quando si incontra un bell’albero, è semplicemente straordinario»[22].
La meraviglia si fa più profonda quando la percezione si affina. L’albero stupisce sempre «per il suo modo di essere vivo», osserva Bruno Sirven: «al contempo moltitudine – di rami o gemme capaci di rinnovarsi continuamente – e unità, entità priva di organi distinti»[23]. Si distingue nell’aspetto che gli è proprio: piramidale, conico, piangente, esteso. Colpisce per la sua particolarità: il suo adattamento al terreno, la sua resilienza in un contesto di avversità, il suo modo unico di inserirsi nel paesaggio.
Nella sua immobilità, l’albero, come tutta la flora, si rivela in un dispiegamento. «La fauna si muove – scrive Francis Ponge –, mentre la flora si dispiega allo sguardo»[24]. Tale dispiegamento è sia temporale sia spaziale: «Il tempo dei vegetali: sembrano sempre fissi, immobili. Ci si allontana per qualche giorno, una settimana, la loro posa è diventata ancora più precisa, le loro membra si sono moltiplicate. La loro identità non è in dubbio, ma la loro forma si è definita sempre meglio»[25].
Contemplare i grandi alberi, spiega a sua volta Yves Bonnefoy, è riscoprire in essi lo scorrere del tempo: «Ma laggiù le querce sono immobili, / neppure l’ombra si muove, nella luce, / sono le rive del tempo che scorre qui dove noi siamo». Il poeta poi aggiunge: «Abbiamo guardato gli alberi un’ora intera»[26]. Tra la durata dell’albero e quella della contemplazione umana, le temporalità si scambiano e si sostengono a vicenda.
L’esercizio si conclude, per così dire, nella raccolta che François Jacqmin ha dedicato alle Stagioni. Con l’autunno, scrive, «ecco l’effusione tranquilla di un sole forte del suo pallore […]. L’introspezione raggiungerà le pere»[27]. L’introspezione delle pere si riflette in quella dell’uomo che le contempla. L’uomo si pensa attraverso i frutti che maturano. A questo punto, l’uomo e l’albero sono in mezzo al frutteto.
L’iris selvatico
Nel giardino appena evocato, i fiori rappresentano una forma di quintessenza colorata. Nell’arco della loro stagione, creano un rapporto particolare con chi vi si avvicina. «Avvicinarsi a un fiore», scrive il poeta Pierre-Albert Jourdan in Entrée dans le jardin, «non è mai un atto inutile, o, se preferite, è la suprema inutilità che è la quintessenza dell’utile»[28]. Tale approccio è praticato, pagina dopo pagina, nella raccolta di Louise Glück (premio Nobel per la letteratura 2020) L’iris selvatico (1992). Addentrarsi in questa raccolta è scoprire una polifonia di voci e di discorsi, in «io» e «tu», sempre al cospetto dei fiori del giardino. Tre locutori vi prendono la parola. Un locutore umano – il poeta-giardiniere – si esprime in una prima serie di testi; gli risponde, in altri testi, la voce, anonima, della divinità. In una terza serie, disseminata nella raccolta, risuona la voce di piante e fiori, designati nel titolo: «L’iris selvatico», «Trillium», «Violette», «Fiori di campo», «Il papavero rosso», «Trifoglio»[29]. In questo triangolo di interlocuzione si esprimono aspirazioni e delusioni: i rispettivi mondi sarebbero inconciliabili? Tuttavia, una prospettiva attraversa l’insieme, che passa da una morte a una rinascita.
Il cambio delle stagioni, il susseguirsi del giorno e della notte, le variazioni della luce e del tempo (meteorologico) sono il punto di partenza di variazioni sui temi della vita, della morte e di una nascita dopo di essa. La prospettiva è orfica, e l’inverno vi rappresenta la prova radicale[30]. Così in questo testo, dove si sente l’«io» del bucaneve, al ritorno della primavera: Sapete cos’ero, come vivevo? Sapete / cos’è la disperazione; allora / l’ inverno dovrebbe avere senso per voi. / Non mi aspettavo di sopravvivere, / con la terra che mi schiacciava. Non mi aspettavo / di svegliarmi, di sentire / nella terra umida il mio corpo / capace di rispondere di nuovo, ricordando / dopo tanto tempo come riaprirsi / nella luce fredda / della primissima primavera: / impaurito, sì, ma di nuovo fra voi / gridando sì rischiare la gioia / nel vento aspro del nuovo mondo[31].
Risvegliarsi, ritrovare una voce: tale è la meraviglia per chi ritorna dall’inverno, dal non-essere invernale. I fiori di Glück si rispondono su questo punto: il bucaneve fa eco all’iris selvatico, nel primo testo della raccolta: «Tutto ciò / che ritorna dall’oblio ritorna / per trovare una voce»[32]. La poesia di Glück, come si può vedere qui, è una decifrazione del desiderio che assume la forma dell’analisi; il compito del trattamento psicoanalitico è proprio quello di assumere con voce personale ciò che ritorna dal più profondo. Il motivo del ritorno (della voce) attraversa l’opera di Glück; lo si ritrova in una raccolta più recente, anch’essa orfica, Averno (2006; il titolo prende il nome dal lago vulcanico vicino Napoli, dove gli antichi collocavano la porta degli Inferi). La poesia intitolata Echi recita così: Il lungo silenzio, come il silenzio nella valle, / prima che le montagne ti rimandino / la tua voce trasformata nella voce della natura[33].
Il fenomeno dell’eco – nella sua sospensione, nella sua temporalità, nel suo modo di modulare la voce – diventa una parabola del destino umano: la vocazione dell’uomo è prestare la sua voce a quella della natura e lasciarsi trasformare in essa. La natura non è un sottofondo da cui si leva la voce dell’uomo: questa, al contrario, diventa umana quando si raccoglie in quella della natura e la fa propria. Sia nei fiori del giardino sia nell’eco nella valle, la poesia di Glück è il luogo di sorprese esigenti. Prestarsi agli esercizi e alle variazioni che propone, da una stagione all’altra, è disporsi a una profonda conversione, è prepararsi a trovare una voce.
Esercizi spirituali e parlamento dei viventi
È difficile parlare di «esercizi» senza prendere in considerazione gli Esercizi Spirituali (ES) di Ignazio di Loyola. Essi incontrano la prospettiva offerta in queste pagine? Concepiti per una «riforma dello stato di vita» (ES 189), si prestano a una conversione che sia (anche) ecologica? Lo fanno, in modo sorprendente, nell’esercizio finale proposto da Ignazio, la Contemplatio ad amorem[34]. Quest’ultima riprende l’insieme degli Esercizi, ordinandoli alla grazia di potere «in tutto amare e servire la divina Maestà» (ES 233). Il secondo punto della contemplazione in questione recita: «Osservare come Dio abita nelle creature: negli elementi dando essere, nelle piante facendo vegetare, negli animali fornendoli di sensi, negli uomini dando l’intendere; e così in me dandomi essere, vita, sensi e facendomi intendere; così pure col fare di me un tempio, essendo io creato a somiglianza e immagine di sua divina maestà» (ES 235).
L’esercitante è quindi invitato a fare una «sosta» davanti a ogni tipo di creatura, inanimata, vegetale, animale, per scoprirvi il modo proprio in cui Dio l’abita, prima di vedere le «inabitazioni» in questione combinarsi nell’essere umano, immagine e somiglianza di Dio. La contemplazione è attraversata da un’evidente gerarchia, ma ogni tappa conta: per comprendere ciò che l’uomo è davanti a Dio, bisogna soffermarsi sulle creature diverse dall’uomo, facendo attenzione alla presenza di Dio in esse. L’esercizio prolunga la scena di Gen 1, in cui Dio crea gli esseri nella loro distinzione, e quella di Gb 39–41, dove Dio mette Giobbe davanti agli animali e gli rivela il loro modus vivendi, specie per specie. La contemplazione fa appello anche a Gen 2,9, dove Dio circonda l’uomo di alberi «graditi alla vista e buoni da mangiare». L’esercizio, inoltre, riecheggia il Sal 104, che canta la sollecitudine di Dio verso le creature vegetali e animali, nello stesso slancio della sua attenzione per l’uomo. L’esercizio proposto da Ignazio ha un evidente fondamento biblico; è anche uno di quelli la cui portata si deve (ri)scoprire oggi.
In un paragrafo dell’enciclica Laudato si’, papa Francesco propone una rilettura in questo senso della contemplazione ignaziana. Insiste sulla dimensione ad extra della mistica che essa implica, che va incontro agli esseri: «L’universo si sviluppa in Dio, che lo riempie tutto. Quindi c’è un mistero da contemplare in una foglia, in un sentiero, nella rugiada, nel volto di un povero. L’ideale non è solo passare dall’esteriorità all’interiorità per scoprire l’azione di Dio nell’anima, ma anche arrivare a incontrarlo in tutte le cose, come insegnava san Bonaventura: “La contemplazione è tanto più elevata quanto più l’uomo sente in sé l’effetto della grazia divina o quanto più sa riconoscere Dio nelle altre creature”[35]» (LS 233)[36].
Un aspetto della riflessione di papa Francesco merita di essere evidenziato. Parlando di foglia, di sentiero, di rugiada e del povero, egli evoca ciò che si presenta solo nella particolarità: tale foglia, tali gocce di rugiada, tale volto umano. Così facendo, il Papa s’inscrive nell’eredità del poeta gesuita Gerard Manley Hopkins e della sua interpretazione della Contemplatio ad amorem. L’intera impresa poetica di Hopkins (che si richiama al filosofo francescano Duns Scoto) è consistita nello scrutare ed esprimere l’haecceitas degli esseri, il loro modo unico di essere «questo»[37]. Se «il mondo è carico della grandezza di Dio», come scrive Hopkins, lo è «in diecimila luoghi», dove ogni essere «dirama l’essere che entro ognuno ha dimora; / sé è – se va; me stesso dice e scandisce, / proclamando Quel che faccio è me: per questo venni»[38]. Ciò che il poeta allora canta è la grazia di questo martin pescatore, di questa libellula, di questa pietra che risuona nel pozzo. Lo stupore per la diversità delle specie è prolungato dalla «conversione» alla particolarità degli esseri in ogni specie, il vivente essendo prima di tutto questo vivente, offerto alla mia riconoscenza.
Anche su questo punto i poeti ci precedono. Andando incontro all’essere naturale, a lui si rivolgono, mirando a lui nella sua particolarità. Pierre de Ronsard interpella il «bel biancospino verdeggiante»; Giacomo Leopardi si rivolge alla ginestra: «Odorata ginestra»; il poeta yiddish Leib Kvitko interroga il fiore: «Da dove vieni, bianco come la neve, inatteso, come un miracolo?»; Yves Bonnefoy si rivolge agli alberi: «Voi, fibrosa materia e densità». Parlare così alle piante e agli alberi significa salutarli, da vivente a vivente, liberandoli dal silenzio in cui li confina la nostra cultura[39]; significa accoglierli in quello che alcuni hanno chiamato il «parlamento dei viventi»[40].
In tale contesto, si apprezza meglio l’audacia della contemplazione ignaziana e la sua importanza per il nostro tempo. Essa stimola una contemplazione dell’inabitazione divina negli esseri creati, nella loro diversità come nella loro particolarità. Questi esseri ne ricevono come un aumento di «gloria», essendo sostenuti nell’essere dal Signore dell’universo. Ma c’è di più: la contemplazione si riflette su Dio stesso. Le creature ci danno accesso alla sua stessa gloria. Paradossalmente, la trascendenza di Dio si unisce alla sua vicinanza alle creature e alla sua presenza in esse. Prestando attenzione a queste – alle voci nella foresta, al fruscio delle foglie, a un volo di uccelli –, ci prepariamo a riconoscere il Dio che passa[41]. La posta in gioco è proprio questa: quando è colto nelle creature viventi – umane e altre, unite nella bontà della creazione –, Dio appare tanto più come il Vivente. Quando il salmista confessa: «Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi» (Sal 27,13), possiamo comprendere che il Vivente ci dà appuntamento nella «terra dei viventi» e non altrove[42].
Un libro della Bibbia, il Cantico dei Cantici, è il santuario di tale esperienza. Dialogo amoroso in «io» e «tu», moltiplicando le metafore vegetali e animali, esso si è prestato in molti modi a un uso allegorico, quello del dialogo mistico. L’incontro con l’Altro divino avviene nel caleidoscopio delle manifestazioni vegetali e animali. Dio si manifesta nell’arrivo saltellante della gazzella, che si ferma e osserva (cfr Ct 2,8-9), prima di riprendere il cammino sopra i monti (cfr 8,14), nelle colombe su ruscelli d’acqua (cfr 5,12), oppure nella generosità del melo che offre la dolcezza del suo frutto (cfr 2,3)[43]. Queste epifanie del divino ci aprono gli occhi: mettere in pericolo la diversità delle specie significa anche compromettere un nostro accesso a Dio, il cui mistero si declina «in diecimila luoghi»[44]. Incontrarlo nella «Terra dei viventi» è decidersi a favore della Terra e dei viventi in questione: il Dio Creatore si rivelerà in loro[45].
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Queste pagine hanno proposto forme di esercizi per rianimare la nostra empatia con i viventi di questa Terra. Solo tale empatia può rinvigorire il nostro impegno ecologico, donandogli, per così dire, linfa e respiro. Questa conversione, tra ecobiografia ed ecopoesia, è anche religiosa. «Dove sei tu?», chiede il Dio Creatore, mentre ci aspetta nella «Terra dei viventi». Nulla motiva il nostro impegno per questa Terra più dell’appuntamento che Dio ci dà qui[46].
Copyright © La Civiltà Cattolica 2021
Riproduzione riservata
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THE LAND OF THE LIVING. For an ecobiography at the time of the ecological crisis
Where will we find the resources for our commitment to the created world? The ecological mobilization has placed the emphasis principally on the dimension of fear and guilt, in other words, on reactive feelings. On the other hand, the alert is accompanied by the dissemination of scientific data, of great importance, but which many consider abstract. The article explores a proactive way: from the current crisis, we are called to rediscover an empathic bond with other living species, plants and animals, in the space and time of the “landscape,” extended to the entire planet. This path passes through ecobiography and ecopoetry and requires a conversion to the living God who is encountered in the “Land of the Living.”
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[1]. Cfr J.-Ph. Pierron, Je est un nous. Enquête philosophique sur nos interdépendances avec le vivant, Arles, Actes Sud, 2021, 28.
[2]. Cfr C. Benedetti, «Il coraggio di avere paura», in Id., La letteratura ci salverà dall’estinzione, Torino, Einaudi, 2021, 48 s.
[3]. F. Sarano, «Il faut amener chacun à reprendre contact avec le vivant», in Le Monde, 3 settembre 2021, 7.
[4]. Le pagine seguenti si concentrano sul rapporto dell’uomo con il mondo vegetale e animale; si dovrebbe elaborare un discorso analogo a proposito del mondo inanimato, in particolare di quello minerale. Il concetto di «paesaggio» è qui fondamentale. Cfr, per esempio, V. Lingiardi, Mindscapes. Psiche nel paesaggio, Milano, Raffaello Cortina, 2017.
[5]. Questa attualità si traduce nel campo crescente dell’«ecopoetica». Cfr N. Blanc – D. Chartier – Th. Pughe, «Littérature & écologie: vers une écopoétique», in Écologie & politique, n. 36, 2008/2, 15-28; S. Strazzabosco (ed.), Oikos. Poeti per il futuro, Milano, Mimesis, 2020; e il dossier in www.fabula.org/atelier.php?Ecopoetique
[6] . J.-Ph. Pierron, Je est un nous…, cit., 38.
[7] . Ivi, 75.
[8] . Ivi, 57.
[9] . Ivi, 60.
[10]. Cfr M. Proust, Du côté de chez Swann, Paris, Gallimard, 1954, 138.
[11]. P. Riou, D’âge en âge. Poèmes, Paris, Conférence, 2018, 8.
[12]. Cfr J.-P. Sonnet, «Arboricoles», in Id., Sapiens. Nul n’échappe à l’origine (di prossima pubblicazione).
[13]. J.-Ph. Pierron, Je est un nous…, cit., 34. Il debito di Pierron nei confronti del pensiero di Paul Ricœur è qui manifesto; Ricoeur scrive: «È nell’immaginazione che provo il mio potere di fare, che prendo la misura dell’“io posso”» (P. Ricœur, Du texte à l’action, Paris, Seuil, 1986, 225).
[14]. J.-Ph. Pierron, Je est un nous…, cit., 26.
[15]. Ivi, 59.
[16]. P. Hadot, La philosophie comme manière de vivre. Entretiens avec Jeannie Carlier et Arnold I. Davidson, Paris, Albin Michel, 2001, 144. L’ebraismo rabbinico e l’islam del sufismo hanno forme di esercizio simili. Cfr in particolare J. Schofer, «Spiritual Exercises in Rabbinic Culture», in AJS Review 27 (2003/2) 203-225; Qamar-ul Huda, Striving for Divine Union. Spiritual Exercises for Suhrawardī Sufis, London, Routledge, 2002; M. de Fenoyl, «Propos de soufis. Mystique musulmane et Exercices spirituels de saint Ignace», in Archivo Teológico Granadino 81 (2018) 9-70. Non è mancato chi ha equiparato la scrittura poetica a tali esercizi. Scrive Gérard Bocholier: «Non è forse ogni scrittura poetica un esercizio spirituale nella misura in cui il lavoro del linguaggio è anche un lavoro su se stessi, anche nel senso in cui, più o meno confusamente, il poeta sa che deve cancellarsi davanti a qualcosa – o qualcuno – più grande e più forte di lui?» (G. Bocholier, Le poème, exercice spirituel, Paris, Ad Solem, 2014, 5).
[17]. J.-Ph. Pierron, Je est un nous…, cit., 59.
[18]. R. P. Harrison, Gardens: An Essay on the Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 2008, 39.
[19]. P.-A. Jourdan, L’ entrée dans le jardin, Losne, Th. Bouchard, 1984, 20.
[20]. P. Valéry, Eupalinos. L’ Âme et la danse. Dialogue de l’arbre, Paris, Gallimard, 1945, 179.
[21]. F. Hallé, La vie des arbres, Paris, Bayard, 2011, 13.
[22]. Id., Catalogue de l’exposition «Nous les arbres» (12 juillet 2019 – 5 janvier 2020), Paris, Fondation Cartier pour l’Art contemporain, 2019, 2.
[23]. B. Sirven, «Voir l’arbre. Regard porté à la croisée des invisibles», in E. Zürcher, Les arbres entre visible et invisible, Arles, Acte Sud, 2016, 234.
[24]. F. Ponge, Le parti pris des choses, précédé de Douze petits écrits et suivi de Proêmes, Paris, Gallimard, 1967, 80.
[25]. Ivi, 82.
[26]. Y. Bonnefoy, «Les Arbres», in Id., Ce qui fut sans lumière, Paris, Mercure de France, 1987.
[27]. F. Jacqmin, Les Saisons, poèmes en prose, Bruxelles, Labor, 1988, 111; 119.
[28]. P.-A. Jourdan, L’ entrée dans le jardin, cit., 23.
[29]. Nella «persona» dei fiori, che parlano in prima persona, si ritrova il «noi siamo il Fiore» di Emily Dickinson («La margherita segue sommessa il sole»).
[30]. Si riconoscono qui, sullo sfondo della poesia di Glück, Rainer Maria Rilke e i suoi Sonetti a Orfeo.
[31]. L. Glück, L’ iris selvatico, Milano, il Saggiatore, 2021, 27.
[32]. Ivi, 15.
[33]. Id., Averno, Milano, il Saggiatore, 2020, 73.
[34]. Cfr, con accenti diversi, E. Jensen, «Ecological Conversion and the Spiritual Exercises», in The Way 59 (2020/2) 7-18.
[35]. Bonaventura da Bagnoregio, s., In II Sent., 23, 2, 3.
[36]. La prospettiva qui sviluppata può essere caratterizzata come una forma di «panenteismo», per riprendere l’espressione del filosofo Karl Krause (1781-1832), ovvero l’affermazione della presenza di Dio in tutti gli elementi della natura, senza tuttavia assimilare l’uno agli altri come nel caso del panteismo. Nel formulare il panenteismo, Krause si è ispirato in particolare alla tradizione ortodossa; cfr la sintesi in M. Egger, La terre comme soi-même. Repères pour une écospiritualité, Genève, Labor et Fides, 2012, 128-166, che si riferisce soprattutto alle argomentazioni del filosofo ortodosso russo Sergej Bulgakov (1871-1944) sulla Sapienza divina. Papa Francesco sviluppa visioni molto simili nell’esortazione apostolica Querida Amazonia, accogliendo il contributo dei popoli indigeni nel loro rapporto con la natura del bacino amazzonico (cfr nn. 41-60).
[37]. Mentre Aristotele e san Tommaso d’Aquino situano il principio di individuazione degli esseri (individui all’interno della specie) nella materia, Duns Scoto lo pone nell’ultima determinazione formale (l’haecceitas), che fa sì che un individuo sia se stesso e si distingua da tutti gli altri.
[38]. G. M. Hopkins, Dalle foglie della Sibilla. Poesie e prose, Milano, Rizzoli, 1992, 173.
[39]. Sul tema del silenzio in cui si è trovato rinchiuso il mondo naturale, cfr
D. Abram, The Spell of the Sensuous: Perception and Language in a More-Than-Human World, New York, Random House, 1996.
[40]. Il filosofo Bruno Latour ha formulato l’idea di un «parlamento delle cose», che tenga conto delle richieste giuridiche non solo degli umani, ma anche dei «non umani» di questo mondo (B. Latour, «Esquisse d’un Parlement des choses», in Écologie & politique 56 [2018] 47-64). Marielle Macé reinterpreta il parlamento in questione come «parlamento dei viventi»: «La terra si fa sentire, il parlamento dei viventi chiede ora di essere allargato. Esteso ad altre voci, altre intelligenze, altri modi di fare per vivere […]. L’ampliamento radicale delle forme di vita da considerare e degli accordi da costruire, questo è il punto cruciale» (M. Macé, Nos cabanes, Lagrasse, Verdier, 2019, 97).
[41]. A proposito di una pratica simile nel giudaismo chassidico, cfr
J. Baumgarten, «Prier dans les bois et les champs. Israël Baal Shem Tov et la nature», in Tsafon 76 (2018) 27-50.
[42]. L’espressione compare 14 volte nella Bibbia ebraica: cfr in particolare Sal 27,13; 116,9; 142,6, dove «si riferisce alla terra come il luogo delle creature viventi» (H. Ringgren, «יח ḥaj», in Theological Dictionary of the Old Testament, IV, 341).
[43]. La tradizione interpretativa, ebraica e cristiana, non ha mancato di percorrere questa strada. Per il midrash, la gazzella che salta è Dio stesso, che accompagna, vigilante, il popolo nell’uscita dall’Egitto (Cit Rabba 2,9); dal canto suo, Giovanni della Croce, nel suo Cantico spirituale, fa sentire il volgersi dell’anima a Dio: «Come un cervo fuggisti» (Cantico spirituale, 1).
[44]. Proteggere questa diversità è prolungare il gesto di Adamo, che diede nome agli animali del suo biotopo (cfr Gen 2,20), e quello di Salomone, che «parlò delle piante, dal cedro del Libano all’issòpo che sbuca dal muro, parlò delle bestie, degli uccelli, dei rettili e dei pesci» (1 Re 5,13).
[45]. Per attenersi alle attribuzioni più dirette: Dio è assimilato alla rugiada e al cipresso sempreverde (in Os 14,6.9); nel suo amore geloso per il suo popolo, si presenta come un leone, una leonessa o un leoncello, come una pantera, o anche come un orso (cfr Os 5,14; 13,7-8); in Es 19,4 e Dt 32,11 Dio paragona la sua premura verso il suo popolo a quella dell’aquila.
[46]. La realtà teologica discussa in queste pagine ha un’evidente dimensione cristologica. A partire dall’articolo di J. G. Gibbs, «Pauline Cosmic Christology and Ecological Crisis», in Journal of Biblical Literature 90 (1971) 466-479, è essenzialmente il pensiero paolino che ha fornito supporto alla cristologia in questione. Ma ci sarebbe anche da considerare l’affinità di Gesù con il mondo del frutteto, della vigna e dell’orto, e la sua attenzione al mistero della germinazione e della fruttificazione. Cfr G. C. Pagazzi, «“Del Signore è la terra”. L’attenzione di Gesù alla campagna», in La Rivista del Clero Italiano 96 (2015) 785-795.